Una buona partenza richiede di sostenere il passo
SPECIALE MUSEI. La parola all’economista della cultura Michele Trimarchi. «Il decreto sui musei e le nomine di nuovi venti direttori possono aprire un percorso che finalmente superi le gabbie burocratiche che tuttora invischiano il sistema culturale italiano e ne rafforzi la capacità strategica e progettuale nel quadro di un intenso dialogo con la società. Non serve criticare preventivamente, ma è indispensabile costruire i fondamentali di un sistema che possa basare le proprie scelte e le proprie azioni su orizzonti strategici chiari, obiettivi condivisi, valutazioni trasparenti e univoche, autonomia decisionale, flessibilità operativa, e una nuova complicità tra pubblico e privato»
Che le nomine dei direttori di venti musei italiani scatenassero molti fuochi d’artificio non sorprende. Lascerei agli antropologi dei prossimi anni il compito gravoso, ma in fondo divertente, di decrittare i meandri psicanalitici del sistema culturale italiano. Sorprende invece che i commentatori (campo in cui prevale tuttora un generoso volontariato) si siano affaticati a giudicare, valutare, contestare e in più di un caso condannare le scelte adottate, e che nessuno si sia posto domande sul futuro.
Fabbricato un decreto che declina un assetto organizzativo dei musei statali, scelti venti direttori, trascorso il limbo estivo, che succede? La logica del Ministero sembra perseguire un graduale ridisegno delle istituzioni culturali italiane, dai teatri d’opera ai musei passando per la prosa e l’archeologia; la sequenza delle azioni ha una sua teatralità e pertanto oscilla, singhiozza, si ferma e riparte in modo per molti versi inaspettato. Decreto e nomine potrebbero rappresentare lo snodo che impedisce ogni possibile – e desiderata – restaurazione. Purché si abbia in mente, magari ragionandoci apertamente, qual è l’orizzonte delle istituzioni culturali.
Una buona partenza richiede di sostenere il passo. Il rischio è che il decreto intacchi solo profili formali e tattici: l’autonomia è piuttosto limitata, le dinamiche interne appaiono rigide, la possibilità di adeguare struttura e azioni a percorsi strategici e bisogni inattesi sostanzialmente nulla. Flessibilità zero. Il ventaglio di scelte che si possono realizzare resta seduto sul dilemma ormai vintage della cultura italiana: se facciamo entrare i privati, riusciamo a ottenerne qualche fondo? Anche quando, usare un bilancio meno angusto per una routine progettuale asfittica non sarebbe un grande passo in avanti.
Quanto ai direttori, ogni scelta è per sua natura discutibile, ma l’attesa della perfezione ha già strangolato l’Italia e il suo sistema culturale per troppi anni. Colpisce che si giudichino preventivamente le persone, e non – come sarebbe utile, visto che di spesa pubblica si tratta – le azioni alla luce del proprio impatto di medio periodo. Né il decreto sui musei né la vulgata da salotto si accorgono di quanto sia importante adottare un approccio strategico, il che richiede l’elaborazione condivisa e trasparente di obiettivi che superino l’enfasi sentimentale dei vari «educare il pubblico», «valorizzare le risorse umane» e così di seguito, tutti obiettivi sacrosanti soprattutto perché generici e non realmente misurabili.
Né ci dovrebbe affascinare l’ansia da prestazione che piace a tanti giornali. Che un museo italiano incassi meno di un museo straniero potrebbe non significare un bel niente, magari ricordandoci che non si tratta di istituzioni omogenee e che l’arte e la cultura non sono comparabili: ogni museo è unico, e dovrebbe far tutto quello che può per enfatizzare la propria infungibile specificità. Sarebbe pertinente, piuttosto, verificare l’andamento nel tempo di alcuni dati essenziali: il pubblico e la sua composizione (magari non il titolo di studio e il reddito, ma la provenienza geografica, le esperienze culturali, le connessioni sociali), il ricavo e la sua disaggregazione per fonti, l’impiego delle risorse umane e l’accrescimento delle loro competenze tecniche e scientifiche grazie alle attività realizzate.
La prima macrovoce richiede una buona analisi del pubblico, possibilmente instaurando relazioni che incoraggino scambi e interazioni; la seconda presuppone una discreta libertà di movimento nella raccolta di fondi, cosa che di norma si basa su uno scambio e su progetti condivisi, non certo sulla mera e presunta sensibilità culturale di finanziatori acritici e ostentativi; la terza è più rognosa, e passa attraverso una gestione strategica delle risorse umane, una loro flessibilità interna tra ruoli, sezioni e attività, e la capacità del direttore di facilitare le ibridazioni professionali. Senza tutto questo non solo non si capisce in che modo il museo destini e utilizzi il proprio patrimonio, ma lo si atrofizza in un santuario espositivo nel quale la scommessa è piacere agli addetti ai lavori ma non dialogare con la società.
In questa gabbia burocratica, che mette a fuoco un interesse pubblico romantico ma autoreferenziale, anche la gamma dei servizi – di sinergie e alleanze con il resto del mondo non compare neanche il fumus – è tuttora dipanata nella cornice obsoleta di un rapporto quasi conflittuale e non proprio complice tra pubblico e privato. Anche in quest’area delicata e cruciale una buona dose di autodeterminazione, flessibilità, trasparenza e accountability non dovrebbe mancare. Il decreto semplicemente non la prevede. I direttori di fresca nomina potranno avere intuizioni brillanti, ma il rischio di annegarle negli ingranaggi bizantini della pubblica amministrazione appare, purtroppo, concreto.
Se i mutamenti di quest’anno possono rappresentare uno snodo di qualche peso, può essere necessario avviare un percorso solido che accresca progressivamente la reale autonomia dei musei e lo spettro strategico e decisionale dei loro direttori, ne combini flessibilità interna ed esterna con responsabilità misurabili, e possibilmente connetta tanto le dimensioni dei fondi annuali quanto la valutazione del management alla congruità tra obiettivi stabiliti e risultati conseguiti. Ogni museo, messo a fuoco il proprio orizzonte strategico, dovrebbe poter valutare l’efficacia dei progetti e delle azioni, fissare un arco temporale di riferimento, e tra pochi anni scegliere il direttore senza dover sottostare alle secche bizantine del bando pubblico, rispondendo a esigenze e orientamenti specifici. Sono opzioni dettate dalla logica elementare.
© Riproduzione riservata