Nino Migliori e la sua Fondazione
Realismo, astrazione, sperimentazione. Dal quotidiano della gente comune all’informale il racconto nel linguaggio eclettico della fotografia
Nel crogiuolo di iniziative delle Fondazioni culturali degli imprenditori mecenati (Marino Golinelli, Isabella Seragnoli ed Alberto Masotti) che caratterizza l’attuale vitalità creativa di Bologna si inserisce una Fondazione d’artista di recente costituzione, quella del grande fotografo bolognese Nino Migliori (www.fondazioneninomigliori.org), le cui produzioni sono state e sono attualmente celebrate in importanti mostre in Italia (Milano e Padova) e all’estero (Parigi).
Nato a Bologna nel 1926, Nino Migliori dal 1948 ha sviluppato un vasto racconto di esperienze tra realismo e sperimentazione, attraversando - ecletticamente - i linguaggi della fotografia nel quotidiano della «gente comune» (famosa la sua immagine simbolo del «tuffatore») e nella rappresentazione informale. Questo racconto per il futuro si innesterà nell’attività della sua Fondazione, sia nella conservazione e valorizzazione dei materiali sia nella promozione del linguaggio fotografico anche in collaborazione con la Fondazione MAST.
Ne abbiamo parlato con lui.
Come nasce il progetto della Fondazione Nino Migliori? E con quali obiettivi?
Diverse sono state le motivazioni, ma due in particolare sono state sostanziali. Mi stavo avvicinando a compiere i 70 anni di pratica con la fotografia e cominciavo a chiedermi cosa sarebbe stato del mio lavoro che è un me stesso perfettamente speculare, nel senso che ogni progetto che ha avuto vita mi appartiene profondamente. Non ho fatto della fotografia una professione, per me è una passione ancora non sopita. In tutti questi anni ho sempre potuto sentirmi libero di sviluppare e continuare le mie ricerche, anche se non raccoglievano il consenso dei più, e i lavori su committenza che ho scelto di realizzare sono il frutto della piena libertà e della sintonia che si è innescata con il committente, in caso contrario non avrei potuto accettare. Se non provo autentico interesse e curiosità nei confronti del tema da sviluppare non sono in grado di compiere un incarico seguendo un progetto creativo altrui, questo è uno dei miei limiti.
Altra motivazione. In Italia la fotografia è ancora valutata come arte minore e solamente lo scorso anno si è dato il via, grazie al ministro Dario Franceschini con l’attività fondamentale di Lorenza Bravetta, ad una analisi-osservatorio sullo stato della fotografia a livello nazionale, un primo passo che personalmente ritengo molto importante che però necessita di continuità, supporto e approfondimento. Negli anni ho visto interi archivi dispersi, smembrati, scomparsi, parcellizzati, visti a pezzi sulle bancarelle dei mercatini, in poche parole, uno sfaldamento non ricomponibile di quello che era il tessuto culturale fotografico italiano.
Premesso ciò un caro amico, uomo di grande cultura e visione, mi ha fatto riflettere e successivamente insieme a lui grazie ad un gruppo di persone che mi ha supportato con generosità e liberalità, nel gennaio del 2016 è nata la Fondazione.
Lei ha parlato della fotografia come racconto. Come svilupperà la sua Fondazione questo racconto?
Ritengo che la fotografia, oltre ad essere ovviamente legata alle arti visuali, sia molto vicina alla letteratura. Sono più di quarant’anni che sostengo, anche con lavori come Segnificazione, che la fotografia è prelievo del reale, interpretazione e trasformazione. Perfino il reportage, genere ritenuto da molti obiettivo, è a tutti gli effetti il punto di vista del fotografo, è il suo «punto di vista» e per questo non può essere neutrale. Per di più il linguaggio fotografico è così eclettico e ricco che ci permette di raccontare tante storie ognuna delle quali è possibile, plausibile e che lascia spazio anche ad una certa ambiguità allo stesso modo di una narrazione letteraria. Per questo motivo pur praticando generi diversi e come mi piace dire «lasciando costantemente la strada vecchia per la nuova», seguendo progetti apparentemente contradditori, utilizzando gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione, il mio racconto è sempre stato dentro l’alveo della fotografia, ovvero scrittura di/con la luce. La Fondazione quindi si occuperà di catalogare, analizzare il mio lavoro, offrire possibili letture a un materiale non copioso, ma certamente eclettico e possa porsi anche come piccolo esempio di cosa può essere fotografia al di fuori e al di là di rigidi schemi classificatori che per fortuna stanno cambiando.
