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Ripartire dall’economia della cultura

  • Pubblicato il: 23/08/2016 - 09:02
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Michele Trimarchi
Nella foto un lavoro di William Kentrige

SPECIALE MECENATE '90. Quinto contributo al Forum lanciato da Mecenate ’90 dalle nostre colonne. «Politiche culturali. Di che parliamo?» è il punto di partenza del ragionamento di Michele Trimarchi, tra i partecipanti alla giornata di lavori organizzata dall’Associazione. «La questione della cultura, e delle politiche culturali, è essenzialmente culturale. (…) Se il gemito del sistema culturale continua a chiedere più fondi e più norme non si riesce a cogliere alcun segnale di mutamento”(..) “Per costruire un sistema di politiche culturali (…) è necessario che il sistema culturale ridisegni la propria mappa strategica e pretenda un’azione pubblica che ne estenda le opportunità e ne rafforzi la responsabilità imprenditoriale, proprio in una fase storica in cui la cultura assume un peso cruciale ai fini del senso di appartenenza a una comunità complessa e multidimensionale“(…)”è necessario partire dall’economia della cultura, finora considerata una disciplina contabile e dimensionale. (..) L’economia è una disciplina che nasce dalle filosofia, studia i processi di scelta in un contesto caratterizzato da risorse non illimitate (…). Il giorno che il sistema culturale capirà che gli economisti sanno costruire domande acute anziché spacciare risposte sommarie ne potrà trarre molto beneficio»
 


 
Di cultura e politiche culturali si parla fin troppo; quanto meno, tra gli addetti ai lavori. Le questioni sono molte, e spesso cruciali. In un periodo così scomposto, in cui lo stesso pensiero critico sembra scomparso (e molto poco ricercato), che il sistema culturale sia in forte debito d’ossigeno è innegabile. Ora, con tutte le inevitabili sfaccettature che una discussione appassionata è capace di generare, la cosa si riduce a due filoni di fondo ai quali ogni specifico problema è di norma ricondotto: le dimensioni dei fondi pubblici da una parte, la perfettibilità delle regole dall’altra.
 
Innegabile: il sostegno finanziario della cultura cala a vista d’occhio, lungo un pericoloso piano inclinato per più di un motivo irreversibile. Le comprensibili proteste non hanno mostrato alcuna efficacia, almeno finora. Gli argomenti filosofici a supporto del finanziamento pubblico della cultura non bastano a scardinare bilanci fin troppo sgangherati, salvo che non si consideri l’importanza della cultura nel quadro più complessivo della crescita sociale ed economica; finché la cultura rimane arroccata e isolata mancheranno ragioni forti a sostegno di un forte investimento pubblico di medio periodo. La cosa appare paradossale, anche alla luce di qualche segnale – tanto pubblico (comunitario, soprattutto) quanto privato – che indica una percezione più incisiva del ruolo che la cultura può ricoprire in un orizzonte di crescita. Ma se poi si considera che l’argomento adottato di solito a difesa del sostegno pubblico è quello dell’impatto economico nella forma di notti in albergo e pasti al ristorante, si capisce bene che il sistema culturale si ostina a ritenere sé stesso incompreso, e soffre di un evidente complesso d’inferiorità nei confronti di qualsiasi altra attività: non si capisce perché i contribuenti dovrebbero accordare il gettito a un’attività solo perché capace di generare reddito (si rischierebbe di giustificare il sostegno pubblico della produzione di droghe pesanti, o della prostituzione; immagino che non sia esattamente quello che vogliamo).
 
Tutti concordano che i criteri e i meccanismi del finanziamento pubblico della cultura non funzionino. Molti ne chiedono comunque un aumento. Pochi si mostrano in grado di gestirlo, anche alla luce di regole che fanno assorbire quasi tutti i fondi pubblici dalla copertura delle spese correnti. Quasi nessuno elabora e condivide possibili opzioni che estendano l’area della progettazione, enfatizzando la respnsabilità imprenditoriale delle organizzazioni e trasformando il settore pubblico da salvadanaio in stratega. Un nuovo, auspicabile assetto del sostegno pubblico della cultura richiede una visione più responsabile al sistema culturale, ma al tempo stesso una decisa virata della pubblica amministrazione che dovrebbe abbandonare il proprio approccio a ragionare per tabulas, a non scontentare nessuno, a non fornire spiegazioni. Finché il sistema culturale continua a sentirsi ingiustamente negletto mentre reclama i favori del principe, e la pubblica amministrazione si comporta come una corte assediata dai clientes ogni aumento dei fondi equivale a dare un farmaco sbagliato in dosi più forti a un malato terminale: ne accelera semplicemente l’estinzione.
 
