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La riga prima della prima riga: ovvero, ragionando su Art Bonus e dintorni

  • Pubblicato il: 15/01/2015 - 11:54
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Marco Cammelli
Marco Cammelli

Le premesse, in una stagione segnata dallo sforzo di puntare sulla cooperazione tra pubblico e privato in materia di attività e beni culturali, sono due: intanto, che ciascuno nel proprio ambito si attrezzi per creare le condizioni nelle quali l’incontro sia facilitato e prima ancora possibile; poi, che se il cooperare è una interdipendenza voluta e virtuosa, nei nostri sistemi (appunto perché tali) si producono continuamente relazioni invece non previste e spesso non virtuose che vanno rilevate e governate, anche per impedire che l’imprevisto non desiderabile pregiudichi il resto. Potranno sembrare considerazioni scontate ma come vedremo tra breve non lo sono ed anzi se si riflette su quanto sta avvenendo in questi giorni vediamo con chiarezza che è proprio su questi versanti che ora va spostato il fuoco della attenzione. Cioè sulla riga prima della prima riga delle disposizioni normative.

Ma procediamo con ordine, e partiamo dalla interdipendenza e dalla necessità di valutazioni sistemiche. La strumentazione messa in opera dal DL 83/2014 e legge di conversione 106/2014 (c.d. Art Bonus) è ampia e va oltre le forme di agevolazione fiscale che tuttavia ne rappresentano uno degli aspetti più innovativi. E’ dunque naturale che da parte di enti pubblici e soggetti privati ci si concentri sulle possibilità che si sono aperte, tanto più che recenti e forti inasprimenti fiscali contenuti nella legge di stabilità 2015 su altri fronti ne aumentano in modo esponenziale l’importanza e l’interesse.

E’ il caso ad esempio delle Fondazioni di origine bancaria, per le quali si prevedono aumenti di imposte sui dividendi superiori al 20% rispetto al regime attuale e che dunque guardano a questa via con un interesse inedito nell’intento di recuperare almeno in parte le disponibilità erogative altrimenti destinate a calare in diretta proporzione all’aumento fiscale subito. Intento più che legittimo, ed anzi prova della fondatezza dell’intervento varato ma anche, data la consistenza delle richieste che potrebbero pervenire per tale via, l’indicazione che in questo modo le disponibilità previste dall’Art Bonus per le agevolazioni fiscali o vengono ampliate o si rischia l’azzeramento delle risorse disponibili per le ipotesi e i soggetti a cui originariamente si era pensato.

Ma c’è anche un possibile effetto indiretto da non sottovalutare. Si tratta di quanto potrebbe succedere ai beni culturali privati, comprensivi come sappiamo dei tanti beni ecclesiastici che costituiscono una fetta importante del patrimonio culturale italiano, che per l’azione congiunta dei limiti dettati dall’Art Bonus (solo beni culturali pubblici) e delle ragioni appena viste per le Fondazioni di origine bancaria a privilegiare proprio questi ultimi, rischiano di subire una secca diminuzione delle risorse ad essi destinate.

Passiamo al versante dei problemi e di quanto va fatto su ognuna delle due sponde, pubblico e privato, per agevolare l’incontro reciproco.

Il privato, come ormai dovrebbe essere chiaro, è composto di molte realtà e se non ci si prende la briga di considerarle tutte e nello stesso tempo di tenerle distinte, perché diversi sono gli elementi costitutivi, le finalità e gli stessi modi di operare, si rischia di non intercettare quello che si cerca o di fare incontri sgraditi e da evitare. Vere e proprie imprese, organizzazioni del terzo settore e del volontariato, associazioni di tendenza fortemente connotate da principi etici, religiosi o politici in senso ampio sono cose diverse che vanno trattate in modo diverso, come del resto sono diversi i principi ispiratori (compresi quelli costituzionali) ai quali ciascuna di queste realtà fa riferimento. E d’altra parte lo stesso richiamo all’impresa non è esaustivo perché la produzione di beni e servizi e la relativa gestione in termini economici appartiene tanto alle organizzazioni for profit quanto a quelle che escludono quest’ultimo tra le proprie finalità.

Non sempre queste diversità sono avvertite traducendosi in disposizioni funzionali ai caratteri dei diversi interlocutori, e il non farlo è probabilmente una delle principali cause dell’impasse in cui spesso cadono norme e strumenti amministrativi (a cominciare delle procedure di selezione e di evidenza pubblica). Tra l’altro, è proprio all’incrocio di queste variabili che dobbiamo la crescente attenzione della giurisprudenza europea alla sottile linea che separa il necessario sostegno pubblico alle attività culturali dalla categoria dei non ammissibili aiuti di stato alle imprese: con esiti e orientamenti comunitari, come mostra il saggio di Eugenio Baldi, non convincenti.

