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Sull’azione dei musei: teoria e pratica. Il caso del MAN di Nuoro

  • Pubblicato il: 13/05/2016 - 16:37
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Giangavino Pazzola

Ci sono condizioni geografiche sfavorevoli, che diventano precondizione per una progettualità di ancor più ampio respiro. Il concetto di sinergia è alla base delle sensibilità che hanno dato vita (anche) al nuovo ciclo di mostre dell’istituzione sarda, e raccontano di un modus operandi dinamico in cui il momento espositivo è il passaggio più visibile di una ricerca articolata, capillare e trasmissibile. Tre mostre personali e “corali” allo stesso tempo, quelle di Roman Signer – la prima in un’istituzione italiana per l’artista svizzero, Ettore Favini e Salvatore Fancello. Ne parliamo con il direttore, Lorenzo Giusti

 
Nuoro. Collezione, circuitazione e nuove produzioni. Attivazione di risorse locali, network internazionali, cooperazione pubblico e privato. Curare il rapporto con gli spettatori, senza dimenticarsi di meravigliare e allargare il punto di vista con (ri)scoperte. Valorizzare i talenti e le risorse interne, in un frame di discussione internazionale. Appunti sparsi di una conversazione con Lorenzo Giusti, direttore del MAN di Nuoro e membro del C.d.A di AMACI, sulle attività e il ruolo attuale del museo.
 
 
 
Al museo MAN di Nuoro sono state inaugurate tre belle mostre delle quali converseremo in questa intervista. Partiamo dalla mostra Roman Signer. Films and Installations, da te curata insieme a Li Zhenhua, prima personale dell’artista svizzero in un museo italiano. Un percorso fatto di duecento filmati storici e una serie di installazioni inedite, vecchie e nuove produzioni per raccontare una ricerca orientata a ridefinire il concetto di scultura. Qual è la genesi del progetto e quale approccio avete ritenuto più idoneo a costruire la grammatica della mostra?
La prima idea l’ho avuta all’inizio dello scorso anno visitando la mostra “Early works” nella galleria di Martin Janda a Vienna. C’erano disegni, fotografie e alcuni video degli anni Settanta e Ottanta. E’ lì che ho realizzato con stupore che Roman non aveva mai avuto una mostra personale in un museo italiano. Un artista così significativo, con mezzo secolo di lavoro alle spalle, non potevamo limitarci a invitarlo per realizzare dei nuovi lavori, dovevamo trovare una formula diversa, che tenesse conto della sua storia. La cosa più coerente mi è sembrata quella di chiedere a Li Zhenhua, un curatore cinese che aveva da poco organizzato una mostra in Cina in cui era stata presentata la collezione completa dei suoi Film in Super 8, di aiutarmi a portare a Nuoro l’installazione realizzata in quella occasione. Così Zhenhua si è occupato di attivare i canali con la Cina ed io ho seguito lo sviluppo dei cinque nuovi lavori realizzati per la mostre al MAN -  tre installazioni, tra cui due site specific, e due nuovi video girati sulle spiagge del golfo di Orosei - oltre alla curatela del volume che pubblicheremo a giugno.
 
 
 
Le coordinate spaziali e temporali caratterizzano per definizione la ricerca di Signer, conosciuta per la messa in scena di azioni di distruzione controllata. Nel catalogo compaiono testi di Barbara Casavecchia e Rachel Withers, oltre che dei curatori, e un dvd delle azioni realizzate da Signer in Italia a partire dagli anni 90 ad oggi. Esiste una specificità ambientale in questo corpus di lavori?
Il volume - che si intitolerà “Un passo verso il mare”, come uno dei due video girati in Sardegna - seguirà uno sviluppo in parte autonomo rispetto alla mostra. Non si tratterà di un semplice catalogo ma di un vero e proprio libro, edito da Humboldt Books, che racconterà il lavoro di Signer e il suo rapporto con l’Italia. Oltre alla documentazione delle opere in mostra, il libro raccoglierà tutta una serie di materiali inediti, come schizzi, fotografie di viaggio, testimonianze. Ci sarà anche un dvd allegato contenente le azioni realizzate in Italia e un film di viaggio uscito dal cassetto in occasione di una mia visita a San Gallo. Si tratta di un montaggio di appunti visivi in cui Roman sembra divertirsi a decostruire la tradizionale estetica del Grand Tour andando a caccia di tipicità “altre”, meno esotiche e più umane.
 
 
 
Questo progetto vede la collaborazione tra più attori pubblici e privati. Come avete lavorato e che processo di produzione culturale si è configurato?
Per la parte relativa alla videoinstallazione di fatto si è trattato di una coproduzione con il Chronus Art Center di Shanghai. Questo ci ha permesso di abbattere costi che difficilmente avremmo potuto sostenere da soli. WTI, una società di produzione di progetti artistici multimediali, ci ha inoltre concesso una sponsorizzazione tecnica, permettendoci di abbattere altre spese. A questo si è aggiunto il contributo per i trasporti di Pro Helvetia, la fondazione che sostiene il lavoro degli artisti svizzeri fuori dai confini del proprio paese. A monte ci sono i contributi che la Regione e la Fondazione di Sardegna erogano al museo per il suo funzionamento.
 
