Alla Fondazione Palazzo Magnani il Novecento attraverso gli occhi di Don McCullin
Reggio Emilia. Dall'11 maggio al 15 luglio, la Fondazione Palazzo Magnani ospiterà, nell’omonimo palazzo che accoglie la sua sede, la mostra «DON MCCULLIN. LA PACE IMPOSSIBILE. Dalle fotografie di guerra ai paesaggi 1958-2011» ripercorrendo gli ultimi 53 anni della carriera dell’artista che con i suoi scatti ha immortalato gli avvenimenti storici più importanti del Novecento, «secolo breve» secondo la definizione data dallo storico britannico Eric J. Hobsbawm, ma intenso.
La mostra, curata da Sandro Parmiggiani e Robert Pledge, racconta in 160 immagini, rigorosamente in bianco e nero, la storia di un secolo attraverso i suoi conflitti, le sanguinose tragedie che lo hanno segnato, ferite non ancora rimarginate.
Così gli scatti di Don McCullin (Londra, 1935), «rubano» istanti e momenti che hanno cambiato il corso degli eventi: la costruzione del muro di Berlino (1961); il conflitto tra Greci e Turco-Ciprioti a Cipro (1964); la guerra in Congo, (1964); la guerra del Vietnam, culminata nella terribile offensiva del Têt (1965-68); la guerra civile e la carestia in Biafra(1968-69); la guerra nella Cambogia dei Khmer Rossi (1970-75); la guerra civile in Irlanda del Nord (1971); il colera nel Bangladesh (1971); la feroce guerra tra milizie cristiane e palestinesi in Libano, fino ai massacri di Sabra e Shatila (1982); i lebbrosi e i poveri dell'India (1995-97); le vittime dell'Aids e della tubercolosi nell'Africa meridionale (2000).
A Palazzo Magnani sono però esposte anche le fotografie che narrano le contraddizioni della società inglese - le gang e i teddy-boys; i senza-tetto e i disoccupati; i nobili alle corse dei cavalli di Ascot – , conflitti intimi dell’uomo tra realtà e apparenza. McCullin cattura la vera natura delle cose e restituisce attraverso le immagini la vera essenza, e la disequazione, della società britannica.
Don McCullin, fotografo e reporter, al servizio del «The Observer» per molti anni e poi del «Sunday Times», vincitore di numerosi premi e riconoscimenti (il World Press Photo nel 1964 per il lavoro sulla guerra a Cipro, la Warsaw Gold Medal e molti altri sino al Cornel Capa Awarddel 2006), testimone di scempi che solo l’imperfezione umana può compiere, stanco forse dello «stato di emergenza», a partire dagli anni Novanta abbandona progressivamente la «linea»» (pur rimanendo sempre fedele), e si dedica alle nature morte e ai paesaggi.
Nature morte ispirate al nostro Caravaggio e paesaggi invernali, «come i quadri di Bruegel ma senza le persone» dai quali emerge, proprio come nelle scene di guerra, la tragicità e l’impotenza umana.
Sguardi su conflitti aspri e sanguinosi di un «teatro degli orrori» o semplicemente lotte quotidiane hanno la forza dirompente di muovere l’indifferenza verso una compassione (cum patire) che è un sentire comune, che abbatte il tempo e le distanze tra gli uomini ed è capace di generare ancora quel sentimento di humanitas che ci rende fratelli. D’altronde «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» («Nulla che sia umano mi è estraneo») cantava Terenzio nella sua commedia Heautontimorumenos già ne 165 a.C.
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