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Il re è nudo

  • Pubblicato il: 16/02/2015 - 12:14
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Alessandra Gariboldi

I nodi al pettine
La contrazione delle risorse che per anni hanno garantito la faticosa sostenibilità della cultura in Italia è un fatto che tutti conosciamo, ma i numeri sono impressionanti: Ministero, Regioni ed enti locali negli ultimi 5 anni hanno perso il tra il 20 e il 30% dei budget dedicato alla cultura. Le risorse destinate al Mibact sono oggi lo 0,20% delle spese dello stato e solo lo 0,10% del PIL.
Oltre alla quasi scomparsa degli investimenti le riduzioni per le spese correnti, che in taluni casi superano il 50%, hanno messo in ginocchio la maggior parte dei luoghi della cultura. A sette anni dall’inizio della crisi economica, finalmente il re è nudo. Certo i tagli avranno impatti differenti in base alla dimensione e alla natura delle istituzioni culturali, ma è ormai chiaro che pochi saranno in grado di evitare di ridurre gli orari di apertura al pubblico o addirittura di chiudere, per non parlare della qualità dei servizi erogati. I dati dimostrano che non si tratta di una crisi passeggera e locale ma strutturale e globale: le risorse pubbliche per la cultura andranno diminuendo sempre di più.
 
 
 
Cattive abitudini (vecchie e nuove)
L’attuale sistema di finanziamento largamente basato su risorse pubbliche è insostenibile, soprattutto (ma non esclusivamente) in un paese come il nostro, in cui l’entità stessa dei beni e delle attività culturali è di per sé eccezionale: 4588 luoghi della cultura, 70 i teatri stabili, 14 fondazioni lirico sinfoniche, centinaia realtà medie e piccole che operano nello spettacolo e nelle arti. Ma anche il contrario, conti alla mano, non è un’alternativa percorribile: che la cultura vada pagata da chi ne fruisce e che il privato (magari quello sociale) possa farsi carico di ciò che il pubblico non può più permettersi. La cultura non potrà mai e in nessun caso esistere senza il contributo pubblico.
La seconda cattiva abitudine è di pensare che la cultura non possa essere strumentale, perché ciò significa svilirne la natura. La terza è che in Italia quando si parla di cultura la si fa coincidere (ed esaurire) con il concetto di patrimonio materiale e immateriale, comunque catalogabile. Ma parlare di cultura significa anche ragionare della sua capacità di generare impatti (culturali, economici, sociali). Da qui si può e si deve partire per interpretare lo scenario in cui viviamo. Uno scenario che, sinora, le organizzazioni culturali hanno perlopiù subito.
 
 
 
Mondo che cambia, cultura che resta
Palare di un settore trattando di cultura è difficile, e forse anche scorretto. Ma, a grandi linee, il sistema della produzione culturale è una filiera in cui la ricerca, la creazione, l’organizzazione, la distribuzione e la fruizione dei contenuti sono rimasti immutati da oltre un secolo. Istituti come musei, biblioteche, archivi, ma anche soggetti for profit come editori, curatori e galleristi sono gli attori che storicamente hanno dato forma e organizzato il sapere in questo scenario, giocando un ruolo fondamentale nel definire quello che oggi collettivamente consideriamo cultura. Tuttavia, queste dinamiche e questi soggetti configurano nell’insieme un sistema nato su presupposti oggi radicalmente in discussione. E non solo per motivi economici, ma anche culturali.
I presupposti non più veri sono molti, ma ne vanno ricordati almeno alcuni. Il primo è che, essendo la cultura un bene di interesse pubblico, dovesse essere sostenuta esclusivamente da soggetti pubblici. Il secondo era che la crescita economica – e quindi il gettito erariale – fossero costanti o comunque progressivi. Il terzo presupposto era scarso ruolo in questo gioco dei privati, trattati con sospetto dal mondo della cultura, come pericolosi portatori di interessi particolari, o come mecenati (che in cambio del proprio denaro chiedono solo prestigio) o, nella migliore delle ipotesi, fornitori di servizi a basso costo. Infine, il presupposto che la società e le sue dinamiche fossero destinate a restare verticali, la produzione e il sapere nei fatti accessibili a pochi, impegnati a educare masse più o meno consenzienti.
Fatalmente, niente di tutto questo è più vero. Dal punto di vista sociologico, sono cambiate le regole della produzione e del consumo, anche culturale, vorticosamente accelerati dalle trasformazioni tecnologiche. Sono cambiate le prospettive di crescita economica. E’ cambiato il ruolo del privato, che quotidianamente dimostra e reclama il proprio ruolo di attore dell’interesse (anche) pubblico.
I soli a non essere cambiati siamo noi. Continuiamo ad agire nello stesso modo in un contesto radicalmente diverso. Molte istituzioni – soprattutto quelle più strutturate e consolidate – nel mezzo di questi stravolgimenti sembrano impreparate nel ripensare il proprio senso e il proprio futuro. E, troppo spesso, tendono a ridurre tutto a una questione di tagli e di soldi, cercando rimedi economici a problemi economici. La cultura sopravvivrà, ma non è detto che questo avvenga per tutte le forme con cui la definiamo oggi.
 
