Perché insegniamo (nonostante tutto)?
Sottopagati, di serie B e senza potere… E ancora insegniamo. Perché? Forse non esiste una ragione, quanto piuttosto un groviglio di ragioni.
Noi insegniamo. Abbiamo e abbiamo avuto diverse cattedre a contratto: a ISIA Firenze, a Roma, allo IED, alla Rufa. Interaction design, web design, installation design, progettazione digitale multipiattaforma, product design, transmedia design e, da qualche anno, near future design. Segnamocelo quest'ultimo, perché è importante.
Sono tutti insegnamenti sottopagati.
Poche migliaia di euro l'anno (spesso anche solo mille o duemila), con cui bisogna pagare 30 o 40 ore di lavoro, una dozzina di lezioni e, magari, anche viaggi, cibo e ospitalità.
Oltretutto, sono anche, in un certo senso, docenze di serie B.
Da un certo punto di vista no, sia ben chiaro: ti chiamano perché sei un esperto riconosciuto nel tuo campo. Ma, allo stesso tempo, gli esperti riconosciuti si fanno pagare e bene. Quindi, dal punto di vista della retribuzione, di ciò che ti viene dato in cambio del tuo tempo, sono impieghi di serie B, C, e a volte arrivano fino alla Z.
E, inoltre, sono incarichi anche continuativi, ma per cui non diventi "strutturato".
Non sei parte della facoltà che ti ospita. Non hai un reale capacità decisionale. Non puoi partecipare o contribuire nell'indirizzare le politiche della facoltà e dell'Università in cui ti trovi. Sei anche limitato nel poter promuovere o incentivare le persone e le iniziative in cui credi, che ti convincono di più, che ti sembrano importanti. Sostanzialmente, non hai alcun potere.
E la carriera accademica?
Va benissimo per certi, non per tutti, e non è sempre l'opzione consigliabile: questo diventa evidente, per esempio, prendendo in considerazione quanti tipi differenti di esperienza possono essere portati all'interno dell'Università e, nello specifico, nell'insegnamento, per portare vantaggio agli studenti e all'istituzione stessa: l'imprenditoria, l'arte, l'artigianato, le istituzioni.
Chi fa parte di queste o altre categorie professionali non è necessariamente una/o accademica/o di professione, e il valore che portano viene proprio dal loro non essere accademici (o se preferite “esperti”), quanto piuttosto “pratici”.
Oltretutto, assistiamo anche a fenomeni particolari, come quello degli artisti:
i fondi a disposizione lo sviluppo di percorsi artistici (personali o collettivi che siano) diminuiscono vertiginosamente, tanto che per la maggioranza l'unica soluzione di sostenibilità consiste nel riuscire a prendere un PhD e poi riuscire a ficcarsi in qualche facoltà.
Quindi riepilogando: sottopagati, di serie B e senza potere… E ancora insegniamo.
Perché? Forse non esiste una ragione, quanto piuttosto un groviglio di ragioni.
C'è un elemento di prestigio, questo è innegabile. Poter dire che insegno X all'Università Y è tanto più prestigioso quanto è più prestigiosa (o "giusta" per l'ambiente professionale in cui ti muovi) l'Università. In un certo senso è una certificazione del fatto che tu sei un "esperto" (o "pratico"), magari anche "di chiara fama" nel tuo campo. Fa salire le tue parcelle, suona bene quando leggono le tue note biografiche, genera opportunità, contribuisce all'autorevolezza.
C'è, anche e soprattutto, la passione, e un senso di responsabilità.
Siamo stati studenti, non ci sono piaciute moltissime cose delle nostre Università, le prime che ci vengono in mente sono:
☛ la mancanza di cura.
☛ la burocrazia incomprensibile.
☛ tanti professori menefreghisti e mediocri.
☛ piani di studio obsoleti (nel migliore dei casi) o fatti a caso.
Si pensa al mercato, alle passioni delle persone, al mondo lì fuori le mura dell'Università, che cambia senza sosta, generando uno scollamento tra ciò che apprendiamo lungo il percorso e ciò che realmente ci servirebbe per essere “utili” a noi stessi e agli altri.
Pensiamo che essere bravi non basti per insegnare.
Bisogna anche essere inseriti nel mondo, nella città (o nella campagna, o più in generale in un contesto), essere vivi a 360 gradi, performer della propria professione e vita, avere impatti nella società. Queste cose vanno portate dentro la classe, che deve diventare una esperienza sul e con il mondo: vero, difficile, complesso, variegato, terribile e meraviglioso. — E non basta neanche questo.