 
 
Nella mostra personale di Ettore Favini, dal titolo Arrivederci, la componente ambientale e territoriale è egemone – direi. Un progetto che si sviluppa quasi in maniera etnografica dall’esperienza formale e relazionale dei luoghi. Come si è tradotta tale complessità negli spazi del museo?
Più che di egemonia parlerei di un elemento costitutivo, che fonda il pensiero alla base del progetto. La mostra, curata da Chiara Vecchiarelli, nasce da una raccolta di tessuti fatta durante un viaggio in Sardegna. Favini tratta il territorio come un ecosistema, dandone una descrizione corale, nel suo insieme, e non come semplice somma di parti. Sono le basi del pensiero sistemico. Formalmente il tutto si è risolto nella costruzione di una grande vela realizzata cucendo tra loro i tessuti donati dagli artigiani e dagli artisti sardi e in una serie di altri lavori più scultorei.
 
 
 
Il MAN è uno dei pochi musei in Italia, se non l’unico, ad avere un programma specifico per la valorizzazione degli artisti italiani mid-career.  Anche in questo caso avete sperimentato una co-produzione con il Museo d’arte contemporanea Villa Croce di Genova. Qual è stato il metodo di lavoro e come si presenta questo progetto agli occhi del pubblico?
Credo sia un dovere delle Istituzioni cercare di intervenire laddove il sistema mostra delle falle. Notoriamente la “mezza età” è spesso un momento difficile per gli artisti, che - né giovani, né affermati - si trovano in una terra di mezzo che poco piace al mercato e alla comunicazione. In questo caso MAN e Villa Croce si sono messi assieme per sostenere il progetto di un artista nel pieno di questo passaggio. Il visitatore che avrà visto la mostra in una delle due sedi sarà invogliato a visitare l’altra. Per farlo magari deciderà di prendere una nave e se sarà fortunato, nella cabina di questa nave, potrà trovare una tenda particolare, fatta da Favini con i tessuti raccolti in Sardegna. L’artista l’ha sostituita di nascosto a quella originale durante il viaggio di ritorno dall’isola.
 
 
 
Ultima, ma non in termini di valore, la mostra con il corpus completo dei disegni dell’artista Salvatore Fancello. Circa ottanta opere della collezione del MAN celebrano i cent’anni dalla nascita di un artista poco conosciuto ai più a causa della sua prematura scomparsa a soli 24 anni. Quali le specificità di questo progetto e quali i punti di contatto con le mostre descritte qui sopra?  
La mostra di Fancello segue linee proprie e occupa gli spazi solitamente destinati a ospitare i focus sulla collezione del museo. Fancello è stato una meteora nell’arte del nostro paese. Nel 1930 vinse una borsa di studio che gli permise di lasciare Dorgali per iscriversi ai corsi dell’Isia di Monza. Fu allievo di Giuseppe Pagano e di Marino Marini. Oltre che ceramista fu anche – e a mio avviso soprattutto – un fantastico disegnatore. Se nella ceramica possiamo trovare delle assonanze stilistiche con il lavoro coevo di Fontana e Leoncillo, per quanto con iconografie diverse, è nel disegno che Fancello dimostra la sua originalità: un percorso libero e autonomo, che parte dal dato reale per giungere a esiti surreali. Nei pochi anni in cui operò fu sostenuto dai critici milanesi più raffinati, legati alla rivista “Corrente”, come Leonardo Sinisgalli, Nino Bertocchi, Giulia Veronesi. Anche Argan lo aiutò.  Morì giovanissimo in guerra, sul fronte albanese.
 
 
 
Anche in questo caso avete sviluppato una progettualità che mette in rete diversi attori, a una scala differente dai due casi citati in precedenza. Quali realtà e come agiscono?
La collezione di opere di Fancello del MAN si compone soprattutto di disegni acquisiti o ricevuti in dono e da un gruppo di comodati concessi da alcuni membri della famiglia. Salvatore era il penultimo di dodici fratelli. Alla sua morte le poche opere esistenti furono raccolte da Giovanni Pintori – il noto grafico della Olivetti, suo grande amico - e distribuite ai fratelli. A questi comodati si è aggiunta, in occasione di questa mostra, una donazione di Alberto e Alma Montrasio che ha portato a circa ottanta il numero di opere conservate dal MAN.
 
 
 
Alla luce della tua esperienza, quale è il ruolo odierno dei musei (e come sta cambiando) e verso quale modello si potrebbe andare? Quali aspetti rafforzare e quali, invece, sono i limiti della condizione attuale? 
La rivoluzione digitale, i mutamenti geopolitici economici e ambientali pongono i musei di fronte a una sfida generazionale di riscrittura del proprio ruolo. Pensiamo a Internet, a come ha cambiato la nostra visione del mondo. Il Web ci appare sempre più come luogo materiale; non una zona virtuale diversa dalla realtà, ma una sostanza concreta che permea la nostra vita di ogni giorno. L’arte e il suo sistema hanno recepito questo mutamento, andando incontro a una profonda trasformazione delle pratiche di produzione e fruizione, e questo ha messo in discussione le convenzioni espositive, le dinamiche di mediazione e i sistemi di legittimazione. La visione di un’opera passa sempre di più attraverso lo schermo. Le photogallery delle mostre sono diventate imprescindibili nella comunicazione, sostituendo in molti casi la visione dal vero. Di fronte a questo scenario dobbiamo chiederci quale futuro ci sia per il museo, come istituzione, come spazio fisico, come custode di memorie e come luogo di elaborazione e confronto. Penso soprattutto al museo d’arte contemporanea. Come cambiano le pratiche curatoriali, le strategie espositive, le politiche di collezionismo e di conservazione, i sistemi della didattica? Credo che in futuro i musei dovranno cercare di essere sempre più dei luoghi di esercizio del pensiero critico, spazi di dibattito e di socializzazione alternativi a quelli virtuali, dove vivere esperienze immersive, che la rete non può fornire.
 

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