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Uscire dalla torre d’avorio

  • Pubblicato il: 22/06/2012 - 11:15
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FONDAZIONI D'ARTISTA
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

Raccontiamo una storia paradigmatica per leggerne altre nel suo sviluppo. Un’evoluzione, grandi investimenti di energie, mentali, fisiche ed economiche. La revisione di un progetto. A gennaio 2012, dopo sei anni di attività, chiudono a Milano i meravigliosi spazi di Via Solari della Fondazione Arnaldo Pomodoro. Fu Giulio Argan a consigliare all’artista di creare una fondazione per salvaguardare il suo lavoro.
Una realtà non autocelebrativa, noiosa, ma viva e aperta ai giovani e alle discipline. Non solo per lo studio delle opere, la tutela dai falsi, la gestione della collezione e dell’archivio. Il collega Messina lo avvisò «la fondazione è come la barca, occorrono soldi e tanti per mantenerla viva nel tempo».
 
La Fondazione Arnaldo Pomodoro nasce nel 1995 su iniziativa del Maestro, «ho sempre sentito in me il coinvolgimento sociale, il desiderio di uscire dalla torre d’avorio dello studio, certo che lo scultore debba coinvolgersi con il tessuto urbano». La dota di una collezione e della sede nel cuore di Milano, in vicolo dei Lavandai, una pertinenza del suo studio storico dagli anni ’60: «una delle più belle zone della città, dove si possono ammirare certe pietre dove si legavano i barconi, perché dai Navigli arrivavano le cose da fuori città».
Pomodoro sceglie una formula giuridica della fondazione di partecipazione, pensando di accogliere nel tempo, oltre alla famiglia, coloro che condividono la sua visione. Si dota di un Consiglio di eminenti figure del mondo culturale ed economico. Dopo pochi anni, si trasferisce in un’area di archeologia industriale in periferia, a Rozzano, ristrutturato da Pierluigi Cerri. «Una forzatura. Era l’unico luogo in cui mi potevo permettere un grande spazio per le sculture e in cui ho potuto esporre per la prima volta le opere destinate». Dal 2005 «cercavo un luogo per realizzare “Novecento”, la grande opera che mi era stata commissionata per la fine del millennio. Mi indicarono la vecchia fabbrica delle grandi turbine della Riva Calzoni, in via Solari. L’incontro fu meraviglia. Ne acquistai mille metri, poi diventati tremila, per trasferire quello che avevo iniziato a Rozzano».
Lo straordinario luogo, restaurato da Cerri accedendo a bandi di finanziamento regionali, apre con i migliori auspici per portare a Milano stimoli di pensiero contemporaneo, per contribuire a risvegliare le grandi risorse di innovazione della città.
Nasce nella certezza che molti amici, imprese e istituzioni, si affiancheranno per non perdere l’opportunità di una nuova fucina di idee. Apre con una grande mostra sull’idea di collettività della cultura plastica del ‘900, molto radicata in Italia, alla quale fanno seguito personali di scultori come Gianni Kounellis documentato da Olmi, di artisti che hanno avuto importanza cruciale nella vita di Arnaldo come Gastone Novelli e Lucio Fontana, figure internazionali mai presentate in Italia come Cristina Iglesias e Magdalena Abakanowicz e altri giovani e meno noti. Oltre alle attività espositive, ci sono teatro, reading, conferenze, proiezioni cinematografiche, attività educative.
La Fondazione diventa un’opera in se stessa, work in progress, come l’affascinante labirinto che in sei anni Arnaldo, classe 1926 e spirito da ragazzo, ha costruito nelle viscere della sua fabbrica della cultura.
Trova un partner di percorso convinto come UniCredit. Poi cambiano i vertici e il contesto. Per il resto, su un budget annuo di circa 1,5 milioni di euro almeno un milione sono risorse proprie. Dall’amministrazione pubblica non arriva un euro, oltre agli apprezzamenti, copiosi anche dai privati alle vernici glamour, con il bel mondo schierato.
E se la Fondazione non viene integrata nel progetto di territorio, Arnaldo deve guardare al futuro. Si prospetta la terza fase di vita della fondazione: «visitando lo studio di Noguchi a New York, nel quale ero stato prima della sua morte, l’ho trovato così umano, vero, vicino, che mi ha fatto venire il desiderio di imitarlo. Sapere di lasciare il luogo in cui hai lavorato, dove si vedono le tracce, si sentono gli odori…». Diventerà una casa museo. Come dice Flaminio Gualdoni, il critico che lo ha molto seguito, «non per congelare un’immagine nella storia, ma per fare della figura dell’artista ciò che è stata - nella vicenda di via Solari e in quella di Rozzano
- un luogo di studio e di elaborazione che lo riguarda, ma soprattutto sulla pratica della scultura».
 
 
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