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Il pubblico, questo sconosciuto: «Audience Development» per nuove politiche e strategie culturali ad impatto sociale

  • Pubblicato il: 14/02/2016 - 11:50
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Francesco Mannino

Si è tenuto a Milano il 18 e 19 gennaio 2016 l'incontro finale del percorso formativo «ADESTE - Audience Developer: Skills and Training in Europe», con capofila-project leader Fondazione Fitzcarraldo. 16 le organizzazioni italiane che hanno partecipato all'anno di formazione per «Audience Developer» (65 in tutta Europa), fase che chiude il triennio del progetto finalizzato ad individuare nuove professioni, nuove politiche e nuove strategie per incentivare ed estendere la partecipazione dei pubblici alle attività culturali, ritenute una chiave fondamentale della coesione delle società europee
 
 
Strategie culturali e i pubblici: sfide e limiti
Le politiche pubbliche finalizzate alla maggiore diffusione e accessibilità della Cultura sono una specifica caratteristica del '900 e percorrono una interessante evoluzione che vale la pena ricostruire (Kawashima, 2000). Se infatti (soprattutto in Gran Bretagna) inizialmente la possibilità di ampliare l'accesso all'arte e alle attività culturali era intesa come una forma di civilizzazione delle masse, impossibilitate ad accedere per barriere dettate dalla “ignoranza” o dalla lontananza (Shaw, 1979), la concezione di “inaccessibilità” adottata da alcuni governi europei fu presto estesa alle barriere sociali, economiche e poi fisiche. Solo negli anni '90 si cominciò a ragionare sull'eliminazione di barriere di tipo psicologico e cognitivo, anche a fronte dei limiti riscontrati in seguito alla gratuità dei principali luoghi della cultura (sempre in GB), che non necessariamente produsse (e tutt'oggi non produce) un automatico ampliamento sociale della fruizione. Fu infatti riscontrato che, pur essendo gratuita, questa o quell'altra attività culturale veniva percepita “da fuori” come socialmente elitaria, o come causa di imbarazzo in caso di manifesta incomprensione da parte di un non addetto ai lavori o non avvezzo al settore culturale (Kawashima, 2000).
Nacque quindi un bisogno diffuso, soprattutto nel Regno Unito (Dipartimento per la Cultura, Media e Sport – DCMS), di ragionare sulle articolazioni dei pubblici della cultura, al fine di individuare azioni che superassero il marketing da un lato e un approccio esclusivamente finalizzato ad abbattere barriere di tipo economico o architettonico dall'altro, per virare verso una visione ispirata dalla maggiore partecipazione attiva alla vita culturale, dalla fruizione, dalla produzione condivisa. Questa rinnovata visione nasceva anche dalla convinzione istituzionale che la partecipazione culturale potesse essere un mezzo per combattere l'esclusione sociale, ovvero che potesse rappresentare un consistente contributo allo sviluppo del potenziale individuale e della fiducia in sé stessi e di conseguenza un supporto alla costruzione dell'identità della comunità (Matarasso, 1997) soprattutto se sotto-rappresentata nel ventaglio dei soggetti sociali che compongono una società; una democratizzazione della cultura che fosse anche più che welfare culturale, arrivando a costituire addirittura uno strumento di coesione e quindi di progresso sociale.
