Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

Industrie culturali e creative verso l’Europa 2020

  • Pubblicato il: 19/10/2012 - 14:35
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Anna Saba Didonato
Pier Luigi Sacco e Valentina Montalto

In uno scenario globale in forte cambiamento, in cui nuovi attori si affacciano all’orizzonte, quali sono i settori su cui puntare per dare abbrivo a una crescita economica e sociale equa del nostro Paese, in un periodo così difficile come quello che stiamo vivendo? Un importante suggerimento proviene dal rapporto, «Culture and structural funds in Italy», pubblicato lo scorso 24 settembre, realizzato dal prof. Pier Luigi Sacco, membro della Rete Europea di Esperti sulla Cultura (EENC), a cui la Commissione Europea ha chiesto una valutazione sull’uso dei fondi strutturali in Italia in ambito culturale, per individuare le priorità in vista del bilancio multi-annuale Ue 2014-2020 e dei fondi strutturali. Come denuncia il rapporto, l’Italia appare priva di una linea strategica indipendente nell’ambito della produzione culturale e creativa, a fronte di quelle che rimangono grandi potenzialità inespresse. Stiamo parlando di editoria, cinema, radio-televisione, videogiochi, design, architettura e pubblicità, a cui si aggiungono i settore delle arti visive, del patrimonio storico-artistico e dello spettacolo dal vivo che, per caratteristiche proprie, non rappresentano ambiti organizzabili secondo modalità industriali. E se è vero che da un punto di vista storico le industrie culturali e creative rappresentano qualcosa di recente per tutta l’Europa, è altrettanto vero che molte nazioni, con modalità e ritmi differenti, si stanno organizzando per puntare su questo settore in forte crescita.
L’Italia, invece, continua a mostrarsi disinteressata, a effettuare tagli drastici, puntando soprattutto sul turismo culturale «nel quale la cultura – come rileva il documento - gioca un ruolo abbastanza ancillare»,svuotando le città d’arte della loro autenticità e trasformandole in «parchi a tema».
Secondo Sacco, ciò accade principalmente per «l’inesistenza all’interno del gruppo dei decisori di quelle pre-condizioni culturali minime per capire di cosa si sta parlando». Alla base, vi è un’idea di cultura ferma all’800 che ci porta a considerare tale settore improduttivo. Occorre, invece, fare un salto che, addirittura, potrebbe non bastare dal momento che «stiamo entrando in un altro regime, che sta cambiando il senso della stessa industria culturale. La rivoluzione tecnologica che ha prodotto l’industria culturale, è una rivoluzione dal lato della domanda. Adesso si sta verificando una grande espansione sul lato dell’offerta, che sta cambiando completamente le regole del gioco e che è la somma di due canali di innovazione tecnologica, distinti ma complementari: la produttività e la connettività digitale. La somma di questi due fattori crea un’organizzazione diversa di produzione e circolazione di contenuti culturali, che non passa più attraverso il mercato ma attraverso quelle che potremmo definire comunità di pratica, ossia situazioni nelle quali le persone scambiano contenuti su una base che non prevede transazioni economiche. Ma questo non vuol dire non creare effetti economici, perché la produzione di questi contenuti produce in modo indiretto delle ricadute sociali ed economiche persino più importanti di quelli tradizionali. Quindi, una rivoluzione che richiede dei modelli di partecipazione e una capacità di interagire flessibilmente, sul canale di mercato e sul canale non di mercato. Mentre noi non abbiamo ancora capito che esiste il mercato». E Sacco fa notare che, nonostante ciò, l’industria culturale italiana è la terza per dimensioni in Europa, con un fatturato, nel 2003, inferiore solo a quello di Regno Unito e Germania e superiore a quello della Francia. In particolare, la regione Lombardia è preceduta solo da Île-de-France e Inner London per numero di pratiche legate all’industria culturale.
Al di là dei confini europei, i paesi più competitivi nella produzione creativa e culturale sono quelli che hanno iniziato in un «contesto 3.0», ossia Giappone, Corea del Sud e Cina. «Il paradosso è che questi Paesi sanno che non possono fare da soli. La Cina, e non soltanto, guarda all’Europa, peraltro, non agli Stati Uniti. Perché è chiaro che per sviluppare un modello di industria culturale bisogna avere una storia da poter condividere. Alcuni paesi europei se ne sono resi conto e stanno cominciando a muoversi. L’Italia invece non capisce ancora che corsa si sta correndo. Un esempio su cui noi potremo sviluppare un modello integrato tra industria culturale e cultura 3.0 è il tema del rapporto tra piattaforma digitale e patrimonio. Un tema di gigantesca importanza strategica sull’industria dei contenuti destinato a diventare uno dei settori-chiave. L’Italia è fortemente identificata col patrimonio culturale e, teoricamente, avrebbe anche le competenze per sviluppare le piattaforme digitali».
L’Italia non può assolutamente perdere le opportunità legate alla nuova programmazione UE 2014-2020. Attualmente è in corso la negoziazione dei fondi strutturali e dei nuovi obiettivi di coesione. Valentina Montalto, ricercatrice e consulente presso KEA-European Affairs di Bruxelles, sottolinea come la partita più importante si giochi proprio nell’ambito delle industrie culturali e creative. Pur rimanendo una certa attenzione della Commissione Europea nei confronti del patrimonio culturale e delle connesse esigenze di tutela, promozione e valorizzazione. Occorre inoltre tener presente che «l’importanza strategica si sta spostando dal livello nazionale, al livello regionale, al livello di città. Perché le città e le regioni sono in grado di identificare non soltanto gli attori-chiave di determinati sistemi di produzione culturale ma anche quelle che sono le specificità territoriali. Un’altra linea guida molto importante, infatti, è quella relativa alle “smart specialisation strategies”. Ossia, i territori devono elaborare strategie di sviluppo sulla base delle specificità e potenzialità territoriali. E uno dei settori a cui la Commissione invita a guardare è proprio quello delle industrie culturali e creative». Montalto evidenzia quanto sia difficoltoso spiegare come mai l’Italia, che possiede enormi potenzialità nel settore creativo e culturale, e a cui è fortemente associata, non faccia poi quei passaggi necessari seguendo l’esempio di altri paesi europei.

© Riproduzione riservata