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Quale diritto per il patrimonio culturale?

  • Pubblicato il: 15/11/2017 - 10:00
Rubrica: 
CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Maria Elena Colombo

In questo periodo è’ in corso di presentazione un nuovo volume dedicato al diritto dei beni culturali e a una valutazione della loro capacità di gestione, di Antonio Leo Tarasco. Se ne è parlato alla Fondazione Bruno Leoni e sentiamo accesi molti punti di domanda sulle chiavi di lettura proposte. A nostro avviso occorre un appello all’ibridazione  “Urge una conciliazione tra la museologia e il diritto, tra le esigenze scientifiche e quelle normative, perché l’avvento del museo sulla scena turistico-economica potrà dare frutti positivi se la politica legislativa avrà compreso la sua reale natura e funzione“, come indicava  Enzo Varricchio.
 

L’uscita di un manuale dedicato al corpus di diritto sui Beni Culturali, cresciuto su sé stesso negli anni di contributo in contributo, è un evento al quale riservare davvero una sorta di gioia intellettuale, per chi ha cominciato a studiare sull’Alibrandi Ferri, per passare a Ferretti e ad altre proposte editoriali più recenti, come Aedon, sempre rimanendo con qualche domanda in sospeso.
 
Chi si sia accostato alla materia conosce la complessità e lo sforzo cognitivo indispensabile per farla propria, con le sofisticazioni necessarie, pur senza essere giurista.
È rimasto forse inascoltato l’appello di Enzo Varricchio, in un articolo del 2007 su Nuova Museologia, “Il diritto museale, ontogenesi di una disciplina giuridica” che sollecitava la ricerca di uno statuto epistemologico definitivo: il diritto museale.  Tant’è che si può, ancora e sempre dal 2004, parlare di Istituti e Luoghi di cultura, dei quali il museo è un esempio, al pari di biblioteche ed archivi, che necessitano con evidenza di discorsi sulla gestione e sulla sostenibilità molto differenti.
 
La sezione del volume sulla quale la presentazione, presso la Fondazione Bruno Leoni, si è incentrata è stata quella intitolata alle Potenzialità redditive del patrimonio culturale e dinamiche organizzative.
Vi si passa direttamente a elencare le quattro cause principali della “cattiva gestione” del patrimonio culturale in maniera apodittica, in riferimento ai dati disponibili sugli istituti culturali statali. Le cause identificate sono: un eccesso di concentrazione dei beni sul territorio italiano, un eccesso di gestione pubblica a riguardo, le poche risorse economiche a disposizione delle istituzioni, la loro considerazione come fonte di spesa, e non come fonte di entrata.
 
Da un punto di vista anche solo prettamente economico non è forse paradossale pensare che “un patrimonio” sia eccessivo? E ancora: come possiamo parlare di eccesso di gestione pubblica quando non si confrontano dati in merito alla gestione privata? Eccessiva rispetto a quale parametro?
Con gli ultimi due punti si dà un peso oggettivo a due condizioni che sono, a differenza della prima, e in parte della seconda, modificabili, frutto ed effetto del processo decisionale e strategico nella gestione del Mibact e non solo.
 
I parametri valutati come fonti di incasso sono cinque:  la biglietteria, le sponsorship, l’affitto di spazi, le loan fee (ovvero il reddito derivante dal prestito) e la vendita delle immagini.
 