Veniva così superata una visione potenzialmente “redditizia” dei beni e delle attività culturali, che da un paio di decenni è invece riemersa in alcuni paesi europei, Italia in testa. Una visione che è condita da tutta la retorica del caso sulla necessità di ottimizzare le risorse (spending review, riduzione dei fondi pubblici), efficientare i luoghi della cultura (misurati esclusivamente alla biglietteria e nei servizi aggiuntivi), fare cassa: una visione che erige a totem lo sviluppo economico, magari generato da mirabolanti flussi turistici, che diventa sociale solo in nome di un ipotetico (in alcuni casi, fantomatico) moltiplicatore di posti di lavoro e di imprese ricollegabili al settore culturale e alla sua “efficiente” gestione. In realtà sono pochi gli studi che stanno valutando gli impatti non solo economici del settore culturale (Fitzcarraldo; Symbola, che seppur concentrata sulle industrie culturali e creative, evidenzia impatti sulla manifattura e sui servizi nel terzo settore; Federculture; Che Fare), dovendo fare spesso i conti con dati e ricerche statistiche “terze” ancora orientate a misurare quantitativamente il settore, “contando” gli accessi ai musei, il numero di prestiti bibliotecari, gli spettatori che acquistano un biglietto in un teatro, ecc. Pur tuttavia queste organizzazioni stanno riuscendo ad utilizzare nuovi indicatori e parametri che permettono di restituire un interessante e sempre più variegato quadro dei pubblici (e dei non-pubblici) della cultura, le loro relazioni con le istituzioni e le organizzazioni culturali, le criticità e le barriere da un lato, le opportunità e la valutazione degli impatti sociali dall'altro. Anche in Italia infatti, come in altri paesi europei e come nei nuovi programmi dell'Unione Europea (ad es. Europa Creativa), si sta affermando un approccio denominato Audience Development, che si pone obiettivi di conoscenza dei pubblici nelle loro sfumature, di elaborazione di strategie e politiche adeguate ai diversi bisogni manifestati, finalizzate a produrre azioni che sappiano aggredire le barriere, per favorire un accesso consapevole e attivo. Secondo Alessandro Bollo di Fitzcarraldo, il fatto che l'UE stia puntando sull'Audience Development è la conseguenza della presa d'atto che l'utopia (possibile) della democratizzazione della cultura non si sia compiuta (come dimostra il percorso britannico, avanzato eppure conscio dei suoi limiti e perennemente in cerca di nuove sperimentazioni inclusive), ed anche del fatto che la riduzione drastica del welfare costringe le organizzazioni e le istituzioni culturali ad interrogarsi sulla propria «rilevanza sociale», ovvero sulla inscindibilità tra sostenibilità economica e sociale del proprio “fare culturale”. Proprio alla luce di questa nuova fase di compressione della spesa pubblica per i servizi di welfare è necessario comprendere come orientare nel migliore dei modi le strategie di politica culturale, dalla piccola associazione alla fondazione, dall'ente lirico al medio o grande comune, fino alle regioni o allo Stato. Una riconfigurazione di strategie che si sappia liberare dal mito dell'uso industriale delle arti e del patrimonio culturale, cogliendo invece la “straordinaria opportunità (e anche responsabilità) che le istituzioni culturali hanno per candidarsi a diventare i luoghi in cui si sperimentano nuove strade per riabilitare quell’istinto collettivo alla partecipazione, di cui si sente sempre più bisogno” (Bollo, 2014). Un istinto alla partecipazione destinato ad influire sul futuro delle nostre comunità, in perenne bilico tra coesione e divisione.
L'approccio di Audience Development non può quindi considerare il pubblico come “un’entità falsamente monolitica e unitaria”, che invece va segmentata in più sottogruppi funzionali a processi di analisi, strategie e azioni adeguate di pianificazione culturale. Si pone infatti il tema di consolidare il rapporto con pubblici già esistenti (i pubblici reali), che esprimono bisogni di miglioramento della relazione con i prodotti e con i processi culturali; di sviluppare un nuovo rapporto con i pubblici potenziali e con i non-pubblici, che possono trovare nella diversificazione un motivo di interesse alla partecipazione e il superamento delle diverse barriere e per cui sono normalmente posti al di fuori della fruizione o del coinvolgimento. Questi ultimi sono quei pubblici per cui gli economisti individuano “elevati costi di attivazione” (Sacco, Zarri, 2004). “Lavorare sulla diversificazione vuol dire ricercare strade inesplorate per abbattere le diverse barriere di natura fisica, psicologica, sociale, economica e culturale che allontano le persone dalla partecipazione; vuol dire investire in ricerca, ascolto, comunicazione mirata e capacità di essere flessibili e innovativi con il prodotto artistico” (Ford, 2002; in: Bollo, 2014).
Ma tali percorsi devono essere realizzati da organizzazioni con operatori e pianificatori in possesso di adeguate competenze, capaci di spostare “l'accento” dall'organizzazione al proprio pubblico, ovvero ruotando di 180° il punto di vista, quando esso è troppo incentrato sulla produzione di attività autoreferenziali e capaci solo di rappresentare sé stessi. Attività misurate normalmente dal conteggio delle matrici delle biglietterie museali, dall'applausometro di una sala teatrale o dai posti occupati in un concerto. Non si tratta solo di misurare il pubblico, né solo di ascoltarlo mediante un questionario, né solo di coinvolgerlo per attività di entertainment culturale, quanto piuttosto di renderlo anche attivo, parte della produzione, voce ascoltata che esprime bisogni e che può orientare le scelte.
