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Guarda che Guardi!

  • Pubblicato il: 21/09/2012 - 00:28
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Lidia Panzeri
Francesco Guardi (1712-93)

Venezia. L’obiettivo dichiarato da Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici, è quello di riposizionare il ruolo di Francesco Guardi all’interno della pittura veneziana del Settecento, in riferimento anche alla fortuna, a fasi alterne, di questo maestro ormai consacrato, ma che in vita, schiacciato dalla fama di Canaletto (1697-1768), ebbe solo un breve periodo di notorietà in tarda età, per poi ripiombare nell’oblio dopo la morte. Venne riscoperto a metà Ottocento, ma in Francia, in nome del revival del Rococò, mentre in Italia si dovette attendere la storica mostra curata da Pietro Zampetti a Palazzo Grassi nel 1965, per un più che meritato ma tardivo riconoscimento. A distanza di quasi mezzo secolo, la ricorrenza del terzo centenario della nascita è l’occasione per la nuova rivisitazione in una grande mostra, «Francesco Guardi (1712-1793)» al Museo Correr dal 28 settembre al 6 gennaio, forte di oltre 120 pezzi tra dipinti e disegni. La direzione scientifica è della stessa Belli, mentre la curatela è affidata ad Alberto Craievich e a Filippo Pedrocco, ma nel catalogo Skira figurano i contributi dei maggiori esperti, da Lino Moretti, autore di una biografia «poco intellettuale», a Charles Beddington, che esamina gli esordi come vedutista, a Mitchell Merling, che si sofferma sui paesaggi e sui capricci, per finire conGiuseppe Pavanello, che mette l’accento sugli ultimi anni.
L’ambizione è quella di mettere se non la parola conclusiva, impossibile in questo ambito, almeno un sostanzioso punto fermo su quella baruffa «accademica» (come la definisce Pedrocco), iniziata appunto nel 1965 con roventi polemiche sull’attribuzione delle opere, attorno a quel groviglio, tutto familiare, della bottega che comprende il padre Domenico (1678), il fratello maggiore Antonio o Gianantonio (1699) e quello minore Nicolò (1713). Se il paragone è possibile con Antonio, specie nell’iniziale fase figurativa, risulta invece di troppo inferiore, per qualità, il confronto con gli altri due. Da qui la selezione delle opere, un’ottantina di dipinti «tutti sicuri» (certifica Pedrocco), insieme a una cinquantina di disegni, che comprende sia quelli in uso alla bottega, veri strumenti di lavoro, che il figlio Giacomo vendette a Teodoro Correr, permettendo in tal modo la costituzione di una preziosa collezione, sia quelli che, invece, sono opere compiute, conservate nei più importanti musei europei come il British Museum o il Victoria and Albert di Londra. Prestiti eccezionali anche per i dipinti, come «Bucintoro a San Nicolò» dal Louvre, «Veduta del canale della Giudecca verso le Zattere» dalla pinacoteca di Berlino, «Cena e ballo al teatro San Beneto» da San Francisco, compresi i numerosi collezionisti privati. Inoltre, a differenza del Canaletto, è consistente anche il patrimonio dei Musei Civici, con alcuni capolavori, quale «Il convegno diplomatico», conservato a Ca’ Rezzonico.
Il criterio espositivo, come precisa Alberto Craievich, è una sintesi di percorso tematico e cronologico, suddiviso in cinque sezioni: la prima, dal titolo malizioso «Uno sfortunato pittore di storia», ripercorre la vicenda non del tutto esaltante del Guardi figurativo; la seconda è dedicata agli esordi da vedutista, inizialmente nel solco del Canaletto, ma poi, nell’ arco di un decennio (1755-65), sempre più vibrante di colori e di rapide pennellate. Una fantasia che esplode nei paesaggi e nei capricci, quest’ultimi con la loro alternanza di citazioni archeologiche e arbitrarie invenzioni. La quarta sezione, «Feste e cerimonie», vede  Guardi in veste di cronista di altissimo livello delle feste, quelle rituali come la «Sensa» e quelle fastose con cui la Serenissima abbagliava i suoi ospiti più importanti, da papa Pio VI ai Conti del Nord.
Il capitolo finale è dedicato allo sciogliersi delle forme in rapidi scarabocchi, con veloci annotazioni di costume e la beata ignoranza di ogni regola prospettica; quasi un anticipo dell’Ottocento.

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da Il Giornale dell'Arte numero 323, settembre 2012