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Peer2peer economy: la trasparenza della rete e la forza degli outsiders

  • Pubblicato il: 15/11/2015 - 23:20
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Elisa Fulco

In occasione delle giornate palermitane « Nuove pratiche con il sud Spazi da non perdere», promosse da clac e da Fondazione con il sud, abbiamo intervistato Michel Bauwens, teorico della peer2peer economy e fondatore dell’omonima fondazione, che ci ha raccontato le potenzialità dell’economia collaborativa, i rischi della candy economy , la fiducia negli outsiders e nella trasparenza della rete per la creazione di modelli innovativi, economicamente e socialmente sostenibili
 
 
Oggi si parla spesso di peer2peereconomy. Quali sono le origini e quali le possibili applicazioni?
La peer2peereconoy nasce nei primi anni Novanta come effetto di internet e della rete,  e coincide con l’avvio dell’open source tecnology, dell’open design, che hanno indicato innovative vie di collaborazione tra pari, fornendo una metodologia collaborativa che si presta ad essere adottata in diverse sfere della vita sociale e produttiva delle persone, anche al di fuori da ogni applicazione tecnologica. Alla base, c’è’ una visione comunitaria ed egalitaria che mette al centro i beni comuni (global commons) e la possibilità di fare rete senza intermediazione, sia politica che di categoria (cooperative, associazioni etc.), unendo produzione e distribuzione che, nel capitalismo, come lo abbiamo conosciuto, erano volutamente separati.
 

 
Nella sua teorizzazione dei «commons» fa spesso riferimento al passaggio dal «capitalismo estrattivo» novecentesco al «capitalismo generativo»
.  In cosa consiste esattamente questo cambiamento e che ruolo occupa il mercato all’interno di questo processo?
Il capitalismo produttivo, o estrattivo, ha messo a sistema le macchine, le materie e il lavoro delle persone, il capitalismo della conoscenza, o «netarchico» ha capitalizzato privatamente la conoscenza collettiva, attraverso le gestione delle piattaforme e dei network. Il passo successivo è il capitalismo generativo che ridistribuisce utili, ricchezza e benessere sociale alla comunità che l’ha prodotto, passando inevitabilmente dal mercato. Lo scambio, anche tra pari, deve avere un’agorà, creando nuove regole in grado di riconoscere la proprietà intellettuale e il valore dei contenuti immessi in queste piattaforme.
 
 

Quali sono i contesti e le condizioni in cui la peer2peer economy può meglio svilupparsi?
Non ci sono dei luoghi geograficamente più adatti, le prime forme di peer2peer le ritroviamo negli Stati Uniti, ma anche in Italia con l’esperienza innovativa di Arduino. Ad essere simili sono invece le condizioni: ovvero l’esistenza di una massa di giovani, altamente formata e «precaria» che deve trovare capacità e risorse per sopravvivere al di fuori del sistema.
Sono proprio gli outisders, spinti da motivazioni profonde, se non da vere e proprie passioni, che possono generare il cambiamento dal basso, dando vita al capitalismo generativo che, oltre a creare profitto e ridistribuzione degli utili, deve incidere sul miglioramento della qualità della vita
. Non a caso, i gruppi si formano spontaneamente, partendo da tematiche di interesse comune: cibo, energia, educazione, ambiente, in cui però  il ritorno economico non è la spinta primaria ad aggregarsi. L’utile viene dopo.
In Italia, senza essere degli economisti, comprendiamo perfettamente il significato profondo della «candy economy», soprattutto nella produzione culturale in cui la gratificazione spesso sostituisce la retribuzione.
Sono moltissimi i progetti innovativi, basti pensare a Linux, che non tutelando gli inventori  finiscono per produrre quella che viene definita «l’economia delle caramelle», che lascia briciole e capitalizza la ricerca collettiva. Sono le nuove forme di quello che ho definito capitalismo netarchico, di cui facebook, youtube, huber esprimono perfettamente lo spirito: non producono beni ma si limitano a gestire i contenuti inseriti dagli utenti che popolano le piattaforme.
 
