I musei alla svolta post-digitale
Parallelamente alla Settimana dell’Arte Torinese e all’ultima edizione di Artissima, gli scorsi 3 e 4 novembre si è svolto il convegno internazionale Museum at the “Post-Digital” Turn, organizzato da AMACI – Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani e OGR – Officine Grandi Riparazioni, con il coordinamento della sessione scientifica curato da Gail Cochrane e Pier Paolo Peruccio del Politecnico di Torino. Il convegno nasce per affrontare una riflessione trasversale sui musei d’arte contemporanea e sui cambiamenti radicali nei modi di produrre e fruire le opere d’arte al giorno d’oggi. Ospiti internazionali di altissimo spessore, da Boris Groys a Liam Gillick, da Lauren Cornell a Claire Bishop. Abbiamo parlato del convegno, approfondendo le tematiche centrali, con Lorenzo Giusti – direttore “in scadenza” del MAN di Nuoro e neo direttore della GAMEC di Bergamo – che ha curato questa prima edizione del convegno insieme a Nicola Ricciardi – direttore delle OGR TORINO.
Rubrica di ricerca in collaborazione con il Museo Marino Marini
Torino. Museo Ventuno è uno spazio di analisi delle più recenti pratiche museali voluto da AMACI - Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, una piattaforma di ricerca dedicata alle trasformazioni dei musei d’arte contemporanea. Le evoluzioni tecnologiche, i cambiamenti geopolitici, economici e ambientali hanno messo le istituzioni di fronte alla sfida di ridefinire il proprio ruolo e le proprie pratiche. Museo Ventuno si propone di affrontare questa sfida, intraprendendo un percorso di ricerca pluriennale attraverso i vari campi d'azione dello spazio museale contemporaneo e le diverse aree problematiche che lo riguardano. È all’interno di tale space of thinking che nasce la prima edizione del convegno internazionale Museum at the “Post-Digital” Turn, organizzato da AMACI e OGR, con il supporto scientifico del Politecnico di Torino per i panel di discussione.
Per l’occasione, lo spazio è stato allestito con Prototype Design for a Conference Room (1999), opera dell’artista inglese Liam Gillick dove si sono succedute le relazioni degli ospiti internazionali e dei numerosi iscritti al convegno. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Giusti – direttore del MAN Nuoro – insieme a Nicola Ricciardi delle OGR, curatori del convegno.
Quali sono i principali “aspetti e cambiamenti radicali nei modi di produrre e fruire opere d’arte” che vi hanno portato a comprendere la necessità – oggi e in Italia – di un simposio come Museums at The ‘Post-Digital’ Turn?
Indubbiamente tante cose sono cambiate negli ultimi anni. L’iperconnettività, con il relativo processo di integrazione tra spazio fisico e spazio digitale ha fatto emergere sempre più il web come un luogo esistente: non una zona virtuale alternativa alla realtà, ma una spazio della nostra vita.
L’arte e i musei hanno iniziato a occupare questo spazio. E questa esperienza, inevitabilmente, ha influito in maniera sostanziale sulle modalità di pensare, creare e fruire l’opera d’arte.
Oggi non soltanto la visione “online” di qualsiasi tipo di opera d’arte precede quasi sempre quella dal vero, o spesso la sostituisce del tutto ma un numero sempre maggiore di opere d’arte sembra essere realizzato appositamente e in alcuni casi esclusivamente per una visione attraverso lo schermo, accessibile a tutti.
Come hanno scritto Lauren Cornell ed Ed Halter nell’introduzione all’importante volume Mass Effect, pubblicato nel 2015, che ha fatto il punto sul rapporto tra arte e internet nel ventunesimo secolo, prima dell’avvento del nuovo millennio, la “new media art” costituiva un genere specifico, un campo specializzato dell’attività culturale.
Adesso ogni campo dell’attività culturale è stato alterato dai cambiamenti nella tecnologia digitale e dal web. Web che gli artisti non considerano più un mezzo – come ai tempi della net.art - ma come un mezzo di massa. Un luogo dove lavorare e a cui rispondere.
Tutto ciò non poteva non avere conseguenze sul modo di concepire, organizzare e vivere il museo.
La pratica artistica ha registrato uno slittamento dal concetto di unicità, al quale era storicamente legata, a un’idea di interconnessione. In questo possiamo rileggere che i flussi delle informazioni e della conoscenza diventano una questione spaziale, come teorizzato da Manuel Castells già alla fine del secolo scorso. In base alle testimonianze dei relatori, quali ritenete possano essere le tendenze più importanti che si stanno registrando alla scala mondiale sul fronte produzione?
Recentemente Boris Groys ha dato un’interpretazione dei linguaggi e delle pratiche dell’arte contemporanea in termini di flusso. Nel suo intervento ha messo in luce come, dagli anni Sessanta in avanti, gli artisti abbiano concepito il proprio lavoro sempre più come parte di un momento nel flusso materiale della storia, prefigurando e imitando la scomparsa delle cose contemporanee nel futuro.
Da qui la rinuncia all’oggetto per un’arte che performa se stessa, imitando la propria stessa finitezza, la propria stessa scomparsa nel futuro.
È una chiave di lettura affascinante che permette di legare tra loro esperienze artistiche apparentemente anche molto diverse.