In altri termini, per uscire da una dimensione classica del rapporto con il pubblico inteso come una mera addizione di individui tutto sommato assimilabili tra loro, molte istituzioni europee ritengono necessaria l'attivazione di figure professionali capaci di contribuire all'elaborazione di strategie di pubblico: la figura dell'Audience Developer, parte integrante di una organizzazione culturale (pubblica o privata) capace di produrre o proporre politiche culturali volte allo sviluppo dei pubblici, finalizzate ad un maggiore accesso e una migliore partecipazione alla vita culturale.

 
ADESTE, il gruppo di lavoro, e le organizzazioni coinvolte
Partendo dalla considerazione che la mancata partecipazione culturale produce una perdita culturale ma anche sociale ed economica, e avendo rilevato che alle organizzazioni culturali mancano gli strumenti e le competenze per incoraggiare e promuovere tale partecipazione, una ampia rete internazionale di organizzazioni ha deciso di agire su queste criticità. Nel 2013, grazie al programma Europeo Long Life Programme “Leonardo da Vinci, Development of Innovation dell'UE”, è stato avviato il progetto «ADESTE - Audience Developer: Skills and Training in Europe», con la Fondazione Fitzcarraldo quale capofila-project leader, e partner come MeltingPro di Roma, The Audience Agency di Londra, l’Institute di Leisure Studies di Bilbao, l’ENCATC di Bruxelles, il Danish Centre for Arts and Interculture di Copenhagen, l’Academy of performing arts di Bratislava, la Goldsmiths University di Londra, il Los Angeles County Museum of Art di Los Angeles e l'India Foundation for the arts IFA di Bangalore. Con l'obiettivo di sviluppare la figura professionale dell'Audience Developer, ADESTE si è dato un triennio (2013-2016) di ricerca, sperimentazione e formazione, coinvolgendo 12 formatori e 65 corsisti su 5 paesi europei. L'Italia ha partecipato con 16 “cavie”, distribuite tra le sedi ADESTE di Torino e Roma. 16 rappresentanti di altrettante organizzazioni culturali italiane, sia pubbliche che private: MuSE – Museo delle Scienze di Trento; Istituzione Montebelluna Cultura - Museo di Storia Naturale e Archeologia; Consorzio Teatri Di Bari / Kismet e Abeliano; Myosotis (Roma); Gnam Galleria Nazionale Arte Moderna e Contemporanea (Roma); CLAC / Ecomuseo Mare Memoria Viva (Palermo); Indisciplinarte / Caos (Terni); Fondazione Romaeuropa; Mare Srl Impresa Sociale (Milano); Opera Estate Festival Veneto (Bassano del Grappa); Biblioteca del Comune di Verbania; Associazione Officine Culturali (Catania); Fondazione Teatro Dell'archivolto (Genova); Biblioteca Sala Borsa (Bologna); Fondazione Hangar Bicocca (Milano); Istituto Musicale Città Di Rivoli – G. Balmas. Le organizzazioni coinvolte descrivono bene lo scenario culturale italiano, in un mix di strutture pubbliche (musei, biblioteche, istituti musicali), fondazioni e associazioni no-profit (teatri, musei, centri culturali) e imprese sociali (servizi museali, innovazione culturale), in quella articolazione ibrida che sta sempre più prendendo piede, risposta resiliente (ma non per questo automaticamente sostenibile) alla drastica riduzione di risorse pubbliche nei confronti del settore culturale.
 
 
Il metodo
Alla prima fase di ricerca, indispensabile per comprendere il perimetro della eventuale già esistente formazione nel settore dell'AD e i bisogni delle organizzazioni e degli operatori, è seguita l'individuazione di competenze ritenute indispensabili per la costruzione della figura di Audience Developer, e il conseguente sviluppo di una metodologia formativa innovativa per coinvolgere e strutturare i discenti di ADESTE, che poi, nell'ultimo anno (2015-2016), hanno partecipato agli incontri di formazione. Il team di ADESTE ha ritenuto sin dalle fasi di elaborazione progettuale che la figura professionale in uscita non dovesse essere solo un nuovo professionista dotato di nuove competenze, ma che il suo ruolo dovesse essere necessariamente inscritto in una visione strategica olistica dell'organizzazione di cui l'operatore fa parte, dentro una struttura organizzativa che tenga conto a tutti i livelli (ma proprio tutti) di obiettivi di pubblico (organizzati in un Piano di AD), e seguendo un processo continuativo. In altri termini  il primo impatto dei piani di AD è innanzitutto sulle organizzazioni culturali che lo adottano, in quanto in esse è necessaria una ristrutturazione complessiva, a partire dal modo di individuare il proprio ruolo sociale, fino alle funzioni delle diverse aree in cui l'organizzazione è suddivisa.
