Alla scoperta della «Torino creola»
Torino. Oggi 28 settembre e domani, la Fondazione CON IL SUD festeggia nella Piazza dei Mestieri di Torino il suo sesto anniversario con «A Torino con il SUD». Un grande evento che mette a confronto i maggiori protagonisti del terzo settore, delle fondazioni, del Governo, delle istituzioni nazionali, meridionali e torinesi, per discutere sulle tematiche centrali nella «visione» della Fondazione.
Attenta da sempre alle dinamiche di trasformazione del territorio, in occasione della manifestazione torinese, la fondazione ha avviato una collaborazione con il gruppo romano Stalker Osservatorio Nomade, per scoprire la «Torino creola».
L’osservare di Stalker a Torino si muove alla ricerca di quegli elementi che hanno negli anni decretato l'influenza multiculturale sul tessuto della città.
«Torino creola» è un laboratorio che per sei giorni ha attraversato Torino e i suoi quartieri ascoltandone le voci e che si concluderà sabato 29 settembre con una passeggiata urbana che da Mirafiori, passando per San Salvario, Porta Palazzo, Barriera di Milano, arriverà a Falchera e Barca, raccogliendo le testimonianze di quegli scambi, incontri e contaminazioni che hanno dato forma alla trasformazione della città.
Dal 1995 Stalker «cammina attraverso» i luoghi del cambiamento, attraverso i «luoghi attuali» – luoghi di confine, vuoti urbani, spazi dimenticati - «per osservarne l’autonomo e spontaneo divenire, per poi accogliere e indurre processi e relazioni trasformative».
Dai campi rom alle periferie, il camminare diventa una pratica per ri-tessere relazioni sociali e ambientali lungo terrain vague in cui il vuoto non è altro che lo spazio dove far confluire le possibilità latenti.
Lorenzo Romito, architetto e fondatore dell’Osservatorio Nomade, ci racconta il cammino di Stalker.
Come nasce Stalker?
Stalker – il nome viene dall’omonimo film di Tarkovskij – nasce nel 1995, è il nome di un’esperienza fatta in 5 giorni attraverso i territori «attuali» della città di Roma, spazi abbandonati, spazi vuoti, spazi in costruzione, aree chiuse, dismesse, abbandonate.
Un abbandono che però, fuori dal sistema di controllo, produceva delle forme di vitalità, dei rapporti con la natura e con le persone che se ne andavano riappropriando.
Davanti ad un’epoca di grandi trasformazioni, davanti all’incapacità delle discipline ad approcciare la conoscenza di questi spazi incerti, che richiedono degli strumenti di investigazione innovativi, abbiamo proposto la pratica del camminare, del camminare attraverso, ovvero ricostruire quel rapporto spazio temporale che la contemporaneità ha cancellato con la nostra presenza immediata su piani diversi, mediatici, con la possibilità di dislocamento veloce; Camminare per riscoprire la necessità del rapporto con il territorio, riscoprire la città attraverso la pratica dello scavalcare; per sottrarsi ai dispositivi ordinari di frequentazione degli spazi
Camminare attraverso permette di guardare il mondo e vederlo come qualcosa di insostenibile, ma anche di incredibilmente fascinoso nel momento in cui si diventava parte di quelle dinamiche, vivendole e abitandole, percependo la grande possibilità degli spazi.
Territori «attuali», che si contrappongono al contemporaneo, alla creazione di quegli spazi utopici e autoreferenziali, a uno spazio infinito come può essere il web, e che sono «il percepire di cosa stiamo diventando» al di la della nostra volontà. Una sorta di frequentazione del nostro inconscio che ci rende consapevoli di come noi, percependo lo spazio, lo trasformiamo.
E’ un ribaltamento anche rispetto all’architettura. La risposta ai problemi di oggi, lo sguardo al futuro è pensare nuove idee in astratto che poi si calano nella realtà, ma soprattutto è andare ad ascoltare quanto accade.