Bisogna amare i propri studenti.
Ecco. L'abbiamo detto: bisogna amarli, non come clienti!
Come persone a cui tieni, di cui senti la responsabilità, per cui vuoi prendere parte attiva al loro benessere, alla loro crescita culturale, filosofica, sociale, spirituale, professionale, condividendo con loro il tuo sapere, cedendo loro parte del tuo bagaglio, generando con e per loro possibilità, sostenendoli in ogni modo ti sia possibile.
Questa è, forse, la cosa in cui l'Università attuale, come sistema, fallisce maggiormente. La situazione, oltretutto, peggiora di continuo, allontanandosi progressivamente da questo obiettivo.
Con poche risorse (o, addirittura, senza risorse) è, oltretutto, molto difficile "amare".
Amare tanto da fermarsi 10 minuti dopo la lezione.
Da fare una chiamata su skype la domenica mattina per un problema sulla ricerca. O anche il sabato notte, per la consegna di lunedì. O per prendere un tesista, seriamente. O cose del genere.
È già difficile quando si è ben pagati.
Se si è pagati al limite (inferiore) del rimborso spese questo diventa praticamente impossibile.
Ma c'è ancora un altro motivo per cui continuiamo a insegnare, forse il più importante di tutti: abbiamo bisogno di persone.
Persone con cui lavorare, con cui fare delle cose. Che, quindi, sappiano fare delle cose. Come piacciono a noi. O anche no. Comunque condividendo una necessità, un obiettivo, una visione.
La maggior parte delle Università di persone come ne servono a noi, non ne producono (non è casuale la formula produrre persone).
A noi non servono a molto le persone che fanno i compitini.
Quelle persone un po' ciniche che vogliono soddisfare il loro "capo" (che sia il datore di lavoro o il prof non fa differenza) e per farlo gli producono un "compitino", magari anche bellino, ma un po' arido. Quelle che vogliono 30, per capirci, che vogliono capire cosa devono fare per prendere 30, e nulla più.
A noi, a tutti noi, servono delle persone vere ed appassionate.
Che desiderino fare quello che stanno facendo.
Che per farlo fanno quel che è necessario, tutto quello che possono fare.
Persone in mezzo alla vita, al mondo. Che amano il confronto, il conflitto, la diversità. Che capiscano che geni e supereroi non servono a nulla e che, anzi, fanno anche un po' di danni. Che capiscano che le cose più importanti sono quelle che si producono con sforzi corali, di persone coinvolte condividono un desiderio o una necessità. Che capiscano quanto importante sia uscire dai confini delle discipline, che valorizzino diversità e conflitti, muovendocisi dentro, come in una cosa preziosa, come in un bagno caldo con le bolle, che cerchino di trovare traduzioni, linguaggi comuni, immagini, convivialità, amicizie reali, fratellanze e qualsiasi cosa sia necessaria per parlarsi e fare le cose assieme.
Ci servono persone che sappiano parlare con i ricercatori, con i tecnologi, con le persone, con i bambini, con gli anziani, con gli studenti, con i politici.
Che sappiano parlare e scrivere bene anche se sono specializzati in informatica, o in elettrotecnica. Che sappiano scrivere un bel testo, in buon italiano, inglese o qual altra lingua. Che non parlino in burocratichese: "distinto Professore, con la Presente volevo chiederLe se fosse possibile formulare nell'arco del possibile l'opportunità graditissima di coinvolgerLa nella preparazione della mia susseguente tesi di Laurea presso Codesta Università."
Persone che sappiano fare delle cose (o se non le sanno fare, che provino a imparare a farle, anche da soli, o che stringano relazioni con altri che le sanno fare, in un’idea collaborativa e relazionale del mondo), persone affamate di vita, che sappiano auto-organizzarsi, che sappiano comunicare e comprendere delle indicazioni, criticarle costruttivamente e poi lavorare insieme.
Persone così escono fuori per loro indole personale, ovviamente, ma anche e soprattutto perché hanno trovato un'Università e dei maestri che questa indole l’hanno tirata fuori, coltivata, sostenuta, incoraggiata, concimata, catalizzata… provocata.
Per esempio, questo è quello che abbiamo fatto, negli ultimi anni con il Near Future Design.