A tutto questo si aggiungono altre questioni scarsamente considerate: come mostra lo studio di Bosi, infatti, è ormai tempo di chiedersi quanto la forte diversità (e il conseguente bisogno di flessibilità) che contrassegna le numerose (e sempre più rilevanti, anche in termini di occupazione) imprese giovanili operanti nelle attività culturali, richieda misure dedicate e cioè l’azione combinata di principi generali unitari e, almeno per le tipologie base, un’ampia autoregolazione in grado di assicurare la flessibilità necessaria.

Non sono minori le cose da chiarire non solo nelle retrovie ma addirittura nelle premesse del “pubblico”, anch’esso peraltro articolato in più realtà (statale, regionale, territoriale, o per enti operanti con il diritto amministrativo o in regime privatistico). Ma su questi temi la Rivista Aedon è intervenuta più volte nel corso degli anni e ci possiamo limitare solo ad alcuni aspetti che nell’immediato, anche in ragione di provvedimenti recenti o in corso d’opera, sembrano destinati ad assumere particolare e inedito rilievo.

Il primo, ed è solo un cenno, riguarda le città metropolitane. Cosa saranno per davvero, dopo un lungo e tortuoso travaglio cominciato più di trent’anni fa, è difficile oggi dire: ciò non esime dal sottolineare che in ogni caso la loro operatività proprio in questi giorni si è avviata, che al di là della lacunosa veste istituzionale si tratta di enti che corrispondono a realtà socio-economiche e culturali ove si registra (in Italia come in tutto il pianeta) le più alta concentrazione di funzioni strategiche del nostro tempo e che, per venire a noi, tutte le più importanti città d’arte italiane (Venezia, Firenze, Roma e Napoli, ad esempio) dal 1° gennaio 2015 coincidono con altrettante città metropolitane. Che tutto ciò rimanga senza conseguenze in materia di attività e beni culturali, in sé e nei rapporti con i privati e con i restanti livelli pubblici a cominciare dalle regioni e dai livelli centrali e periferici del Mibact, appare altamente improbabile.

Il secondo aspetto, ma di tutti forse il più delicato, riguarda l’organizzazione del ministero e più precisamente il personale. Dell’assetto interno e delle relative profonde innovazioni, ormai definitivamente precisate dal regolamento di organizzazione recentemente pubblicato (DPCM 29 agosto 2014, n.171 in GU 25 novembre 2014), si è anticipata qualche prima riflessione nell’editoriale 2/2014 della Rivista e si dirà ampiamente nel prossimo n.1/2015 con apposite e specifiche analisi che potranno disporre anche dei DM relativi alla articolazione degli uffici e ai criteri per il conferimento degli incarichi e relative titolarità che risultano già firmati dal Ministro e dunque di prossima pubblicazione.

Ciò che più interessa, anche perché in questi stessi giorni si aprono gli interpelli per la selezione dei titolari delle direzioni generali interessate dalla riforma (la grande maggioranza, quasi una decina), è appunto l’importanza decisiva di tale passaggio. Delle scelte organizzative, infatti, si potrà continuare a discutere a lungo ma è fuori di dubbio che le caratteristiche delle persone che saranno chiamate a reggerle è e sarà altrettanto determinante non solo perché così è sempre stato, ma perché è particolarmente vero in questo caso ove si sono operate innovazioni significative volte in qualche misura ad assegnare alla macchina ministeriale nuovi obbiettivi, nuovi compiti, nuovi strumenti.

Il punto allora non è solo se il Ministro sceglierà bene, vale a dire se affiderà la titolarità di queste decisive funzioni a persone preparate e in grado di condividere gli obbiettivi che l’intervento organizzativo e prima ancora gli indirizzi legislativi e governativi hanno delineato, ma se e quanto effettivo spazio di scelta abbia nel farlo. Un punto, cioè, decisivo e pregiudiziale che riguarda l’attuale disciplina legislativa e contrattuale della dirigenza, il modo con cui in concreto è stata applicata, i risultati e i vincoli che ne conseguono. Essendo ben chiaro che se ad un disegno politico di forte innovazione fa riscontro il vincolo di restare entro un ambito ristretto di figure professionali da associare alla fase applicativa, operanti tra l’altro con continuità e compiti elevati nella realtà che la riforma intende invece superare, il rischio dell’insuccesso è elevato.