La redazione e l'adozione di un Piano di Audience Development (ADP) diventa l'occasione per affrontare con l'organizzazione culturale il tema dei pubblici, della loro analisi e comprensione, e della conseguente formulazione di strategie e azioni capaci di affrontare le complessità rilevate. L'organizzazione deve innanzitutto decidere se il tenere conto dei bisogni espressi dai pubblici, reali, potenziali o ancora “non-pubblici”, rientra nella propria mission e fa parte della visione che essa ha del proprio ruolo nel contesto in cui opera: deve in altri termini decidere se affrontare il rapporto con quei pubblici in termini di domanda-offerta e quindi esclusivamente di mercato, oppure estendere la propria azione sul terreno della efficacia del proprio ruolo di “agente di cambiamento”, di mediatore culturale capace di stimolare nuova partecipazione e accessibilità, approcciandosi con la sostenibilità dei processi culturali sia dal punto di vista economico, ma anche da quello sociale. Da quel momento (delicato) in poi, il processo è sostanzialmente lineare, e si svolge partendo appunto da una analisi che prescinda da soli dati quantitativi e che miri a costruire una lettura strutturata e articolata del contesto, indispensabile per elaborare una strategia adeguata a rispondere ai bisogni rilevati, coerente con la mission dell'organizzazione. Dalla strategia derivano gli obiettivi (generali e specifici) del Piano, e le azioni che lo attuano e che devono costituire la fase operativa di tutto ciò che è stato immaginato e pianificato. La verifica dell'efficacia e dell'efficienza delle azioni, la loro coerenza con gli obiettivi e con la strategia, permette di rielaborare il tutto rendendo dinamico (e dialettico) il Piano, e capace soprattutto di adeguarsi e crescere insieme all'organizzazione che lo ha elaborato. Grazie anche all'alternanza tra acquisizione di competenze “hard”, come la pianificazione, e “soft”, come lo stimolo di relazioni e confronto tra le organizzazioni coinvolte (attraverso sessioni di Action Learning), finalizzate a ragionare e ad agire il cambiamento, l'approccio di ADESTE è stato innovativo, superando la tradizionale formula delle lezioni frontali e del trasferimento passivo tra il docente e il discente, e permettendo uno scambio tra operatori e docenti che già si è fatto sperimentazione e base per futuri sviluppi della ricerca e delle azioni sul campo.
 

ADESTE e le politiche culturali
I profili degli operatori che hanno preso parte al corso e delle organizzazioni che essi hanno rappresentato chiarisce bene che ADESTE ha agito finora solo sulla parte operativa del sistema culturale italiano, e non ancora sui policy maker. E' necessario a tal proposito che si comprenda che le politiche culturali, se adeguatamente strutturate in un'ottica di strategie di pubblico, possono avere ricadute non solo sulla cultura in senso stretto, ma sui diversi ambiti delle politiche di sviluppo. Insomma, ADESTE è un progetto che ha gettato le basi per un lavoro che per essere efficace va spinto ben oltre la capacità di singole organizzazioni di elaborare visioni, missioni e strategie di pubblico: un lavoro che deve entrare nell'agenda e nella visione strategica pubblica, desistendo dalla lettura (sovente retorica) della cultura come petrolio del nuovo sviluppo del Paese, e puntando piuttosto su quanto e come politiche culturali ad impatto sociale (dalla scala transnazionale a quella locale) possano incidere sui costi sociali dell'emarginazione e dell'isolamento, se opportunamente orientate all'abbattimento delle diverse barriere, al coinvolgimento e all'inclusione, ovvero alla coesione sociale. E' la sfida – ad esempio – che molte fondazioni di origine bancaria e associazioni hanno colto e rilanciato, imprimendo un marcato output ad impatto sociale ai diversi bandi per il finanziamento di attività culturali (Fondazione con il Sud; Che Fare; Fondazione Cariplo; Fondazione Unipolis; Fondazione San Paolo e molte altre).
