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Partire dalla cultura materiale per guardare il futuro. La parola a Christian Greco

  • Pubblicato il: 15/10/2017 - 20:02
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Giangavino Pazzola

Come i musei possono garantire il diritto alla cultura, mettendo dialogo e accessibilità al centro della relazione con i visitatori?  Le modalità virtuose di offerta culturale nella valorizzazione del patrimonio saranno al centro di uno dei due focus di analisi della XIII edizione di LuBeC. Insieme all’indagine del ruolo della cultura nei processi di rigenerazione urbana e nei modelli di sviluppo, infatti, il tema dell’accessibilità culturale rappresenta il cardine dei tavoli tematici, workshop e incontri di quest’anno. Obiettivo: contribuire alla riflessione e attuazione di buone pratiche, per influenzare le politiche in vista dell’anno europeo del patrimonio. Si inizia con il tavolo tematico Verso l’anno europeo del patrimonio: il diritto alla cultura tra accesso e dialogo, con Christian Greco (direttore del Museo Egizio), Erminia Sciacchitano (Direzione Generale per l'Istruzione, la Gioventù, lo Sport e la Cultura Commissione Europea) e Lorenzo Casini (Consigliere giuridico Ministro per i Beni e le Attività Culturali); passando per l’incontro con i Direttori dei Musei Nazionali Autonomi, Museo 4.0: accessibilità e competenze, moderato da Antonio Lampis, nuovo Direttore Generale Direzione Generale Musei MiBACT.

 
Nel 1964, il professor Umberto Eco scrisse il saggio Apocalittici e Integrati. Una delle tesi centrali a sostegno di una nuova concezione del rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e cultura sostiene che, data una società industriale in cui la trasmissione del sapere avviene secondo l’utilizzo di mezzi di comunicazione di massa, l'intellettuale deve interrogarsi su modalità e azioni utili a trasmettere valori culturali. Arrivati alla fase del “post-industriale” (ma anche del post-politico, post-internet e post-qualcosa), pare necessario – e non rimandabile – interrogarsi sull’adesione (acritica o meno) alle nuove tecnologie e alla promessa di progresso di cui si fanno veicolo. Il punto di partenza della seguente conversazione muove da tale consapevolezza, tenendo a mente la massima di Bernardo di Chartres: «siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». Ne parliamo con Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, esperienza che viene spesso citata come caso studio a livello internazionale e che sarà al centro della riflessione del tavolo tematico di apertura Verso l’anno europeo del patrimonio: il diritto alla cultura tra accesso e dialogo.
 
Le tecnologie digitali stanno influenzando l’attività dei musei, dalla conservazione alla ricerca, dall’offerta culturale alla comunicazione. In questo senso, sono aumentate sia le possibilità di trasformazione degli spazi interni al museo sia delle modalità di interazione con i visitatori. In La grande rivoluzione dei musei europei, Negri racconta che il museo digitale non è «un semplice aggregato di database, ma come uno spazio digitale con le sue proprie logiche di visita e utilizzo». Dal suo punto di osservazione, come il museo Egizio si inserisce in tale cambio di paradigma nell’interpretazione del patrimonio?

Nell’affrontare un argomento così rilevante, vorrei aprire una riflessione più ampia sull’importanza della cultura materiale. Stiamo vivendo una svolta epocale dal punto di vista sociale, culturale, antropologico e – nonostante tutto – ci stiamo interrogando poco su quanto avviene ogni giorno. Gli effetti della digitalizzazione e delle nuove tecnologie sulla nostra società, le trasformazioni nel nostro modo di pensare e analizzare la realtà, mi pare siano messe in secondo piano e non vengano analizzate criticamente. Dirigendo un museo archeologico come il Museo Egizio, credo sia necessario concepire il digitale come opportunità per arrivare a una conoscenza più profonda. Talvolta, tuttavia, mi pare si cerchi una spettacolarizzazione eccessiva, come se il reperto in sé non potesse già darci e stimolare la nostra curiosità e desiderio di sapere. Sostenere la tesi secondo la quale il digitale deve necessariamente intervenire per aumentare la fruizione non mi trova d’accordo. Quando il visitatore entra al Museo Egizio per vedere i reperti, vorrei che la sua attenzione si concentrasse sugli oggetti esposti. In questo senso, la nostra istituzione è molto poco digitale poiché gran parte del lavoro è orientato da un disegno ben preciso: i reperti dialogano tra loro all’interno di una ricostruzione di contesto d’appartenenza. L’archeometria, la digitalizzazione degli archivi e la banca dati sulle immagini del materiale esposto (o presente in magazzino) sono elementi che ci permettono di capire meglio il patrimonio. Nel nostro museo, il digitale interviene quando può raccontare delle parti che la cultura materiale da sola non riesce a fare.  È il caso del video che racconta il momento in cui Ernesto Schiaparelli, il 15 febbraio del 1906, scoprì la tomba di Kha. Mettendo assieme i disegni fatti dall’archeologo, le fotografie scattate allora e altre testimonianze, è possibile ricreare il momento della scoperta.