Quale sia con esattezza la situazione nel caso specifico non è dato sapere ma le premesse, tra vincoli contrattuali e prassi (più d’una) non proprio virtuose da superare, non sono incoraggianti. Il tema in ogni caso è più generale e mette in luce un passaggio nevralgico che tutte le riforme amministrative sono chiamate ad affrontare vale a dire l’equilibrio, difficile ma da ottenere, tra una dirigenza tecnica e amministrativa assoggettata ai voleri del titolare politico e il rischio (non minore) di leggi di riforma prive delle garanzie necessarie per portarle avanti e dunque destinate all’affollato magazzino dei disegni legislativi rimasti, appunto, tali.

E’ compito del Ministro affrontare questo passaggio anche traendone in termini di Governo le relative conseguenze sul piano, da troppo tempo in blocco, della dirigenza generale e del relativo regime legislativo e contrattuale. E’ invece compito nostro mostrare, come si è cercato di fare, che anche nel caso di Art Bonus e del DPCM di organizzazione quello che è prima della prima riga è determinante per comprendere, valutare e applicare le innovazioni legislative e amministrative.

Un accenno agli approfondimenti di Art Bonus presenti in questo numero della Rivista.

Come si è detto, è la leva fiscale nelle sue diverse modalità il filo conduttore del provvedimento a cui Raffaello Lupi sa offrire una lettura di insieme, mentre alcune delle principali proiezioni di settore sono trattate da Carla Barbati (fondazioni liriche e cinematografia) e Nicola Gallo (innovazione tecnologica e digitale), cui si aggiunge Eugenio Baldi che richiama l’attenzione sulla zona grigia che separa il sostegno pubblico dall’aiuto di stato, specie in materia di musei e relativa gestione.

Sono proprio i musei in ogni caso a registrare le più importanti innovazioni sostanziali, per la decisa opzione autonomistica della relativa gestione da molti lungamente attesa e per la nascita del sistema nazionale museale e dei poli regionali. La scelta operata non è ovviamente priva di problemi, a cominciare dal rapporto tra unità autonome e restanti realtà museali, e merita di essere approfondita e seguita nelle sue fasi attuative, su cui la Rivista tornerà, ma il disegno è in una linea di autonomia gestionale rispetto alle soprintendenze lungamente invocata, apre il cruciale discorso della scelta “aperta” dei relativi titolari (a differenza della situazione “chiusa” relativa alle direzioni generali) e si lega ad una visione diversa del sistema periferico. Proprio per questo la Rivista, in motivata eccezione rispetto alla prassi seguita, ha ritenuto opportuno sul punto dare la parola direttamente a Lorenzo Casini che, sub specie in questo caso di stretto e autorevole collaboratore del Ministro, meglio di chiunque altro può dare conto degli obbiettivi perseguiti e delle scelte operate.

Nel rinviare, in questi casi e nel resto, alla lettura dei testi pubblicati in questo numero non è inutile accennare ad alcuni interrogativi che meritano attenzione e soprattutto uno studio adeguatamente documentato e approfondito. Si tratta di questioni non sempre immediate, ad alcune anzi di medio-lungo periodo, ma proprio per questo richiamarvi l’attenzione.

L’asse di Art Bonus, come si è visto, regge sulla sollecitazione e promozione dell’afflusso di risorse private in aggiunta a quelle pubbliche. Si tratta di una scelta altamente positiva, come più volte si è detto, non solo per l’utilità concreta che ne deriva ma per il riconoscimento di risorse ed energie che sono fuori dal perimetro stretto della amministrazione pubblica e che se individuate e considerate nelle forme dovute possono essere rilevanti per l’intero sistema e per i diversi profili, compreso quello dello sviluppo socio economico dei territori. Detto questo, bisogna saper guardare anche gli aspetti meno immediati, e qui emerge subito qualche elemento più che rilevante.

Non vi sarebbe nessun particolare problema infatti se l’intervento privato fosse sempre e solo aggiuntivo rispetto alle ordinarie, ed invariate, risorse pubbliche generali o del settore. Ma non sempre è così e la situazione rischia invece di essere diversa almeno in due casi. Il primo quando, come in Art Bonus, alla risorsa messa a disposizione dal privato corrisponde una diminuzione di entrate nella fiscalità generale dovuta alle agevolazioni riconosciute perché, semplificando oltre il lecito, il pubblico rischia di ricevere con una mano (beni e attività culturali) più o meno quello che ha perduto con l’altra (fiscalità generale). Il secondo problema, non meno realistico e forse più rilevante, si ha quando le risorse finalizzate al settore che ci interessa, cioè arte e cultura, vengono progressivamente diminuite in funzione dell’afflusso di finanziamenti derivanti da sponsorizzazioni o liberalità: quando cioè le risorse ordinarie vengono ridotte anche facendo affidamento su quelle provenienti dall’esterno.

