Fertilizzare i contesti comunitari per rigenerare i Patrimoni territoriali
FOCUS Unesco da RAVELLO LAB. Quali politiche e strategie possono essere concretamente messe in campo a sostegno della Cultura del Patrimonio? Quali le criticità e le risorse strumentali per trasformare la valorizzazione del patrimonio culturale anche in riscatto territoriale? Tra revisione dei protocolli, nuovi modelli di gestione e condivisione di esperienze e risorse, ecco trasparire i segni di una nuova Qualità Progettuale come leva di sviluppo del territorio e delle sue comunità
Quest’anno “Ravello Lab”, ospitato come di tadizione a Villa Rufolo per iniziativa di Univeur e Federculture, si è un po’ smarcato dalle più consuete riflessioni e dagli scambi di esperienze centrati prevalentemente sulle imprese culturali e creative e sul loro ruolo nello sviluppo economico, per volgere più decisamente l’attenzione al tema della gestione dei siti culturali e dei connessi servizi al pubblico in genere e, soprattutto, al territorio, in vista del suo sviluppo.
La spina dorsale intorno a cui riflessioni ed esperienze si sono articolate è stata senza dubbio la questione dei “piani di gestione” dei siti UNESCO, da tempo ormai obbligatori non soltanto per i nuovi candidati, ma anche per i siti riconosciuti nella Lista del Patrimonio mondiale dagli anni Settanta del secolo scorso.
Per indirizzare la produzione di adeguati piani di gestione, il Ministero, allora detto dei Beni e delle Attività culturali, produsse nel 2004 (allorché non aveva ancora la delega sul turismo) “Linee guida” in gran parte tutt’oggi molto interessanti ed utili, anche se la sezione sulla conservazione dei beni culturali merita una revisione. È interessante osservare che proprio in quel 2004 vedeva la luce anche il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, nella produzione del quale il tema della gestione fu oggetto di accese dispute che vedevano a confronto i referenti del Ministero con quelli delle Regioni (tra i quali chi scrive). Se le “Linee guida” per i modelli di gestione UNESCO interpretavano l’esigenza di coinvolgere l’area circostante i siti stessi, detta “buffer”, riferendosi alla prospettiva della cultura come leva di sviluppo del territorio e delle comunità residenti, da parte sua il Codice interveniva sulla stessa materia, non soltanto indirettamente nelle disposizioni generali relative alla valorizzazione del patrimonio culturale (ad es. agli artt. 6 e 111), prospettando forme di cooperazione pubblico-privato, ma anche specificamente prescrivendo (art. 112, comma 4) che le future norme regionali sulla valorizzazione debbano promuovere «accordi […] conclusi su base regionale o subregionale, in rapporto ad ambiti territoriali definiti», favorendo «altresì l'integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati. Gli accordi medesimi» precisa la norma, tuttora in vigore, «possono riguardare anche beni di proprietà privata, previo consenso degli interessati. Lo Stato stipula gli accordi per il tramite del Ministero […]».
Appena un anno dopo, nel 2005, viene sottoscritta la Convenzione di Faro, che introduce la nozione di “comunità di eredità”, con ciò intendendo appunto una collettività territoriale «costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future». In Italia la Convenzione di Faro ha ricevuto già da alcuni anni la sottoscrizione da parte del Governo, ma ancora si è in attesa della ratifica parlamentare; d’altra parte è facile, leggendola, riscontrare preziosi punti di contatto con la Convenzione europea del Paesaggio.
E’ ovvio considerare l’esigenza di raccordare tutti questi indirizzi normativi, nazionali ed europei, con gli strumenti di pianificazione urbanistica e di governo del territorio, oltre che con gli strumenti della contrattualistica pubblica (programmazione negoziata, nuovo Codice dei contratti pubblici, etc.).
Fondamentale però sono stati a Ravello il confronto e la verifica con le esperienze concrete sviluppate nei territori italiani e in alcuni esteri, sia a partire dai siti UNESCO, sia in altre situazioni, in cui comunque gli interventi di valorizzazione integrino competenze e risorse molteplici con le capacità di iniziativa e la generosa creatività del volontariato, che può diventare motore di iniziative di riscatto territoriale, particolarmente nelle aree interne, creando anche nuovi posti di lavoro. Fondamentale appare sempre la capacità di costruire intese fra soggetti diversi: di questo hanno dato prova gli interventi presentati, fra i quali il l’esperienza di valorizzazione dell’Eremo di Celestino V nella Majella, ideata e sviluppata per iniziativa di Italia Nostra; così come particolare attenzione ha riscosso il confronto fra le esperienze delle regioni Piemonte, Lombardia e Campania riguardo ai siti UNESCO dei rispettivi territori.
La lezione tratta da chi scrive e da molti condivisa è riassumibile forse così: gli enti pubblici - a partire da Stato e Regioni - debbono imparare ad essere meno autoreferenziali; pretendere la gestione diretta e, insieme, la gestione delle autorizzazioni a tutti gli altri funziona soltanto se si sviluppano a priori concrete norme tecniche e linee guida valide per tutti (pubblico e privato), come quelle sugli standard di valorizzazione e sui contratti di servizio che il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio prevede all’art. 114 e all’art. 115 comma 5; insomma: meno “coltivazione diretta” e più “fertilizzazione” dei contesti comunitari e territoriali, possibilmente con “protocolli” operativi che mettano in condivisione competenze, esperienze, risorse.
Così, del resto, era nato nel 2001 (dunque tre anni prima del Codice e delle Linee guida UNESCO) l’atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e di gestione dei musei, di fatto acquisito da Regioni, Comuni, Stato, Conferenza Episcopale Italiana, istituzioni private come bussola per guidare il percorso di sviluppo dei rispettivi musei.
Ora è tempo di rivedere almeno in alcune parti questo importantissimo documento tecnico, coerente con il codice deontologico dell’ICOM; occorre però integrarlo in riferimento anche agli altri tipi di “istituti e luoghi della cultura” che il Codice individua all’art. 101: biblioteche, archivi, aree archeologiche, parchi archeologici e complessi monumentali.
Ma un lavoro di revisione, condotto sulla base della valutazione di esperienze concrete, potrebbe utilmente compiersi anche aggiornando contestualmente le “Linee guida” UNESCO per i piani di gestione: in fondo trattano di tematiche similari e vale sempre il saggio principio antico entia non sunt multiplicanda sine necessitate. Anzi, se si considera che la migliore gestione è quella che incrementa simultaneamente la conservazione programmata, la consapevole fruizione pubblica ed il risparmio energetico (come da anni mi permetto di segnalare), varrebbe la pena di costruire un solido ponte fra le norme tecniche sulla gestione e le norme tecniche sulla buona conservazione dei beni culturali, previste - ma tuttora non prodotte - ai sensi dell’art. 29 comma 5 del Codice, il quale opportunamente dispone: «Il Ministero definisce, anche con il concorso delle regioni e con la collaborazione delle università e degli istituti di ricerca competenti, linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali».
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Pietro Petraroia: Storico dell’arte, già Soprintendente per i Beni Artistici e Storici per la Lombardia occidentale, è Vice Presidente di Italia-Nostra Onlus, componente del Comitato Scientifico delle “Gallerie degli Uffizi” e docente di Legislazione dei Beni Culturali presso la Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Srtistici - Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano).