De incuria. Rovine d’Italia. Storia di un Teatro e dell’oblio che ne minaccia la scomparsa
Volterra (PI). Quante volte abbiamo sentito che l’Italia possiede il più ampio patrimonio artistico a livello mondiale? Quante volte dire che la cultura è «l’oro nero» del Paese?
Una definizione tanto diffusa quanto pericolosa, che ha insita l’idea di un patrimonio culturale «da sfruttare» piuttosto che da proteggere e valorizzare.
E mentre neanche la politica del vincolo – tanto in voga in Italia - ha evitato disastri e «vandali in casa», i nostri beni vivono una situazione disastrosa, vittime di incuria e abbandono, soprattutto quando non sono crocevia di flussi turistici da «nikon», avvalorando la tesi di un disinteresse del «Malpaese» verso le sorti del proprio patrimonio storico-artistico e paesaggistico.
E ora , su tutto, la scure della «spending review».
Molti fragorosamente non ci stanno e, gridando allo scempio, propongono soluzioni.
Tra questi Luca Nannipieri, saggista e direttore del Centro studi umanistici dell’abbazia di San Savino a Pisa, impegnato in difesa dei beni culturali, con un’attenzione particolare alle bellezze «minori», più sconosciute del Paese, denunciando il degrado di un patrimonio troppo spesso «ingabbiato dallo Stato» e invocando una mobilitazione «dal basso». Autore discusso di phamplet contro il «regime conservatore», ha indignato istituzioni della statura di Italia Nostra e personalità come Salvatore Settis.
L’ultima battaglia intrapresa è per la salvaguardia del Teatro Romano di Volterra, tra le testimonianze architettoniche più importanti dell’Impero Romano.
Una denuncia contro il disinteresse verso un bene d’inestimabile valore, per progettarne un rilancio e il restauro dell’intero complesso monumentale.
Una causa sposata immediatamente da illustri protagonisti della scena culturale italiana - il premio Nobel Dario Fo, il critico Vittorio Sgarbi, il presidente Unesco Italia Giovanni Puglisi, lo storico dell’arte Philippe Daverio, l'attore Giorgio Albertazzi, solo per citarne alcuni – che in una serata-evento, tenutasi lo scorso 9 luglio 2012 proprio nel teatro dichiarato inagibile, patrocinata dall’UNESCO e dal Ministero dei Beni Culturali, ha posto l’accento sulle condizioni di abbandono non solo del Teatro, ma di tutto il Patrimonio archeologico-artistico del nostro Paese, bisognoso di essere riscoperto, valorizzato ma soprattutto fruito.
La serata è stata simbolicamente titolata «Rovine d’Italia» e Luca Nannipieri ci parla del Teatro di Volterra e del Paese da salvare.
Ci racconta la questione del Teatro Romano di Volterra?
Se si vuole capire quanto la tutela e la conservazione fine a se stesse producano luoghi passivi e inospitali, è sufficiente vedere il Teatro romano di Volterra a Pisa, del I secolo a.C., unico esempio di teatro antico finora scoperto che ripropone i canoni che Vitruvio definì nel suo classico «De architettura». Finora Ministero e amministrazioni hanno preservato la mera sopravvivenza del teatro, senza che vi sia una fondazione che lo gestisca e lo valorizzi, senza il coinvolgimento delle comunità locali e delle libere associazioni del territorio. Di fatto il sito archeologico si è ridotto ad essere un luogo potenzialmente incredibile, che sopravvive però mestamente, con pochi visitatori (22 mila nel 2011, a fronte di 3 milioni di turisti ogni anno a Pisa), con orribili tettoie in lamiera che proteggono i mosaici e le parti più delicate, e sovente l’erba incolta. Sembra un grigio cantiere, e non un luogo dove la nostra civiltà interroga le sue radici, e dove un’azienda culturale, managerialmente indirizzata, sviluppa progetti di approfondimento e promozione per turisti, cittadini e studiosi.
Come ovviare alla «cecità» che ha portato al suo degrado?
La tutela dei teatri romani è solo l’ultimo dei problemi, perché questo di Volterra, come vari altri teatri antichi (quelli di Teano o di Sessa Aurunca a Caserta, o di Altilia Sepino a Campobasso, o gli anfiteatri di Sutri a Viterbo o di Capua), soffre di un problema ben più importante della sua conservazione: ci siamo adattati all’idea che quelle sono rovine. Non vita rigenerante, non vita da rigenerare. Ma vita passata. Rovine, macerie. Per cui la tutela è pensata come il massimo esercizio da proporre. Così i luoghi si spengono, perché non gli si attribuisce più alcun senso vivo, attuale, ma solo uno sguardo retrospettivo. In realtà questi luoghi hanno costituito e stanno costituendo le fondamenta del nostro essere europei. Ecco il mio appello, lanciato con il regista Simone Migliorini, supportato da molte personalità.
La ventilata notizia della nascita di una fondazione potrebbe essere uno strumento giuridico efficace per la risoluzione dei problemi di salvaguardia e valorizzazione del Teatro?