Oltre a raccogliere il racconto della sua produzione artistica, la Fondazione avrà anche un ruolo di promozione culturale?
Certamente, di attenzione, stimolo e proposta. Per esempio la didattica fa parte del mio percorso da ormai quarant’anni e una parte di quei progetti-laboratorio sono sfociati in mostre e pubblicazioni. Nel sito della Fondazione c’è proprio una sezione dedicata alla bibliografia della didattica. Sono cataloghi che riportano i lavori dei ragazzi, ma anche dei testi molto interessanti di studiosi in vari ambiti.
Dare spazio ai giovani è stato uno dei miei obiettivi come nel caso di Abrecal, gruppo ricerca percezione globale, aperto a chi volesse farne parte, nato nel 1982. Con un preciso riferimento al futurismo, il nome è l’inverso di Lacerba, il gruppo, indirizzato prevalentemente ai giovani e a tutti i linguaggi artistici, di volta in volta si aggregava liberamente, modificando la sua composizione per realizzare un progetto a più voci su un tema. E così per circa un decennio proposte importanti che mi venivano offerte erano condivise e realizzate dal gruppo. Sono esperienze che arricchiscono.
E quali sinergie potrà sviluppare con le realtà e istituzioni culturali della sua città, Bologna, ma anche in ambito nazionale e internazionale?
C’è una collaborazione già in atto a Bologna, è quella con la Fondazione MAST di Isabella Seràgnoli. Il lavoro svolto, un workshop di alfabetizzazione fotografica che ha coinvolto i bimbi del Nido, verrà presentato in una importante mostra al Maxxi la prossima primavera. Questa esperienza, che mi ha visto partecipe in prima persona per circa due anni e che mi ha regalato affetti, emozioni, entusiasmo, ha avuto come seguito e conseguenza un atelier permanente all’interno del MAST che ha dato la possibilità a più di 9000 studenti delle scuole di Bologna e provincia di condividere e partecipare gratuitamente ad un laboratorio innovativo che ha lo scopo di far capire in concreto cosa significa fotografia. Di conseguenza ho scelto di lavorare utilizzando sia le sperimentazioni off-camera che ho inventato dalla fine degli anni quaranta, sia quelle storiche. Anno per anno ne propongo solo alcune per evitare un eccesso di informazione che ritengo negativo. E così dall’ottobre scorso si è attivato un secondo modulo con pratiche diverse, mentre continua sistematicamente il lavoro all’interno del Nido.
Inoltre grazie alla cabina di regia sulla fotografia attivata dal Ministro della Cultura, alla quale ho fatto cenno precedentemente, entro questo anno scolastico dovrebbe prendere vita un progetto sperimentale che prende spunto e parte da questa esperienza bolognese e che vedrebbe coinvolto un campione di scuole di primo grado sparse sul territorio nazionale.
Questo è un momento di grande attenzione, anche a livello internazionale, verso la sua produzione fotografica: si è appena conclusa alla M77Gallery di Milano la mostra Il tempo, la luce, i segni mentre sono in corso altre due mostre Alla luce dello sperimentare a Padova e a Parigi La matière des réves. Realismo, astrazione, sperimentazione: per lei il racconto fotografico è “la materia dei sogni”?
Direi che sono sogni che si avverano e che diventano realtà, la mia realtà che tende da sempre a non essere catalogata, che cerca di sfuggire all’incasellamento, alla ripetizione di uno stilema. Ma come lei ha indicato, nonostante la difficoltà nel seguirmi per sentieri tortuosi, mi sono accorto con grande piacere che il mio lavoro è partecipato e apprezzato. C’è chi sogna con me.
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