Scrive Alessandro Bollo che «all’audience developer spetterà un compito – tutto da inventare – di ‘regia’ delle politiche e delle strategie del pubblico agendo come collettore delle risorse, delle azioni e delle potenzialità presenti all’interno delle organizzazioni e come connettore di opportunità attraverso l’individuazione e l’attivazione di “reti corte” per costruire progetti di comunità e di territorio e di “reti lunghe” per ampliare i bacini di utenza, intensificare gli impatti e allungare la vita dei prodotti e dei processi». Una sfida (e una responsabilità) che da marzo 2016 le 65 organizzazioni europee coinvolte in ADESTE assumeranno come imprescindibile; una novità interessante con cui confrontarsi nei prossimi anni, da tenere in conto ogni qual volta si affronti il tema delle politiche culturali. Sarà compito di tutti coloro i quali individuano nell'Audience Development la cifra di un possibile profondo cambiamento porre la questione di un cambio di prospettiva, sia tra le organizzazioni culturali private che tra le istituzioni pubbliche, mentre la sperimentazione e la verifica dei Piani di AD dovrà costituire un primo blocco di buone pratiche da porre come termine del dibattito sulle strategie culturali dei prossimi anni. Nel frattempo la programmazione 2014-2020 dell'Europa (e con essa il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo italiano) sta rilanciando il tema dell'Audience Development, inserendolo senza tentennamenti nelle linee strategiche dell'Unione: per gli audience developer e per le loro organizzazioni ci sarà un gran da fare, tra breve. Dal canto loro i policy maker, su scala nazionale così come tra le amministrazioni locali, dovranno tenere conto di questa opportunità innovativa. E ciò non significherà solo tenere conto di queste figure professionali, ma soprattutto di questo nuovo metodo di pianificazione strategica. Senza una piena condivisione con il settore pubblico e con le PA, l'azione di maggiore e migliore coinvolgimento dei vari segmenti di pubblico rimarrà un tema sullo sfondo o, ancor peggio, una insegna per giustificare vaghi interventi populisti volti ad aumentare quantitativamente il numero di presenze nei luoghi della cultura. Resta da rispondere alla domanda che la gratuità dei musei inglesi pone in maniera eclatante: basta fare varcare una soglia (di un museo, di un teatro, di una biblioteca) per avere garantito livelli di partecipazione e coinvolgimento adeguati alla sfida sociale in atto? Ed eventualmente è sufficiente valutare gli impatti di questo intervento misurando applausi o ticket o prestiti? La PA rifletta: la sfida in atto va molto al di là della dimensione culturale stricto sensu dei luoghi della cultura. L'Audience Development è una occasione per avvicinarsi al corretto approccio, o quanto meno a tentare di porre domande e sperimentare percorsi che aiutino ad affrontarla. Con la consapevolezza che ogni sperimentazione è passibile di ulteriori innovazioni, ma provarci con serietà è un obbligo.
 
 
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Bibliografia
Arts Council of England, Grants for the arts – audience development and marketing, Arts Council of England, London, 2011
Alessandro Bollo, 50 sfumature di pubblico e la sfida dell’audience development, in Francesco De Biase (a cura di), "I pubblici della cultura. Audience development, audience engagement", Franco Angeli, Milano, 2014
Government of the United Kingdom, Modern Public Services for Britain: Investing in Reform Comprehensive Spending Review: New Public Spending Plans 1999-2002, 1998
Government of the United Kingdom, Department for Culture, Media and Sport (DCMS), Local, Regional and International Division, Local Cultural Strategies Draft Guidance for Local Authorities in England, 1999
Nobuko Kawashima, Beyond the Division of Attenders vs Non-attenders: a study into audience development in policy and practice, Centre for Cultural Policy Studies, Research Papers No 6, Series Editors: Oliver Bennett and Jeremy Ahearne, University of Warwick (UK) 2000
Francois Matarasso, Use or Ornament: Social Impact of Participation in the Arts, 1997
Ludovico Solima, Il museo in Ascolto. Nuove strategie di comunicazione per i musei statali, Rubettino, Roma, 2012