I Near Future Designer sono dei designer molto particolari:
☛ sanno lavorare con i dati
☛ sanno parlare con i ricercatori e i tecnologi
☛ sanno cogliere i risultati dell'innovazione scientifica e tecnica/tecnologica
☛ sanno comunicare
☛ sanno scrivere
☛ sanno operare nella transmedialità.
In altre parole: immergersi nella società attraverso i social network, l'analisi dei dati, le performance in mezzo alla strada, o cercando di capire cosa pensano le persone e facendoci le cose insieme.
Ma — e qui arriviamo ad un altro punto importante, uno di quelli che ci portano, ancora, ad insegnare — il Near Future Design come materia "non esiste".
Nei programmi di ministeri e Università, non c'è.
Eppure noi, da circa 5 anni ormai, insegniamo Near Future Design.
Per farlo, abbiamo dovuto stringere un accordo:
La materia che insegniamo ad ISIA a Firenze, ufficialmente, si chiama Progettazione Digitale Multipiattaforma. Stilando il programma del corso, abbiamo creato un percorso che garantisce tutti gli elementi necessari per la materia "Progettazione Digitale Multipiattaforma", e lo abbiamo aumentato, garantendo anche le cose che servono per il Near Future Design. Ne esce fuori un corso duro, con tante cose da fare, anche molto difficili, che hanno a che fare con ricerche sui social network con milioni di dati, la progettazione della comunicazione, realizzazioni transmediali, design fictions da creare, esposizioni e mostre da tirare su, rilevazioni sociologiche da raccogliere per saggiare il "senso del futuro", e la traduzione in indicazioni per la società, l'impresa, e la politica.
In un corso del genere, quasi nulla delle cose che troviamo nell'Università attuale vanno bene: dalla durata delle lezioni, alla lunghezza del corso, fino a chi vi può prendere parte, il luogo delle lezioni, il budget a disposizione, gli esami, il voto, cosa viene dopo.
Le durate — Servirebbero corsi di 6 mesi interi, o addirittura di 1 anno, possibilmente con ampie collaborazioni tra materie differenti. Lezioni full immersion, in cui si lavora insieme quasi senza orario: quando serve, a volte 3 giorni di seguito nonstop, a volte non vedendosi per 1 mese.
Le persone che vi prendono parte — Nelle nostre lezioni abbiamo sistematicamente gli infiltrati: persone che non sono del corso (magari non sono nemmeno iscritte all'Università), ma che vengono al corso lo stesso, e ne sono parte attiva. Sono artisti, ingegneri, psicologi, medici, passanti, e tanti altri profili, che trovano giusto e interessante partecipare ad un corso di Near Future Design e che, facendolo, aumentano a dismisura il valore del corso stesso, per tutti gli altri studenti, che si trovano a confrontarsi con la diversità. In alcune Università (specialmente all'estero e, in generale, dovunque si paga) abbiamo avuto difficoltà a farle accedere alle lezioni e ai lavori. Per adesso ce l'abbiamo sempre fatta.
Il luogo delle lezioni — Il mondo intero! Alcune lezioni in classe. Alcune altre nella città, dove serve. Altre in laboratorio. Altre in un data center. Altre nel fablab. Altre a casa, mangiando. Altre ad un concerto. Altre in un museo, o facendo tutti insieme una performance.
Il budget a disposizione — Nel senso che ci dovrebbe essere.
Gli esami e il voto — Nel senso che non hanno senso. Ha senso che le persone si impegnino in quello che stanno facendo, che ne desiderino i risultati, e che si valutino a vicenda attraverso questi risultati, in termini di conoscenza, esperienza, professionalità, umanità, evoluzione dell'approccio filosofico, e in termini di quante e quali persone hanno conosciuto, quanto ci sono cresciute insieme, e cosa gli rimarrà dopo, di comprendere come valutarsi e valutare cosa è importante, a cosa dare priorità. Chiediamo la responsabilità di auto valutarsi e di valutarsi a vicenda su queste cose, di essere adulti, e di non trattare le persone come bambini cui dobbiamo dare 0, 18 o 30 (e magari anche la lode! "bravo, bravo, mangiati il gelato") perché noi siamo papà e mamma e decidiamo che sono stati bravi.