La vostra pratica artistica ha rivoluzionato il modo di pensare lo spazio urbano. Il vostro «fare» aggiunge un nuovo significato al termine architettura in quanto «fabbricazione». Il vostro lavoro si pone come osservatorio dell’esistente per una «costruzione di senso» e una trasformazione sociale?
Sicuramente. In linea con gli sviluppi della teoria della complessità, delle scienze sociali, antropologiche. Il ruolo dell’osservatore non è più, come poteva essere nella scienza classica, un fenomeno di laboratorio, oggettivo nel guardare all’accadere, ma è un ente partecipe, consapevole di essere partecipe e che la sua partecipazione trasforma i processi.
Elaborando questa posizione, l’unico modo per comprendere è farsi partecipe delle dinamiche che sfuggono ai modelli di comportamento, perché la città è qualcosa che costantemente diventa altro. Abbiamo difficoltà ad interpretarla, a definirla ma è chiaro che lavorando sui codici di interpretazione, sulle pratiche di osservazione, di relazione si può intervenire nella percezione che si ha dello spazio e produrre cambiamenti ancora più interessanti.
Quindi producendo consapevolezza, si opera nella trasformazione forse con più efficacia e penetrazione lasciando la responsabilità della trasformazione a chi lo spazio lo abita.
In riferimento a Tarkovskij, Stalker è una guida dentro una «zona» mutevole, un pò come lo spazio contemporaneo, per conoscerla e portarci delle persone. Nella pellicola un artista e uno scienziato, le due forme della conoscenza, si avventurano perché dentro la zona c’è una stanza dove i desideri diventano realtà; Stalker invece attraversa solo lo spazio, consapevole e timoroso del fatto che lo spazio cambia a seconda dei propri sentimenti e percezioni.
Troppo spesso e in misura esasperata, l’architettura ha proiettato la possibilità di cambiare in un disegno formale; per noi la possibilità di cambiare viene da una presa di coscienza.
Noi lavoriamo sulle pratiche di relazione, di condivisione, di apprendimento reciproco e conoscenza per produrre cambiamento.
Il camminare di Stalker, quanto deve al situazionismo di Guy Debord e in che cosa si differenzia dalla pratiche situazioniste?
Il riferimento al situazionismo ovviamente c’è. Aver letto «L’internazionale situazionista» appena pubblicato in Italia negli anni ’90 è stato importantissimo.
L’ idea dell’urbanismo unitario, la coscienza della società dello spettacolo, così come la pratica della deriva, esperienza non determinata ma aperta, arrivano da Guy Debord.
Il situazionismo attacca i surrealisti dicendo che il loro successo è anche il segno della loro ormai inefficacia, ma forse questo ha seguito la stessa sorte del surrealismo: il suo successo l’ha trasformato in una macchina spettacolare.
Per cui il nostro non identificarsi né con l’arte, né con l’architettura costituisce una fuga alla definizione di uno schema che è la fonte di un successo, in una società in cui il successo è la rovina della possibilità di accedere, conoscere, incontrare.
Da questo stiamo cercando di sottrarci, quindi non mi identificherei con i situazionisti, anche se è stata forse una delle esperienze più significative.
Tant’è che il vostro lavoro spesso rimane defilato dai processi di comunicazione propriamente dell’arte.
Mantenersi defilati vuol dire sfuggire al successo, che può dare delle soddisfazioni che sono però proprio quelle che uccidono la possibilità, la disponibilità alla conoscenza, alla curiosità.
Come tessitore della riflessione teorica intorno all’agire di Stalker, ho sempre cercato di sottrarmi dal diventare una firma, qualcosa di esaltato e inscatolato.
Questo nostro «non eccedere» nella visibilità ha fatto sì anche che si costruisse un’attenzione diversa nei nostri confronti.