 

In che modo queste piattaforme potrebbero restituire alla comunità?
Sono molte le possibili soluzioni. Basterebbe reinvestire sul network il 20% dei loro utili per finanziare ricerca, borse di studio, premiare gli utenti con un sistema di lotteria, o di «crediti», in base alla capacità di generare contenuti o contatti. Non siamo lontani da queste soluzioni, trattandosi di piattaforme innovative stanno comprendendo che in un prossimo futuro reinvestire è funzionale alla loro sopravvivenza.
Tra le sue proposte per la gestione dei «commons »,  fa spesso riferimento al «copy fair», come evoluzione  del copy left. Perché adottarlo?
Si tratta di inserire dei correttivi alle licenze libere, al copyleft. Chi è escluso dal sistema capitalistico entra in quello di rete, dove spesso non ci sono adeguate protezioni, da qui l’idea del «common fee», che protegge chi è dentro, attraverso l’adozione del «copy fair», che vuole evitare la monetizzazione e lo sfruttamento  di questo operativismo aperto alla base dell’economia collaborativa. Si tratta di differenziare l’utilizzo personale da quello commerciale, dando però un valore, anche economico, a chi apporta conoscenza e miglioramento all’interno del network. Ipotizzando perché no, una «fair coin», una moneta di scambio per misurare i ritorni e differenziare anche economicamente l’investimento fatto.
 

 
Può raccontare delle pratiche che possano rendere comprensibile le possibilità offerte dall’economia collaborativa?
L’dea di fondo è proprio quella di mappare tutte queste realtà che il giro per il mondo stanno già innovando e producendo riforme politiche e sociali, fornendo delle «best practice».
Il progetto Curto Caffè di Rio de Janerio è un caso esemplare che racconta della riappropriazione di un prodotto tipico del paese, il caffè, dal cui sfruttamento traevano profitto principalmente gli investitori stranieri. L’idea è stata quella di creare una comunità del caffè in cui investitori e consumatori fossero parte di una stessa rete, lavorando non sulla certificazione ma sulla trasparenza di tutti i passaggi produttivi sino ai costi finali, con politiche di crowfunding che, con piccoli investimenti hanno, per esempio, garantito forniture gratuite di caffè per due anni agli aderenti. La rottura della dicotomia produzione/distribuzione ha generato coesione sociale,  quotazioni eque del lavoro e ritorni economici. Anche in Europa, in Germania, per esempio, il 60% dell’energia è gestita da cooperative e non più da aziende private.Anche i numeri della sharing economy sono in crescita, in America rappresenta già il 16% del PIL americano. A Copenaghen il 52% dei lavoratori è coinvolto nella peer-economy. In generale, la dimensione glocal è quella che nei network funziona di più perché rompe il sistema di interessi territoriali lasciando spazio a nuovi partner.
 
 

In Italia, l’idea e l’ideazione non hanno quasi  mai una traduzione economica finché non divengono prodotto o progetto. Eppure, senza l’idea iniziale non è ipotizzabile nessuna traduzione commerciale. In che modo l’economia collaborativa può tutelare l’invenzione, la proprietà intellettuale riconoscendo i diversi ruoli degli attori in gioco?
Credo che la vera innovazione sia rappresentata dalla trasparenza del modello collaborativo, che porta a riconoscere e a distinguere naturalmente gli innovatori/ideatori,dai lavoratori e dai fruitori finali. In una logica di cooperazione si vince, o si perde, tutti insieme. Rifacendosi a un modello calcistico, ognuno di noi è idealmente il capitano di una squadra che osserva e guida il gruppo, proponendo migliorie e segnalando errori. Da un sistema gerarchico si  sta passando a un sistema adattivo che muta con l’interazione dei partecipanti.
 

 
Dal suo osservatorio internazionale come legge la situazione italiana?
Credo che gli italiani in questa fase storica descrivano una realtà peggiore di quella che da esterno percepisco. Anche in questo caso, sarebbe utile mappare l’innovazione, e sono sicuro che le sorprese non mancherebbero. Da Palermo, a Milano, a Torino  ci sono degli esempi  di cambiamento. Basti pensare all’adozione del Patto per la cura e la rigenerazione urbana tra il Comune di Bologna e i suoi cittadini. Nell’economia collaborativa il Pubblico è un’auspicabile partner, che può incidere profondamente sul cambiamento, mettendo a disposizione  infrastrutture e servizi.
 
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