Come si può vedere, si tratta di ipotesi tutt’altro che irrealistiche ed è bene indicarne qualche conseguenza e alcune serie distorsioni che potenzialmente discendono sull’intero sistema.

Nel primo caso, l’apparente equivalenza in termini di semplice partita di giro che viene ad aversi tra entrate della fiscalità generale e proventi da liberalità dirette al singolo settore non deve portare a sottovalutare la profonda differenza che si registra nei relativi processi decisionali: condizionati al riparto generale tra ministeri e settori (prima) e tra territori, unità funzionali e territoriali (poi), e dunque fortemente centralizzati e discendenti dal generale al particolare e dall’alto al basso, nel primo caso, mentre nell’altro si tratta di dinamiche generate per singoli beni o attività relative ad uno specifico ambito territoriale, e dunque dal basso all’alto.

Ma c’è di più: intanto il sistema del credito di imposta, come e forse più delle preesistenti agevolazioni, richiede una serie di adempimenti della amministrazione (anzi: delle amministrazioni, vale a dire delle Soprintendenze e dell’Agenzia delle Entrate) che dovranno essere operati con tempestività, imparzialità e chiarezza specie nel caso, presumibilmente non raro, di zone di confine e dubbi interpretativi. Il che, se solo si considerano le ripetute e generali difficoltà incontrate su un terreno analogo quanto ad adempimenti amministrativi richiesti come quello dei crediti delle imprese nei confronti della Pa e del rilascio della richiesta certificazione, il Durc cioè documento unico di regolarità contributiva, non è scontato.

Inoltre come sottolinea Raffaelo Lupi, e il punto è davvero cruciale, se il sistema si “limita” a basarsi sulla “attrazione alla legge, e l’esternalizzazione sui privati, di quelle che un tempo erano delle fasi istruttorio-valutative dei contributi pubblici” si rischiano comunque implicazioni da sorvegliare, come ad esempio una corrispondente deresponsabilizzazione degli apparati pubblici. E già in questi termini, se il discorso si fermasse qui, ci sarebbe di che riflettere.

Le cose invece vanno avanti e provocano vere e proprie distorsioni se a tutto questo corrisponde la progressiva sostituzione delle risorse ordinarie (in diminuzione) con mezzi finanziari provenienti dall’esterno a titolo di liberalità o di sponsorizzazione, perché a questo punto l’intervento privato non è più aggiuntivo rispetto ad un impegno pubblico invariato, ma rischierebbe paradossalmente di favorirne l’affievolimento se si cedesse alla tentazione di ridurre la provvista ordinaria in sede di previsione di bilancio di quanto si prevede che per altre vie possa acquisirsi. Il che oltretutto, al di là delle clausole prudentemente introdotte da Art Bonus (come l’ampliamento della finalizzazione della liberalità), moltiplicherebbe di fatto il rischio di dinamiche “antologiche” e scelte eterodirette non più limitate ai beni da restaurare, ma a alla stessa attività ordinaria.

Che il rischio sia reale è ben noto, sia per il “dirottamento” ad altri settori di risorse destinate al Mibact, basti pensare al caso del Lotto i cui proventi, legati alla estrazione aggiuntiva introdotta nel 1996, sono diminuiti in 10 anni di più dell’80% passando da 134 ml nel 2004 a 25 ml nel 2013, sia per il caso inverso, vale a dire per l’uso improprio di risorse destinate all’investimento, che sia in sede centrale che nei sistemi locali vengono invece destinate a sostenere attività ordinarie (sia pure sempre relative ai beni e alle attività culturali) rimaste senza risorse sufficienti. Proprio questo sembra avvenire in questi giorni, per una parte almeno delle proposte di utilizzazione degli ingenti fondi europei, e in particolare del Programma Nazionale Operativo (PON) cultura rivolto alle regioni meno sviluppate (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia) per il periodo 2014-2020.

Possiamo discutere se si tratta ancora della riga prima della prima riga, o di quella subito dopo l’ultima: certo è che la bontà e l’efficacia delle politiche di rilancio e sviluppo delle attività e dei beni culturali, e cioè il nucleo di Art Bonus, si gioca anche sul controllo di queste variabili.

Che è il profilo da cui eravamo partiti.

Articolo comparso su Aedon