Coraggio aver conviene
Appartengo alla categoria di quelli che ritengono che la legge Bray fosse necessaria, nel senso che penso sia necessario sostenere la produzione di opera lirica da parte dei nostri teatri. Per la verità il testo della legge fa più pensare che l’“iniezione di fiducia” del MIBACT alle fondazioni lirico sinfoniche che ne facciano richiesta sia una misura per fronteggiare una crisi più che una operazione di rilancio, ma mi piace pensare che lo sforzo compiuto in un momento difficile per tutti possa essere il primo passo per una politica sulla lirica, attorno alla quale vedo un potenziale per il nostro paese.
Se non fosse così, perché togliere risorse ai musei, agli archivi, alle biblioteche, agli altri teatri? Che senso avrebbe avere uno Stato che sostiene otto aziende in crisi e un’opinione pubblica largamente convinta che in Italia ci sono troppi teatri e che la lirica è uno svago da ricchi anziani o al più da turisti?
Perché penso che sia una buona idea sostenere la produzione nostrana di opera lirica?
Secondo il database del centro ASK, prima è la Germania di gran lunga; l’Italia è il secondo produttore di opera lirica al mondo, tallonata dalla Francia. La cosa può sembrare poco più di una curiosità, ma lo è assai meno se si considera il fatto che, nel mondo, la domanda di opera è in crescita. Si aprono mercati in Nord Europa, in Est Europa, in Medio Oriente, in Sud America e, naturalmente, in Cina. E in questi mercati l’opera dei compositori italiani (che è tipicamente l’opera prodotta dai nostri teatri) piace molto.
Il fatto che in Italia si producano tante opere significa che in Italia c’è un tessuto produttivo e una varietà di competenze specializzate in campo artistico, tecnico e logistico. Perché un’opera risulti di buona qualità, devono essere di buona fattura le scene, i costumi, le luci, deve esser affiatata l’orchestra e lei con il coro e i cantanti. La natura dei processi produttivi è tale che per i paesi di tradizione produttiva, e fra questi indubbiamente l’Italia, esista un oggettivo vantaggio comparativo. Non durerà a lungo: per esempio, il teatro dell’opera di Pechino mette in scena dieci nuove produzioni l’anno e alterna cast straniero (spesso italiano) a cast locale. La differenza nella qualità della rappresentazione è eclatante e l’ignaro spettatore non è nelle condizioni di scegliere che cosa ascoltare. Ma il differenziale diventerà via via meno forte; le nostre accademie e le scuole di canto e di musica sono frequentate da giovani artisti asiatici già formati e che vengono in Italia a perfezionarsi.
Quanto tempo manca perché l’Aida made in China sia irriconoscibile dall’ “originale” made in Italy? Vent’anni? Non molto.
La cosa poi è ancora più complicata dal fatto che nel tempo il repertorio che viene effettivamente messo in scena tende a ridursi: già oggi Monteverdi è più rappresentato in Francia che in Italia. Di nuovo questa può apparire una curiosità, ma se si riduce il repertorio si standardizza la competenza di chi esegue e di chi produce e diventa sempre più difficile educare e segmentare il mercato. E quindi mantenere il vantaggio comparativo diventa sempre più difficile. E’ un po’ come è avvenuto per i merletti, ma qui la cosa è ben più grave. Attualmente, i venti titoli d’opera più frequentemente messi in scena al mondo rappresentano quasi il 35% di tutte le rappresentazioni. 13 di questi titoli, pari al 23% delle rappresentazioni sono in italiano; 10 (il 17,1% delle rappresentazioni) sono di quattro compositori: Verdi, Puccini, Rossini e Donizetti. Pensiamo alla fatica che fa la Francia a sostenere la propria lingua, e come è “facile” per noi. Grazie all’opera.
Qui sta, a me pare, la scommessa: fare in modo che le opere dei nostri compositori prodotte dai nostri teatri siano riconosciute come di qualità superiore e diventino un marchio globale, come i film di Hollywood, i libri di Harry Potter, i carri del carnevale di Rio, le soap opera messicane. E che la domanda di opera italiana “made in Italy” in Italia e all’estero cresca in modo significativo, così da rendere ragionevole la presenza di molti centri di produzione specializzati diffusi nel paese: un’offerta importante per sostenere una domanda internazionale. Per il sistema è una scommessa molto ambiziosa, ma che va giocata, se vogliamo evitare lo stillicidio di consulenti, cantanti, musicisti italiani ingaggiati dai teatri internazionali.
Non sarà facile: dal punto di vista artistico, l’opera italiana è da tempo prodotto globale, nei fatti patrimonio dell’umanità. Si tratta quindi di valutare su quali aspetti puntare per definire l’unicità delle nostre produzioni, proteggerla, promuoverla. Penso però che la possibilità di tenere davvero viva la capacità dell’opera di esprimere un differenziale a livello internazionale passi inevitabilmente per l’accettazione una logica più “industriale”: temo altrimenti che vengano meno molto presto le condizioni di sostenibilità e si scateni un pericoloso effetto domino.
I teatri e i festival hanno ora la responsabilità di dimostrare di essere importanti, per il territorio innanzitutto e per il sistema culturale del paese. Sarà temo doloroso raddrizzare i conti in due anni e credo che su questo si debba nel breve concentrare l’attenzione con grande determinazione: non si può immaginare uno scenario di crescita se gli attori principali non danno garanzie di sufficiente solidità. Negli anni d’oro dell’opera italiana, il teatro era il centro laico della vita culturale, politica e sociale della città; è difficile immaginare che possa essere ancora così, ma è imperativo in questi due anni che i teatri costruiscano una sorta di patto con i rispettivi territori, nella ricerca di consenso e di risorse. E sappiamo che il contesto sarà poco generoso, come si vede dai dati. Le fondazioni lirico sinfoniche sono privilegiate nel mondo della cultura.
Un aspetto da studiare con attenzione riguarda gli spazi di collaborazione in fase produttiva e una analisi dei processi artistici e produttivi nel delicato bilanciamento fra necessità di contenimento dei costi, aumento delle alzate di sipario e valorizzazione delle competenze specifiche di ciascuno.
Non ne so abbastanza, ma immagino che nella collaborazione fra teatri si possa cercare un recupero di efficienza e un allargamento dell’offerta, un po’ come è avvenuto per i sistemi bibliotecari in molte regioni. Già succede che i teatri collaborino fra loro, soprattutto i teatri di tradizione, ma il confronto fra le coproduzioni che coinvolgono i teatri francesi e quelle che riguardano i teatri italiani mostra (almeno visivamente) una maggiore capacità dei primi di essere parte di reti internazionali di produzione, premessa importante per aumentare la circuitazione all’estero delle opere prodotte.
I modi e le forme di collaborazione e di internazionalizzazione appaiono necessario tema di riflessione per immaginare una “politica industriale” dell’opera italiana.
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Paola Dubini, Centro Ask Università Bocconi