Il "cosa viene dopo" — L'ultima cosa in cui l'Università attuale è veramente messa male è la capacità di accogliere gli studenti in un percorso che permetta loro di comprendere il modo in cui costruire delle cose. Che abbiano un senso. Che vadano oltre l'orizzonte della competizione, di questa scaramuccia che ci permette di ottenere 30 invece di 18, di ottenere uno stipendio da 2mila invece di uno da milleottocento, di un +3.2% invece che un +3.1% nel primo quadrimestre dell’anno in corso e poi chi se ne frega se il prossimo semestre crolla tutto a picco, o se fra 10 anni l'azienda sarà morta, o se quello stiamo facendo contribuirà a un disastro ambientale.
Siamo in grado di aiutare le persone ad avere orizzonti più importanti? Siamo in grado di pensare a impatti su 10, 20, 100 anni?
Tutto questo è molto difficile, se non impossibile, in questa Università, competitiva, occupata nel ranking piuttosto che nelle persone, burocratizzata, in cui gli studenti non sono il prodotto più meraviglioso e umano che si possa ottenere come risultato, ma clienti e, dall'altro lato, una sorta di massa che determina il potere di chi li gestisce.
È per tutti questi motivi, messi insieme, che riteniamo necessario ideare nuove forme, luoghi e tempi per l'istruzione, la formazione, la scuola, l'Università. Chi ci conosce sa bene, ad esempio, il ruolo preminente che l'istruzione e la formazione ricoprono nella nostra pratica.
L'educazione è un medium globale.
Nell'era della conoscenza ci sono poche cose che hanno più valore artistico degli atti performativi che abbiano la forma del workshop, del tutorial, della co-progettazione. Ogni nostro lavoro, a cavallo tra arti, scienze, tecnologie e società, ha come parte necessaria e fondante un processo in cui una collettività si congiunge nella diversità per creare e condividere saperi, e per usarli nell'attivare impatti sociali e politici.
Ci siamo spinti ancor più in là, ad esempio nel caso del Near Future of Education, quando abbiamo progettato una performance che consisteva nel reinventare da zero come fosse fatta una Università.
Per questo nutriamo enorme rispetto per La Scuola Open Source (SOS).
Proprio da SOS alcuni giorni fa, ci hanno fatto due richieste:
La prima, di portare un nostro workshop a SOS.
La seconda, di strutturare un ragionamento critico sul programma del nuovo quadrimestre di SOS.
Alla prima richiesta la risposta è stata ovviamente positiva, infatti avrete informazioni nei prossimi mesi, dato che ci stiamo lavorando.
Sulla seconda richiesta ci siamo presi un po' più di tempo perché lo stimolo ricevuto (criticare il processo in itinere) ci sembrava particolarmente importante (non solo per la SOS). Il risultato lo state leggendo.
Guardando l'elenco di discipline meravigliose, inusuali, rare, di nicchia, utili in generale e diverse che sono incluse nel programma, abbiamo deciso di comporre questo articolo in completa sincerità.
Come avete letto sono le cose semplici e dirette in cui crediamo, senza bisogno di fare riferimenti a Foucault, Deleuze o chi altro: sono i nostri problemi di tutti i giorni o le nostre gioie, quando le cose riescono.
Anzi, una citazione la faremo, invece. Ed è di Michel De Certeau.
Lui era convinto del potenziale rivoluzionario della quotidianità.
Noi condividiamo questa impostazione. È la goccia che cade costante e continua che fa la differenza, che scava la roccia. È nella nostra quotidianità che dobbiamo trovare la rivoluzione, in ciò che percepiamo come "normale".
Tutti questi, SOS compresa, sono tentativi di reinventare una nuova normalità.
Sono ancora lungi dall'essere perfetti, o completamente efficaci.
Per esempio: una delle nostre critiche costruttive a SOS va nella direzione di cercare di concentrarsi sullo sviluppo di modelli di welfare, perché adesso non ci sono (anche se sappiamo che ci stanno lavorando):
Cosa succede se nessuno si iscrive al mio corso di Filosofia? Finisce la filosofia perché nessuno si è iscritto? Finisce la mia sostenibilità perché nessuno si è iscritto?
E, di passo in passo, a includere tutte quelle situazioni in cui non si può fondare tutto solo sulla domanda e l'offerta.
Siamo sicuri che il processo aperto e iterativo aiuti l’idea a crescere, adattandosi e trovando nuove strade, magari fino ad ora neanche immaginate.
Il cammino che percorriamo è entusiasmante perché siamo tanti sparsi qua e là, ma connessi in modo dialogico, solidali nelle nostre differenze, determinati nella nostra quotidianità.
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico
(da LaScuolaOpenSource)