La questione delle regole suona ancor più dissennata. Nonostante il sistema culturale sia palesemente strangolato dall’eccesso di norme, cavilli, postille e interpretazioni, nessuno osa chiedere quella massiccia deregolamentazione che rappresenterebbe il primo indispensabile passo verso la normalità della progettazione culturale, ma da più versanti si reclamano con una sistematica pervicacia ulteriori norme, accentuandone non soltanto la dimensione già di per sé eccessiva, ma anche la rigida complessità. Il legislatore italiano sta riuscendo a combinare valutazioni censorie con alchimie aritmetiche (la stessa etichetta di ‘algoritmo’ rivela il compiacimento ermetico da operetta del redattore legislativo e regolamentare), eppure nessuno sembra accorgersene, se non per assecondare servilmente questa evidente deriva normativa. A rendere le cose più ostili contribuisce la frammentarietà e la frequente reciproca indifferenza delle norme in materia di cultura: le interazioni tra pubblico e privato non sono assistite da adeguamenti relativi agli spazi progettuali e alla necessaria flessibilità decisionale e operativa; le relazioni tra centro e periferia sono disegnate in modo da generare incertezze e autorizzare controversie; i rapporti di lavoro sono regolamentati tanto più rigidamente quanto più si pretende imprenditorialità.
 
Così va male, certo. Se il gemito del sistema culturale continua a chiedere più fondi e più norme non si riesce a cogliere alcun segnale di mutamento. Le cose appaiono destinate a una solida cristallizzazione che gradualmente finirà per trasformare la continuità in mummificazione, la stabilità in atrofia, il talento in sciovinismo. Prospettiva per niente incoraggiante, ma evitabile a patto di mettere a fuoco le questioni cruciali. In via preliminare occorre liberare la cultura e il suo eco-sistema da una serie di luoghi comuni che continuano a governarne le dinamiche. Perché le politiche culturali possano essere disegnate e rese concrete in modo efficace, verificabile e modificabile, è necessario partire dall’economia della cultura, finora considerata una disciplina contabile e dimensionale. La si dovrebbe definire ‘ragioneria della cultura’ fin quando restringe il proprio campo visuale, analitico e interpretativo ai saldi di bilancio, ai fatturati, alle comparazioni quantitative tra organizzazioni e istituzioni con tutta evidenza inconfrontabili. Si parla spesso di valore ‘incommensurabile’ della cultura dimenticando il significato della parola che impedisce proprio quella misurazione comparativa che risulta l’esercizio ricorrente di molta sedicente economia della cultura. L’economia è una disciplina che nasce dalle filosofia, studia i processi di scelta in un contesto caratterizzato da risorse non illimitate, e soprattutto non basta a sé stessa quando le scelte sono determinate da una molteplicità di fattori complessi, cangianti e pervasi da un’imprescindbile soggettività. Il giorno che il sistema culturale capirà che gli economisti sanno costruire domande acute anziché spacciare risposte sommarie ne potrà trarre molto beneficio.
 
Un altro punto di fragilità è strettamente legato all’interpretazione dominante della funzione pubblica, cui il sistema culturale attribuisce un ruolo giudicante, nel quale si combinano il rigore dimensionale del gendarme e la compassione morbida della nutrice. Nella vulgata italiana il governo non è l’espressione – per quanto controversa – di una società complessa ma una sorta di confessore il cui compito è dosare punizioni e assoluzioni. In ogni caso l’eccesso di peso del settore pubblico finisce per condizionare tutte le dinamiche del sistema culturale: il grappolo di etichette che forma la tassonomia gerarchica delle organizzazioni culturali ne determina scelte e azioni, ne recide all’origine ogni possibile tentazione strategica, ne restringe l’orizzonte delle sinergie internazionali (dopo averne scoraggiato ogni coprogettazione interna), ne comprime i necessari percorsi attraverso mercati molteplici, versatili e inclini all’alleanza. Inutile sottolineare che in questo quadro segnato dalla benevolenza del principe il governo centrale conta – per i destinatari dell’azione pubblica – ben più delle amministrazioni regionali e municipali, che in quanto enti di prossimità possono e vogliono, a ben guardare, costruire strategie incisive capaci di estrarre il valore infungibile della cultura nel proprio territorio più di quanto non possa fare un governo centrale che – almeno formalmente – agisce erga omnes.
 