Il nostro lavoro è conosciuto – sono stato in Cina ed è stato bello trovare persone che apprezzavano ed erano ispirate dal nostro lavoro, così come in Sud America o in Africa – ma per fortuna non siamo una vedette. La penetrazione orizzontale nella comunicazione non è solo un caso, ma in qualche modo anche una ricerca.
Col tempo l’osservare è diventato azione.
Noi abbiamo iniziato camminando e attraversando gli spazi abbandonati, abbiamo conosciuto la gente che li abita capendo cosa vuol dire vivere ai margini dei comportamenti sociali, in una relazione da un lato creativa ma dall’altro di totale esplosione.
L’azione è diventata, un po’ come un gioco, la possibilità per aumentare l’interazione e la trasformazione. L’obiettivo è creare le condizioni per permettere accadimenti che catalizzino dei processi di azione collettiva e di relazione tra persone che altrimenti non sarebbero insieme.
E’ il tentativo di far comprendere come l’idea dell’identità sia una follia. La nostra identità è costituita dal nostro diventare continuamente altro in una reazione con gli altri e dalle infinite possibilità che da questo incontro nascono.
La vostra azione, pur rientrando nelle dinamiche dei processi di trasformazione sociale, mantiene una dimensione estetica?
La nostra è una pratica estetica nella misura in cui l’estetica è uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per conoscere, capire e trasformare. Ma è una pratica anche trasversale, che ha sicuramente una grande efficacia nei processi sociali e che spesso usiamo con la volontà di incidere sui dibattiti politico-sociali. E’ chiaro che se nel mondo estetico siamo degli attivisti, nel mondo degli operatori sociali siamo degli artisti!
Stalker è «l’aver luogo di una situazione» che coinvolge attivamente tutte le persone presenti, le quali capiscono l’importanza e l’efficacia di una modalità del genere. Stalker, detournando il contesto, cerca di creare delle condizioni di possibilità costruendo delle relazioni.
Ma se il rapporto, l’apprendimento, il piacere non è reciproco si ha una dinamica di sfruttamento dell’altro. E’ molto importante invece condividere a fondo affinché si crei una condizione reale del «fare», non un agire simbolico che rientra in un discorso autoreferente dell’arte, che non solo non incide, ma rischia in contesti difficili, di essere una forma di sfruttamento estetico del disagio altrui. Lo affermo con spirito autocritico. Un limite del quale ci siamo resi conto operando.
Come nasce il rapporto con la Fondazione CON IL SUD?
Il rapporto con la fondazione CON IL SUD nasce in Sicilia. Tre anni fa abbiamo rimesso in atto la storica marcia «della protesta e della speranza» del 1967 «Per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo», guidata da Danilo Dolci e Lorenzo Barbera.
Tramite Lorenzo Barbera abbiamo conosciuto la Fondazione CON IL SUD e abbiamo iniziato una collaborazione. L’anno scorso, in occasione del suo quinto anniversario, siamo andati alla scoperta di Napoli, delle zone rurali all’interno della città, connettendo, da Sanità a Bagnoli, tutta una serie di spazi incredibili, nella prospettiva di rielaborare un rapporto con la campagna.
Dopo questa esperienza la Fondazione ci ha chiesto di pensare una camminata per Torino, la cui identità rimane molto legata alle migrazioni. E questa è stata la riflessione alla base dell’intuizione di «Torino creola».
Torino è poi una città estremamente efficace nel rielaborare l’incertezza all’interno di un quadro istituzionale. Su questo abbiamo giocato proponendo l’istituzionalizzazione del «divenire altro» di Torino, della sua creolità.
Un consiglio di lettura?
Edouard Glissant, Introduction à une poétique du divers, in cui il termine creolo viene preferito a meticcio. Mentre il meticciato è l’incontro di due persone di culture diverse dagli esiti scontati, la creolità è più imprevedibile, è quella disponibilità a produrre un mondo nuovo.
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