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Un matrimonio per il patrimonio

  • Pubblicato il: 15/06/2015 - 16:15
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

SPECIALE VALORIZZAZIONE DEGLI IMMOBILI PUBBLICI E SVILUPPO TERRITORIALE. Il Commento di Paolo Castelnovi, esperto in analisi e progettazione del paesaggio, e già docente di progettazione urbanistica e pianificazione paesistica al Politecnico di Torino, al volume Strategie e strumenti per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico
 

 
 
Da poche settimane il Dipartimento Affari Regionali Autonomie e Sport, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha pubblicato, entro il Progetto EPAS, un dossier ponderoso sin dal titolo: Strategie e strumenti per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Si tratta di un meritevole lavoro di riorganizzazione logica ed operativa della selva di provvedimenti, che degli ultimi anni hanno cercato più o meno disordinatamente di liquidare immobili per far fronte alla crisi di liquidità del settore pubblico. Si rivela un dramma al rallentatore, cominciato quasi 10 anni fa e ancora in corso, che mostra la vischiosità delle procedure, la ritrosia dei funzionari ad occuparsi di gestione e di sostenibilità economica e quindi la difficoltà di un decisore operativo ad agire velocemente nel sistema italiano. Chi pensava di vendere immobili pubblici come uova al mercato mostra la sua ingenuità (o la falsa coscienza, per poter dire: io ci ho provato, ma il sistema è borbonico).
Ma non tutta la lentezza vien per nuocere: c’è stato il tempo per far crescere, nel contenuto prevalentemente economico e congiunturale dei provvedimenti, la «buona pianta» della cultura.
Prima (tra il 2006 e il 2010) ci si è accorti che non si potevano fare i conti sulla vendita e la trasformazione di immobili qualificati (i bocconi più ghiotti) senza passare da un’autorizzazione di chi localmente o centralmente gestisce i beni culturali o ambientali. Dal 2011, affinando un po’ il tiro, il legislatore ha scoperto che l’alienazione e l’intervento su un bene interessante può generare ricadute più positive, anche economiche, se si valorizzano non solo gli aspetti funzionali ma anche quelli culturali. In termini più generali si è scoperto che il «valore» riconoscibile da un soggetto fruitore pagante, è tanto maggiore quanto più il bene ha qualità storiche, artistiche o paesaggistiche ben conservate. Si supera finalmente la brutalità di chi ha pensato che valorizzazione significasse solo «pagato 1, venduto a 3» , e che questo si realizzasse solo con la speculazione legalizzata delle varianti urbanistiche con incrementi funzionali o quantitativi sugli immobili da cedere.
Nei provvedimenti di legge il ruolo degli immobili di interesse culturale o ambientale si è man mano modificato: da potenziale problema a potenziale risorsa per la valorizzazione. Anche il tema delicato delle competenze è stato affrontato nel modo più serio dal 2011, coinvolgendo il Mibact e l’Agenzia del Demanio in un protocollo di intesa che apre a tavoli di lavoro congiunti e a valutazioni integrate dei progetti di valorizzazione. Nei più recenti provvedimenti i titoli più o meno retorici («Federalismo culturale», «Valore Paese») sottolineano comunque la svolta di una strategia che, partita da obiettivi strettamente economici, si è volta progressivamente alla considerazione di ricadute più complesse, di attrattori culturali e di sviluppo locale. Finalmente si sta scoprendo che accoppiare economia e cultura, non solo a parole ma nei fatti, può dar luogo ad esiti positivi per tutti: un buon matrimonio per salvare il patrimonio, come nelle commedie ottocentesche.
Ma è proprio sul versante operativo che siamo solo all’inizio, come dimostra il pur volenteroso dossier EPAS: in ogni caso risulta evidente l’inefficacia di un governo dell’azione pubblica che usa solo lo strumento normativo, strutturalmente top-down, senza accompagnamenti di programmazione o di linee guida operative. Quando, a 10 anni dai primi provvedimenti di legge, esce un dossier come questo, che fa il punto sulla situazione, si vedono tutti i limiti e le difficoltà degli ingranaggi operativi pensati sempre a partire da un centralismo malfidente delle periferie e poco avvezzo a stabilire rapporti etici e non solo commerciali tra pubblico e privato. 