L’obesità istituzionale pubblica è connessa – cosa prevedibile in un mondo tuttora segnato dall’ansia da prestazione del paradigma manifatturiero e del suo sudario finanziario – con l’erogazione di denaro, ignorando la forza sistematica e in buona parte sostenibile che l’azione pubblica potrebbe mostrare assegnando forme di sostegno in-kind, dalle infrastrutture fisiche (si pensi alla miriade di edifici pubblici inutilizzati) alla dotazione tecnologica, dalla formazione e riqualificazione del capitale umano all’accesso al credito, dall’ingresso nei mercati internazionali alla condivisione di servizi e attività sul territorio, e non da ultimo a forme di tutela delle risorse umane che consentirebbero rapporti di lavoro più flessibili ed efficaci. Basterebbe capire che il sostegno pubblico è utile sul piano tecnico, e non importante su quello simbolico e ostentativo.
 
La questione della cultura, e delle politiche culturali, è essenzialmente culturale. Anziché costruire un progetto in base alla propria urgenza creativa ed espressiva, verificarne le opzioni tecniche e finanziarie, identificarne i beneficiari e negoziarne uno scambio affidabile e misurabile, le organizzazioni culturali vedono le cose al contrario: ci si organizza in modo da rientrare in una delle categorie ammesse al finanziamento pubblico, si aderisce alle condizioni poste da leggi e regolamenti, si confida in un sostegno monetario non inferiore a quello dell’anno precedente, si prediligono scelte convenzionalmente associate al concetto proteiforme di qualità, si cerca di risultare più accettabili dei propri omologhi. Incidentalmente, si subisce l’ennesima leggenda metropolitana secondo cui ogni organizzazione culturale si troverebbe in competizione tanto contro l’industria del tempo libero quanto al proprio interno contro gli altri teatri, musei, siti archeologici e quant’altro. Come se l’offerta culturale fosse omogenea e comparabile. Dopo così tanti anni di politiche culturali censorie, dimensonali e volte alla stabilizzazione tassonomica, molti hanno preferito imitarsi a vicenda anziché specializzarsi nella propria identità; gli esempi non mancano, dal morbo delle grandi mostre blockbuster nei musei ai comici televisivi in molte stagioni teatrali, scelte che hanno indebolito le borse già fragili di molte organizzazioni e istituzioni e non hanno attivato alcuna relazione sistematica con il pubblico (vedere gli impressionisti per urgenze mondane, così come ridere in platea per le stesse battute ascoltate sul divano di casa propria non genera certo il pubblico di domani).
 
Non possiamo aspettarci alcun significativo mutamento nelle politiche culturali fin quando i più convinti sostenitori della loro ormai consolidata filosofia di fondo sono proprio i loro destinatari, che chiedono più denaro invece di pretendere un sostanziale allentamento degli infiniti vincoli, ostacoli, divieti, strettoie e forche caudine che soffocano ogni possibile strategia progettuale ma garantiscono una risicata sopravvivenza. Occorre pertanto che lo snodo decisionale e operativo attraverso il quale le politiche culturali si riflettono sulle sfera del sistema culturale non consista più in un negoziato bilaterale nel quale, inevitabilmente, chi chiede si finge moribondo e chi concede tiene i cordoni della borsa ben stretti; la prospettiva credibile per le politiche culturali dei prossimi anni richiede un coordinamento strategico, una mappa di sinergie, un ventaglio di strumenti e azioni che soltanto una progettazione molteplice e fertile può consentire, se e quando il sistema pubblico elabora una strategia integrata tra i diversi livelli di governo, il sistema culturale enfatizza bisogni e orientamenti comuni creando quella massa critica che è sempre mancata, il sistema territoriale decide che uso fare della cultura gettando nel cestino le ansie competitive, le manie muscolari e il conteggio delle pagine tanto dei giornali quanto del web.
 
Per costruire un sistema di politiche culturali, che quanto meno tenga fede al significato di due parole ormai abusate e per questo spesso interpretate secondo convenienza, è necessario dunque che il sistema culturale ridisegni la propria mappa strategica e pretenda un’azione pubblica che ne estenda le opportunità e ne rafforzi la responsabilità imprenditoriale, proprio in una fase storica in cui la cultura assume un peso cruciale ai fini del senso di appartenenza a una comunità complessa e multidimensionale, della qualità della vita urbana, dell’inclusione sociale, dell’atmosfera creativa, in una parola della semplice ma irrinunciabile ricerca della felicità.
 
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Michele Trimarchi
Economista della Cultura
Presidente di Tools for Culture
 
 

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