 
 
Il «nuovo» nella cultura che conosciamo
È in questo scenario e con questi presupposti che siamo chiamati a leggere il nuovo. Un nuovo che viene dalle nuove imprese culturali, ma che si trova anche all’interno di alcune grandi istituzioni ereditate dal passato.
In mezzo alla crisi generalizzata, vi sono infatti alcune grandi realtà culturali che mostrano i segni dei nuovi tempi. Sono attente a pensare (e misurare) gli impatti che generano, e non solo quelli economici. Un esempio su tutti è Palazzo Madama, all’interno della Fondazione Torino Musei. Il museo si è dotato di un piano strategico, e sviluppa progetti, sperimentando, rischiando, e costruendo relazioni con le diverse comunità alle quali si rivolge. Non parliamo di una struttura ricca, ma di un museo che tra il 2009 e il 2014 ha visto una riduzione del budget del 60%. Non sono molte le istituzioni ad aver reagito in questo modo ai tagli, ma esistono. Non potranno mai prescindere dal finanziamento pubblico: come tutti i musei anche solo per conservare in sicurezza il loro enorme patrimonio, hanno costi fissi esorbitanti. Ma possono essere forti e capaci di grandi progettualità culturali anche a fronte di bilanci decurtati. Come? Accettando di mettersi in gioco, di rischiare, di dialogare con i cittadini, le imprese, le forme culturali “altre”.
 
Nell’alveo delle organizzazioni culturali di tipo tradizionale, vi sono anche numerose nuove realtà di spettacolo dal vivo che stanno cercando la loro strada. Liberi dai costi di gestione del patrimonio che appesantiscono i musei, sono strutture ovviamente più leggere, ma hanno un’offerta sostanzialmente tradizionale, cioè produzione di spettacoli, stagioni teatrali e concertistiche, festival, gestione di spazi teatrali. Nulla di nuovo, dunque, tranne che affrontano il lavoro culturale con spirito imprenditoriale. Il bando fUNDER35, promosso da ACRI con 10 fondazioni di origine bancaria, in tre anni ha supportato una cinquantina di queste organizzazioni, aiutandole a sviluppare nuove professionalità, a rivedere le forme organizzative, a sviluppare nuovi prodotti e servizi per rendersi sostenibili. Anche qui il finanziamento pubblico resta essenziale, ma è drasticamente ridotto rispetto a pochi anni fa. Non è che una parte, talvolta minima, delle fonti di sostenibilità. Queste giovani realtà dimostrano che, anche nelle arti performative, questo è un cambiamento possibile senza intaccare, ma anzi potenziando, la ricerca e la sperimentazione artistica di qualità.
 
 
 
Nuovi soggetti, nuove forme
Gli ultimi arrivati, i nuovi soggetti che popolano il sistema culturale e che in parte lo fanno con nuove forme e diverse regole, sono le esperienze più interessanti a cui guardare per capire come e quanto le cose sono cambiate: sono centri culturali indipendenti, sono progetti territoriali che prevedono l’integrazione con altre filiere. Sono realtà molto varie dal punto di vista organizzativo, propongono il riuso creativo di aree ex industriali, la riappropriazione e rigenerazione del patrimonio culturale dormiente o a rischio, fanno largo ricorso al lavoro volontario o sotto-pagato.
Hanno tutte imparato fin da subito a muoversi al di fuori della logica del contributo pubblico, continuamente obbligate a ricercare e sperimentare nuovi modelli di sostenibilità.
Sono migliaia le progettualità di questo tipo, come dimostrano i dati delle candidature ai Bandi IC_Innovazione Culturale di Fondazione Cariplo e cheFare e cheFare2. Anche solo questi dati, ora messi a disposizione come Open data, raccontano di oltre 1.500 nuove idee e progetti per innovare la cultura e metterla al centro di processi di sviluppo.
Cosa ci dicono queste realtà? Che il nuovo si muove intorno alle economie della condivisione e della collaborazione, alle sfide dell’innovazione sociale a vocazione culturale, all’allargamento e dei mercati della cultura. Che il nuovo sta non nella cultura in sé, ma nella cultura in relazione alle altre componenti sociali ed economiche. Una realtà che non possiamo più ignorare.
 
 
 
C’è ancora speranza
Secondo un recente studio del centro ASK Bocconi, sarebbero circa una novantina le iniziative, più o meno piccole, che amministrazioni pubbliche e soggetti privati hanno messo in campo per sostenere processi di innovazione in qualche modo legati alla cultura (anche se solo una su quattro è direttamente riferibile al settore culturale in senso stretto).
Questi bandi sono preziosi perché portano alla luce migliaia di progetti e modelli innovativi fondati sulla cultura. Per ora sono solo novità. Ma se riusciranno a insegnarci qualcosa, a vedere il lavoro culturale come qualcosa di possibile e di diverso, allora si trasformeranno in vera innovazione.
 
Ciò di cui la cultura in Italia ha un disperato bisogno non è (solo) denaro – quello è sempre stato insufficiente- ma visione e competenze per tutte le componenti chiave: organizzazioni culturali, amministrazioni pubbliche, comunità del cambiamento. Molte delle esperienze e dei progetti selezionati dai bandi di nuova generazione rappresentano un luogo privilegiato per sperimentare e comprendere nuove forme di relazione e di sostenibilità. Se non vogliamo che tutto quello che fino a ieri abbiamo chiamato cultura finisca, è qui che dobbiamo guardare. E muoverci, ora.

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Alessandra Gariboldi è Coordinatrice Ricerca e Consulenza di Fondazione Fitzcarraldo