Le linee guida del dossier si aprono con una bella sintesi (di Davide Ponzini) che già nel titolo dichiara la rotta: Analisi critica e proposte relative ai beni culturali. Valorizzazione dei beni culturali e strategie di sviluppo locale: verso un approccio progettuale e territoriale.
Emerge subito, nell’analisi critica di apertura, l’abuso della retorica di «cultura come motore di sviluppo» che, come dichiarazione non strumentata, finisce per valere tanto quanto «con la cultura non si mangia» di tremontiana memoria. Al contrario si prospetta come strumento di lavoro una sperimentazione su casi locali, da verificare nelle pieghe effettive delle procedure, delle difficoltà e delle potenzialità riscontrate caso per caso. Nella sintesi si affacciano ambiti concettuali, come progetto o territorio, poco utilizzati nelle norme statali e invece frequentati assiduamente, anche se con difficoltà, da chi tenta di applicare le direttive italiane ed europee in casi concreti di valorizzazione locale. Si evidenzia la coerenza della strategia di valorizzazione culturale con molte delle linee di azione comunitarie dei fondi strutturali e l’esigenza di inserire organicamente la prima nei programmi delle seconde. Infatti le linee di azione dei programmi FESR possono costituire a buon titolo la corretta cassa di risonanza e di gestione delle ricadute territoriali di operazioni di valorizzazione immobiliare, che comunque sono sempre puntuali.
D’altra parte emerge l’altro ritardo storico delle politiche di governo del territorio in Italia: la difficoltà di programmazione, di monitoraggio, di gestione sostenibile nel tempo. E’ versante da sempre trascurato anche nei migliori progetti, per il quale abbiamo poche buone pratiche in patria e pochissime competenze manageriali, soprattutto del settore pubblico (quelle che invece sono alla base dei curricula degli addetti del settore culturale europei). Così in generale si spiega non solo le difficoltà del soggetto pubblico a portare a fondo i progetti comunitari, ma anche l’incapacità a gestire rapporti pubblico-privato che esulino dal codice degli appalti (in cui la gestione post-operam e post-servitium è notoriamente una terra di nessuno che si offre a gravi omissioni quando non a vere e proprie truffe). Infatti la sottovalutazione dell’importanza degli aspetti gestionali permanenti e della sostenibilità economica dei progetti spiega l’assenza di ogni strategia di alleanza dello Stato con il Terzo Settore, dove le competenze gestionali e gli esperimenti per la sostenibilità degli interventi sono certamente più avanzati che nel governo della cosa pubblica. Nelle norme per la valorizzazione del patrimonio il Terzo Settore meriterebbe una strategia di accordi specifica, che sperimentasse forme diverse da quelle del tradizionale rapporto pubblico-privato, di partenariato con esplicite finalità di servizio pubblico, per le quali molti soggetti del Terzo Settore sono pronti a far bene.
Ma non ci si deve fermare a generici inquadramenti: si tratta in ogni caso di creare un ambiente culturale e procedurale adatto a sperimentazioni di valorizzazione condivise tra diversi soggetti, in cui i monitoraggi diventino racconto pubblico e non documento burocratico, in cui si discuta degli eventi man mano che avvengono e si abbia lo spazio per correggere il tiro in corsa. Anche alcuni degli esempi di buone pratiche di valorizzazione immobiliare, che concludono il dossier, mostrano questa promettente direzione di marcia, per passare da procedure episodiche più o meno efficientemente gestite, in cui il valore si doveva ritrovare entro il progetto stesso (sostituendo gli usi o immettendo immobili meritevoli in mercati di prestigio) ad una diversa dimensione dei programmi, che immettono il singolo intervento in strategie di politica urbana e territoriale più complesse, di medio-lungo periodo. Insomma sembra che ci siano le condizioni per sperimentare, per il nostro patrimonio, il passaggio dalle cure sintomatiche a quelle stabilizzanti, con prodotti a lenta cessione (di valore).
 
Paolo Castelnovi, esperto in analisi e progettazione del paesaggio, docente di progettazione urbanistica e pianificazione paesistica al Politecnico di Torino fino al 2010. Coordinatore o consulente per il paesaggio nei piani paesistici e territoriali della Valle d'Aosta, del Piemonte, delle province di Trento, di Venezia, di Napoli, di Corona Verde di Torino, di piani di aree protette (Colli Euganei, Monti Sibillini, Cilento e Vallo di Diano, Monte Beigua), progettista di parchi urbani.
 
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