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Venezia è sempre serenissima

  • Pubblicato il: 15/06/2018 - 13:00
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Articolo a cura di: 
Camilla Bertoni, da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018

Il direttore Martin Bethenod spiega presente e futuro della collezione Pinault


«Dopo l’arrivo di François Pinault a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana, altre prestigiose istituzioni hanno seguito il suo esempio», spiega il direttore della Collezione. «Così la città mantiene intatta la capacità di essere una piattaforma d’incontro per il mondo dell’arte internazionale e di alimentare la scena culturale permanente»

Nominato direttore di Palazzo Grassi - Punta della Dogana dal primo giugno 2010, ora anche direttore generale delegato della Collection Pinault - Paris e del suo museo, la Bourse de Commerce, la cui apertura è prevista nel 2019, Martin Bethenod (Lione, 1966) ha iniziato la sua carriera nel 1993 agli Affari Culturali del Comune di Parigi. Nel 1996 è stato nominato capo di gabinetto del presidente del Centre Pompidou e nel 1998 direttore delle Editions du Centre Pompidou da lui fondate. Vice caporedattore e direttore dello sviluppo della rivista «Connaissance des arts» (2001-02) e caporedattore di «Vogue France» (2002-03), dal 2003 entra a far parte dello staff del ministro francese della Cultura e della Comunicazione con l’incarico di delegato alle arti plastiche. Dal 2004 al 2010 è stato commissario generale della Fiac (Foire internationale d’art contemporain de Paris).

Gli chiediamo di fare un bilancio di questi suoi primi otto anni alla direzione della Collezione Pinault a Venezia.

Otto anni sono passati a una velocità incredibile. Lo staff di Palazzo Grassi e Punta della Dogana è fantastico: in quindici esposizioni abbiamo potuto ogni volta rinnovare lo sguardo sulla collezione e abbiamo invitato artisti come Urs Fischer, Rudolf Stingel, Damien Hirst, Danh Vo senza limiti nella realizzazione dei loro progetti. Abbiamo aperto il Teatrino, straordinaria esperienza di creazione architettonica nel cuore di Venezia, con oltre cinquecento eventi culturali, alcuni dei quali indimenticabili, come «The Venetian Blinds», primo festival rock dedicato esclusivamente ai gruppi musicali composti e creati da artisti visivi, con Martin Creed, Rodney Graham, Jean-Luc Verna, i concerti di Lee Scratch Perry o di Arto Lindsay. Inoltre abbiamo organizzato le serate del festival Set Up a Punta della Dogana, con centinaia di persone che ballavano sulla musica di Carsten Nicolai, Matthew Herbert e dei Mouse on Mars, tra gli altri, o le performance di Jérôme Bel, Alessandro Sciarroni e Olivier Saillard. L’obiettivo è di offrire un calendario di appuntamenti lungo tutto l’anno per rappresentare un punto di incontro e dialogo, un incrocio di pubblici diversi e una piattaforma di collaborazione. C’è una formidabile comunità di protagonisti del mondo dell’arte e della cultura che vivono, lavorano o semplicemente passano a Venezia. Sono nostri partner, il nostro primo pubblico che si aggiunge agli oltre tre milioni di visitatori che abbiamo accolto dall’apertura di Palazzo Grassi sino ad oggi.

Come sta cambiando il panorama dell’arte contemporanea a Venezia e quale relazione si è costruita tra la città e la Collezione Pinault? 
Dopo l’arrivo di François Pinault a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, rispettivamente nel 2006 e nel 2009, molti altri protagonisti dell’arte, di grande qualità e di forte influenza internazionale, hanno deciso di venire a Venezia: la Fondazione Prada, le Stanze del Vetro nell’isola di San Giorgio Maggiore, la Vac Foundation e tante altre. Sono istituzioni che hanno portato nuova ricchezza in una situazione già unica, con molti musei e fondazioni, sedi espositive che fanno un lavoro fantastico, senza dimenticare il ruolo fondamentale delle Università e il dinamismo della Biennale. Venezia ha mantenuto intatta la capacità di essere una piattaforma d’incontro per il mondo dell’arte internazionale e, allo stesso tempo, di alimentare la scena culturale permanente, fondata su una comunità di persone che ci vive o ci lavora. Siamo felici che il Teatrino sia diventato in pochi anni un luogo nel quale questa comunità si riconosce e si sente a casa, un punto di riferimento che partecipa, e allo stesso tempo riflette, la vitalità culturale di Venezia.

Qual è la sua visione del mercato dell’arte italiano?
Da quando ho lasciato la Fiac nel 2010, non ho abbastanza contatti con il mercato dell’arte italiano per poter rispondere. Sono sempre stato impressionato, d’altro canto, dalla forza di alcune grandi personalità, colte, coinvolte, eleganti, come i galleristi Massimo Minini o Franco Noero, tra gli altri. E sono anche colpito dal dinamismo dei tanti galleristi italiani che hanno costruito un’importante carriera internazionale, come Isabella Bortolozzi a Berlino o Daniele Belice a Parigi.

Quanto ha influito la sua esperienza professionale precedente sulla gestione degli spazi veneziani? 
Forse l’insegnamento più importante che ho acquisito è quello che un progetto culturale non è mai un circuito chiuso. È necessario lavorare senza sosta in sinergia con il contesto geografico, artistico, sociale e intellettuale in cui quel progetto si sviluppa, avere una visione d’insieme e una conoscenza del mondo dell’arte e degli attori che vi operano: artisti, musei, collezionisti, intellettuali, tutti con approcci molto differenti tra loro, ma che condividono lo stesso ambiente e le stesse dinamiche.