Tutto questo rende l'arte contemporanea compatibile con Internet. Anzi, in qualche modo, Internet e il digitale hanno portato alle estreme conseguenze questa necessità dell’arte contemporanea di farsi flusso. L’artista non ha bisogno di produrre un prodotto finale, un lavoro finito. La documentazione del processo creativo è già un lavoro artistico. L’arte rinuncia all’oggetto per preservare la propria aura (qui c’è Benjamin ovviamente), che non può risiedere nell’oggetto ma soltanto nella rievocazione dell'evento artistico. E questo rinunciare all’oggetto manifesta comunque un desiderio di totalità, una totalità materiale che è appunto quella del flusso.
Uno dei quesiti che il simposio si poneva era “che ruolo può giocare il museo come istituzione nello spazio fisico del web?” – forse ammonendo sulla possibile attuale subalternità (o forse senso di inadeguatezza) delle istituzioni rispetto a questa nuova tipologia di “ambiente”. Ponendo al centro la materialità e l’esperienza dell’arte, aspetto peculiare dei musei, penso che questa domanda possa essere ribaltata in “come le istituzioni museali possano usare a proprio vantaggio il web (e le tecnologie digitali)?”. Quali sono le “questioni mediali” che più vi hanno colpito durante la discussione?
Fin dal principio il convegno non ha voluto trattare le “grandi opportunità” della tecnologia digitale per i musei. L’intento piuttosto è stato quello di affrontare le questioni mediali in maniera trasversale e critica, consapevoli anche dei rischi di Internet e del digitale.
Allo stesso tempo non abbiamo pensato a una posizione di mera subalternità delle istituzioni rispetto all’ambiente digitale ma ci è sembrato necessario analizzare le specificità del museo rispetto a una condizione di normalizzazione del digitale da un lato e in rapporto a opere scaturite da processi digitali dall’altro.
Nel suo intervento Groys ci ha stimolato a riflettere su quanto possa essere fuorviante analizzare la relazione tra il museo e internet partendo da una comparazione “spaziale”: se infatti è vero che il loro raggio di azione è diverso perchè di fronte allo spazio globale di Internet lo spazio occupato dal museo risulta essere molto limitato, la selezione dei contenuti che viene applicata nel museo è capace di renderlo un ambiente potenzialmente universale.
Siamo ormai consapevoli che l’ambiente della rete è tutt’altro che unificato; si tratta invece di uno spazio frammentato, narcisistico, autoreferenziale (l’utente naviga secondo i proprio interessi e desideri) e soprattutto controllato.
Il museo invece trascende la frammentazione dello spazio pubblico e tenta di creare per sua vocazione uno spazio universale di rappresentazione attraverso la selezione dei propri contenuti. Ecco quindi, che nel proprio spazio, il museo riporta anche il linguaggio delle tecnologie digitali all’interno di una condizione più neutrale e democratica: i frammenti dello spazio di internet possono esser qui equamente rappresentati.
Spotify, Netflix e altre piattaforme on-demand stanno ridefinendo le modalità di interazione tra produzione e pubblico di vari settori culturali. In un quadro comparativo, i musei – e l’arte contemporanea in genere – non sembrano passarsela così male, in quanto assolvono alla funzione di esposizione, ma anche a quelle di ricerca, mediazione, conservazione, didattica. O, alla peggio, non sono in cattiva compagnia. Come i musei italiani pensano di approcciarsi a temi quali la mediazione, il pubblico, la fruizione?
Come ci ha ricordato Claire Bishop parlando di performance e dance exhibition, oggi la mediazione non riguarda tanto la documentazione/esposizione quanto il metodo compositivo. Ciò dipende a suo avviso dal fatto che il dispositivo stesso con cui gli artisti decidono di misurarsi (il museo post-digitale) è già una forma di mediazione e che la spettatorialità è da sempre una funzione della mediazione. Ecco perché, a causa delle pressioni esercitate dalla tecnologia digitale, il museo è stato ricalibrato per diventare uno spazio in cui la documentazione non ha limiti, in cui le opere vengo installate in modo che possano essere riprese, condivise e messe in rete dal pubblico.
Questo spinge il museo a fare i conti con convenzioni comportamentali mutate, con una partecipazione diversa prevista dagli stessi artisti, ma anche a riflettere sul problema dell’impatto della tecnologia sull’attenzione del proprio pubblico.
Già qualche anno fa Lauren Cornell ci metteva in guardia rispetto alla popolarità di cui l’arte contemporanea sta godendo in questi anni: l’attenzione della massa è, infatti, messa in dubbio dalla dispersione e dalla personalizzazione consentita dai media. Quando le immagini diventano virali assumono un significato diverso, filtrato dall’emotività del pubblico e dal potere della testimonianza.
Dopo la grande enfasi ed entusiasmo che i media e consulenti vari hanno posto sul rapporto cultura e tecnologia, spesso declinandolo arbitrariamente con accezione positiva e senza averne nemmeno approfondite conoscenza diretta, il convegno organizzato da OGR e AMACI si configura come una sosta necessaria, una boccata d’aria che ha permesso di analizzare alcuni aspetti dell'impatto tecnologico e digitale sulle istituzioni museali, e sulla produzione culturale più in generale.
Le riflessioni avanzate aprono nuovi fronti di pensiero e sfide future sia in termini di gestione e organizzazione sia di policy culturale, oltre che di approfondimento teorico e formale.
In questa direzione, e al fine di permetterne una valida divulgazione, gli atti ufficiali di convegno verranno resi disponibili per mezzo di una pubblicazione edita da Mousse Publishing, e rappresentando il primo numero della collana AMACI Museo Ventuno/Museum Twenty One.
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Ph: Liam Gillick, “Prototype Design for Conference Room” (1999). Courtesy Esther Shipper, Berlino.