E’ quello che finora soltanto io ho proposto. Una fondazione mista, a carattere pubblico-privato, a gestione autonoma, dove però a dettar legge non sono i rappresentanti della politica nel consiglio di amministrazione, ma i bilanci e l’efficacia dell’operato e delle proposte culturali. Un’azienda che leghi il teatro antico alle altre eccellenze presenti a Volterra, dalla Pinacoteca con alcuni capolavori fondamentali come la Deposizione di Rosso Fiorentino al Museo Etrusco Guarnacci, che per importanza è il secondo dopo quello di Valle Giulia a Roma, e rilanci Volterra come uno dei luoghi principi della storia dell’arte italiana. Occorre riorganizzare totalmente i servizi d’offerta, attivare il personale competente per la comunicazione, la didattica, il marketing. E tutto ciò è possibile soltanto incamerando sostegni finanziari che non si limitino ai pochi fondi del Mibac e che siano imprenditorialmente valutati e indirizzati non da funzionari della Soprintendenza o da archeologici, ma da manager. Stando all’attuale legislazione che non favorisce affatto gli investimenti in beni culturali, il modello di riferimento, con alcune varianti, potrebbe essere quello della Fondazione dei Musei senesi, che ha creato un sistema di 43 musei di tutta la provincia di Siena, permettendo così che il Museo civico di Piazza del Campo, sicuramente più attrattivo, fungesse da traino per far conoscere anche musei minori come quello dell’Oratorio di San Bernardino. In questo mondo globalizzato, sopravviveranno soltanto i territori così fortemente caratterizzati e gestiti.
Il dibattito sull’inserimento del «nuovo nel vecchio», dagli insuperati paradigmi di Boito passando per i più fecondi intellettuali del Novecento ad oggi, continua a scatenare acerrime polemiche. Quali strategie di intervento pensa dovrebbero essere adottate nel caso del restauro del Teatro Romano? Nel sempre vagheggiato tentativo di un rapporto dialettico tra contemporaneità e memoria - che nella reintegrazione dell'immagine aspira a una progressione di intenti che, dal semplice accostamento fisico, arriva ad una fusione tra vecchio e nuovo - lei predilige delle linee progettuali e metodologie di intervento per contrasto ed opposizione o per analogia e consonanza? Meglio un clamoroso contrasto o un pacato accordo, evitando auspicabilmente il rischio di una falsa imitazione?
Non ci può essere un giudizio condiviso su come trattare il restauro o la ricostruzione di un teatro antico, di una chiesa o un palazzo storico. E’ evidente la conflittualità che c’è sul versante del «che fare». Giorgio Grassi ha rifatto il teatro romano di Sagunto in Spagna, e si è trovato davanti a forti critiche. In altri tempi è stato ricostruito il campanile di San Marco a Venezia oppure realizzata la facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze o Notre-Dame a Parigi, o il castello di Pierrefonds, la cattedrale di Budapest, la città fortificata di Carcassonne. A Milano varie facciate romaniche di molte chiese sono state rifatte alla fine dell’Ottocento, come la chiesa di San Sepolcro. La conflittualità sul risultato finale è insopprimibile e salutare.
Non possono esistere criteri omogenei spalmabili in ogni contesto. Mai si ebbero criteri oggettivi e applicati operativamente ovunque: se l’anfiteatro di Capua vive della sua rovinata ma pur sempre originaria forma, il teatro di Altilia Sepino è struggente anche perché sono stati costruite posteriormente delle case rurali che abbracciano la curva della cavea. Dunque la storia stessa ci dice che mai si hanno avute delle regole protocollari, cui riferirsi per gli interventi. Ed io dico: per fortuna! Chi le decide ora queste regole? E a nome di chi? L’Italia le decide per l’Italia, la Spagna per la Spagna? L’Europa detta un indirizzo univoco a cui sottostare? Oppure l’Unesco, che parla addirittura a nome dell’umanità? Io trovo affascinanti le discussioni su come ricostruire, perché dimostrano l’insussistenza di un criterio oggettivo. Ogni intervento è storicamente rivedibile e mai assoluto.
«Rovine d’Italia» intende porre l’accento sulle condizioni non solo del teatro di Volterra, ma di tutto il Patrimonio archeologico-artistico del nostro Paese, d’inestimabile valore, che spesso versa in condizioni di degrado e abbandono. Nel 1956 viene pubblicato «Vandali in casa» di Antonio Cederna, ancora di drammatica attualità. Quali sono i principi teorici che muovono la sua ricerca?
I beni culturali vengono chiamati beni comuni, ma un bene è comune solo quando è oggetto di comunione, quando la sua esistenza o la sua distruzione mi interpella in prima persona, quando alla sua esistenza sono chiamato a farne parte. Altrimenti chi decide e per conto di chi quali siano i beni comuni da difendere? Chi li decide? Un comitato di saggi? I professori universitari? Una conviviale di sapienti? Chi decide, e per conto di chi, che cosa è un bene comune? Sono le collettività, le comunità, le associazioni, la fonte rigenerativa del patrimonio. Da una riapprioprizione dei nostri luoghi e dei nostri spazi passa la trasformazione radicale dei beni culturali che tanto serve all’Italia. L’urbanista Marco Romano ha scritto su questo parole incancellabili. I beni culturali non esistono di per sé, sono vivi solo quando diventano motore di comunità, motore di aggregazione tra gli individui.
Luca Nannipieri è saggista e opinionista dei quotidiani Il Giornale ed Europa
Direttore Centro studi umanistici dell’abbazia di San Savino
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