Le sensazione che ne riceve chi è professionista museale e partecipa alla discussione in atto sul valore della cultura, la ricerca di senso, le sue ricadute sociali è quella di un rigido isolamento degli ambiti, una mancata ibridazione di competenze tra chi nel patrimonio vive e ci si interroga e chi ragiona sulle leggi.
Prendiamo ad esempio gli ultimi due punti: loan fee e vendita delle immagini (ovvero mancati introiti da). Il primo tema è molto delicato e discusso per questioni deontologiche: l’atteggiamento che un’istituzione tiene a riguardo ha a che vedere profondamente con la propria missione e con la concezione che ha di sè: gestore del patrimonio, che è però di tutti. Scambiare opere significa farle conoscere, farle studiare anche in altri contesti;  e, non da ultimo, avere restituita la “cortesia” quando si chiede un prestito.  È comunque necessario sottolineare che è pratica comune non chiedere un emolumento in cambio di un prestito, bensì un intervento di restauro dell’opera prestata. Tale prassi, diffusa e nota a chi lavora nei musei, non è naturalmente rintracciabile su un bilancio, come entrata, alla voce loan fee, ma produce valore per i musei e le loro collezioni.
Un discorso lungo sarebbe da fare sui diritti delle immagini, il cui sviluppo innovativo sta tendendo a liberarle da qualunque gabella, piuttosto che farle fonte di introiti. Il Rijksmuseum, con il suo Rijksstudio, in cui centinaia di migliaia di immagini delle opere sono scaricabili in alta risoluzione e utilizzabili da chiunque gratuitamente, basti come caso, pur non essendo il solo, si badi, ad individuare una tendenza di segno (e di senso) opposto a quello individuato nel volume in questione. La ricaduta di questa operazione? Certo non comparirà in bilancio, è un’operazione di engagement e di restituzione della collezione alla collettività.
 
Per guardare da un po’ più lontano, al contesto della discussione propositiva sul valore cultura e il terzo settore, non si può fare a meno di registrare la distonia dell’autore con quanto è stato nei medesimi giorni oggetto di confronto a Mantova, durante l’ultimo ArtLab, anche tramite la voce di Pier Luigi Sacco, di Silvia Costa e del nuovo direttore generale dei Musei, Antonio Lampis.
A Mantova  si è  provato a contribuire alla visione e al senso della gestione del patrimonio culturale nell’ottica del mettersi al servizio di quel valore per la comunità, senza quantificazioni in denaro, ma anche senza entusiasmi naïf, a cercare una misura della partecipazione fattiva, a delineare in modo condiviso rotte per la politica italiana ed europea, propositivamente.
Non a caso in un bell’articolo sull’Espresso del 15 ottobre u.s. Pier Luigi Sacco dice “Non sono affatto d’accordo con l’enfasi che viene data ai numeri di visitatori”, alludendo al valore (immateriale) dell’esperienza di frequentazione del patrimonio. Nello stesso articolo si mette in evidenza come buon portato di James Bradburne la rivitalizzazione del rapporto fra la Pinacoteca di Brera e la città.
 
Ciò che sembra mancare alla lettura dei dati è la visione, cioè la chiarezza dell’obiettivo dell’istituzione museo come servizio, anche futuro, in questo snodo temporale. Il museo è un organismo complesso e vivo che nel tempo ha cambiato se stesso e il suo rapporto col mondo molto profondamente: forse è ancora il momento di farsi alcune domande al suo riguardo e di trovare risposte nuove su quale genere di governance possa metterlo nelle condizioni di essere rilevante.
Una certezza però l’abbiamo: il museo non è un’azienda che ha come obiettivo principe produrre utile e nessun museo è autosufficiente sulla base della vendita dei biglietti.
 
Il diritto ha la sua funzione indiscussa e ne abbiamo assoluta necessità, come di ogni tassonomia e regola. Possiamo allora forse suggerire due temi o indirizzi sui quali è tempo di intervenire:

  1. resta da condurre una discussione giuridica che approdi a una definizione di patrimonio culturale digitale, ed è proprio urgente;
  2. per sostenere le istituzioni culturali sarebbe di grande aiuto defiscalizzare il lavoro culturale sia per il datore di lavoro, sia per il professionista; questa operazione eviterebbe - soprattutto nel caso dei musei pubblici - un’inutile partita di giro e darebbe davvero una ventata di ossigeno e di risorse vive al settore.

 
In chiusura, potrebbe essere utile un appello all’ibridazione “Urge una conciliazione tra la museologia e il diritto, tra le esigenze scientifiche e quelle normative, perché l’avvento del museo sulla scena turistico-economica potrà dare frutti positivi se la politica legislativa avrà compreso la sua reale natura e funzione“, come indicava  Enzo Varricchio.
 

 
Antonio Leo Tarasco, Il Patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica.
Editoriale scientifica