Qual è il suo ruolo in «Dancing with Myself», la mostra aperta sino al 16 dicembre a Punta della Dogana?
Ho curato la mostra insieme a Florian Ebner, allora direttore della fotografia al Folkwang Museum di Essen, oggi con lo stesso ruolo al Centre Pompidou. Al mio arrivo a Venezia ho preferito condividere progetti di curatori eccellenti, quali Caroline Bourgeois ed Elena Geuna: il dialogo, la dialettica e a volte la tensione che si stabilisce tra il curatore di una mostra e il direttore del museo dove questa si svolge sono elementi importanti e fertili. «Dancing with Myself», nata al Folkwang Museum di Essen, white cube «funzionale» di David Chipperfield, dove è stata presentata nel 2016, è stata poi spostata a Venezia, in un museo al contrario estremamente «contestuale». Ho rapidamente deciso insieme a Ebner di ripensare completamente l’esposizione. A Punta della Dogana abbiamo considerato ogni dettaglio, i mattoni, le travi, la vista verso il canale della Giudecca e il Canal Grande. Il ritmo e il volume degli spazi non sono più, come a Essen, modulabili secondo le esigenze e la struttura del percorso espositivo, ma si impongono con la loro presenza. Ci sono 40 opere in più, di cui circa 120 dalla Pinault Collection, 85 delle quali mai esposte prima nei musei veneziani, mentre una ventina provengono dal Museum Folkwang: la bellezza degli spazi di Punta della Dogana, la complementarietà dei nostri approcci, anche quello di Marco Ferraris, nostro responsabile dell’ufficio mostre, hanno reso l’esperienza eccezionale.

Da dove nascono l’idea e il titolo di «Dancing with Myself»?
Non è una semplice antologica della collezione, ma una mostra che ci permette di includere allo stesso tempo artisti di generazioni, origini e discipline differenti. Il tema dell’autorappresentazione, dell’uso del proprio corpo o della propria immagine da parte dell’artista come strumento o come arma, come accade a volte in opere dalla forte dimensione critica, teorica e politica, ci è sembrato appassionante. Non si tratta di una mostra sull’autoritratto: l’immagine dell’artista non è il soggetto della sua opera, ma ne è la materia prima. Quello che esprime il titolo dell’esposizione è l’idea del corpo che si mette in movimento per esprimere, per dare un senso. Questo senso può essere erotico, intriso di una certa dimensione di gioco, ma anche di impegno, rivolta e attivismo. Quanto alla dimensione cronologica, l’esposizione prende avvio essenzialmente dagli anni Sessanta-Settanta, con due riferimenti a esperienze precedenti, legate alla storia della modernità, Claude Cahun e i giochi Bauhaus di Kurt Kranz, e termina giusto prima dell’avvento della generazione cosiddetta «post internet» che affronta problematiche differenti, quando comincia l’epoca del selfie. Magari potrebbe essere il tema per un’altra esposizione!

In «Dancing with Myself» dialogano opere provenienti dal Museo Folkwang di Essen e quelle della Collezione Pinault…
Questi confronti possono mettere in risalto alcune complementarietà molto forti tra le due collezioni, come nel caso di Cindy Sherman, con il nucleo di opere degli anni Settanta o la sua straordinaria serie del 2016 proveniente dalla Collezione Pinault e i famosi «Film Stills», appartenenti alla collezione del museo di Essen. O ancora il dialogo tra i video di Bruce Nauman e le fotografie di John Coplans. In altri casi permette di creare relazioni e incontri inediti tra artisti di generazioni o origini diverse, come LaToya Ruby Frasier e Nan Goldin, Ulrike Rosenbach e Lili Reynaud-Dewar o ancora il gigante della fotografia americana Lee Friedlander con il giovane brasiliano Paulo Nazareth.

Quali sono i programmi futuri della Collezione? 
Come nella mostra di Albert Oelhen, in corso a Palazzo Grassi (sino al 6 gennaio, Ndr) che dà luogo a un importante programma di concerti, performance e incontri con l’artista, conferenze e altro, «Dancing with Myself» ci permette di sviluppare la dimensione culturale di Palazzo Grassi, Punta della Dogana e Teatrino a cui siamo molto legati. Questa primavera, accoglieremo Christian Marclay, Gilbert & George, Prinz Gholam, Michael Fried e molti altri ancora. L’apertura a pratiche artistiche differenti e a pubblici diversi è diventata parte essenziale della nostra identità, quali protagonisti della scena veneziana, italiana e internazionale. È troppo presto per annunciare la programmazione (peraltro già definita) delle mostre del 2019 e del 2020.

Ci può anticipare qualcosa sul progetto di restauro di Tadao Ando e di riconversione della Bourse de Commerce a Parigi? Quando se ne prevede l’apertura e con quale allestimento?
La Bourse de Commerce si aprirà durante il 2019. Si tratterà, nello spirito del progetto che sviluppiamo a Venezia da una decina d’anni, di proporre un punto di vista unicamente sull’arte contemporanea attraverso il prisma della Collezione Pinault. La programmazione si articolerà, dunque, in mostre collettive realizzate a partire dalle opere della collezione e progetti concepiti attorno o insieme agli artisti con cui intratteniamo rapporti lunghi e duraturi: esposizioni personali, retrospettive, progetti site specific... Ma è ancora presto per i dettagli.

 

Camilla Bertoni, da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018