Il tema del digitale è centrale anche nell’ottica di una sostenibilità di lungo periodo dei musei poiché, aderendo acriticamente alla rivoluzione tecnologica, rischiamo di non capire la differenza del valore tra l’originale e la copia. Perché dovremmo spendere milioni di euro per conservare e tutelare l’originale, se poi la copia digitale è perfetta e può assolvere alla stessa funzione del reperto? La materialità, le imperfezioni, il peso specifico di un’opera fanno capire il significato della ricerca dei materiali per gli antichi egiziani, che attraversavano i deserti per recarsi nelle miniere e trovare – solo in quel luogo – una pietra di un determinato colore o venatura. La cultura materiale, con il suo valore specifico, deve essere aiutata dalle tecnologie a essere percepita dalle nuove generazioni, regalandoci delle esperienze sensoriali altre rispetto a quelle conosciute. Una stampa 3D – per esempio – può permettere al pubblico un’esperienza tattile che altrimenti sarebbe impossibile, oppure può permetterci di ricostruire l’allestimento di un contesto di appartenenza per una statua. Ovviamente in museo esistono dei supporti per capire meglio e approfondire la conoscenza, ma non è nostra intenzione arrivare a un livello di spettacolarizzazione eccessiva, che niente avrebbe dato in più al valore offerto dalla cultura materiale esposta.
 
L’altra faccia della medaglia, rispetto a quanto descritto prima, vede la moltiplicazione dei messaggi da decodificare, che potrebbero esporre il visitatore al rischio di un “rumore di fondo” rispetto all’attività del museo. Potrebbe offrirci una panoramica delle strategie di comunicazione sviluppate negli ultimi anni dalla sua istituzione?

Non ci sono touch screen o multimedia nel museo, ad eccezione di una serie di video ricostruttivi fatti assieme al Consiglio Nazionale delle Ricerche e curati dai nostri archeologi, per mezzo dei quali permettiamo di capire il momento della scoperta. Tramite il materiale d’archivio, infatti, abbiamo riorganizzato visivamente un istante altrimenti non percepibile. Per rendere accessibili tali aspetti, offriamo una video-guida compresa nel prezzo del biglietto d’ingresso che permette a tutti i visitatori di fruire dei contributi dei più grandi studiosi mondiali.

Lavoriamo molto anche sulla comunicazione istituzionale, nello specifico su quella che facciamo nelle gallerie permanenti, per colmare una criticità strutturale presente in maniera diffusa su tutto il panorama dell’offerta culturale. Tornando al concetto di spettacolarizzazione, infatti, in Italia pare che la fruizione del bene culturale sia sovente mediata dalla mostra temporanea, e tale formato è l’unico che viene utilizzato per far capire e valorizzare una collezione. Facendo un lavoro di comunicazione strutturata nelle gallerie permanenti applichiamo quanto sosteneva il professor Donadoni (1990): la collezione non è immutabile poiché la nuova conoscenza prodotta dalla ricerca ci permette di interpretare quel patrimonio in chiave sempre diversa e inedita. Questi aspetti possono essere comunicati al pubblico, e adottiamo questo metodo anche con l’uso dei social o trasmettendo in streaming sul nostro sito le conferenze tenute da egittologi di tutto il mondo.

Un aspetto al quale tengo tanto è legato all’uso della tecnologia orientata a rendere il museo partecipativo. Abbiamo fatto un piccolo esperimento con Micropasts, la prima piattaforma tematica dedicata al crowdsourcing in archeologia, sviluppata a partire dal 2013 da UCL (la prima istituzione per lo studio della Public Archaeology in Europa) e British Museum. In quell’occasione abbiamo chiesto al pubblico di scaricare – tramite un’applicazione – delle fotografie messe a disposizione sul sito web e scontornarle per aiutarci a fare un modello 3D. Questo esperimento è il primo passo verso ciò che vogliamo realmente fare, cioè mettere i materiali d’archivio online in modo tale che il pubblico ci possa aiutare attivamente negli aspetti di ricerca del museo.

Sebbene il nostro museo si autosostenga totalmente (ndr: 12 milioni di euro, pari al 58% delle entrate, provengono da ticketing e altre attività di produzione come mostre temporanee, eventi, didattica, bookshop, etc.) non ricevendo sovvenzioni ministeriali, non abbiamo le risorse da destinare alla comunicazione che vorremmo fare all’estero. Musei internazionali come il British Museum e il Louvre, essendo sostenuti per due terzi del budget da fondi istituzionali, possono destinare alla comunicazione oversize delle cifre alle quali noi non possiamo nemmeno sperare di ambire. Abbiamo sviluppato una serie di strategie che ci permettono comunque di fare disseminazione culturale come, per esempio, le nostre partecipazioni in conferenze internazionali – durante le quali presentiamo la collezione e gli avanzamenti della ricerca svolta all’interno del Museo. Ho presentato la collezione e il nostro lavoro a colleghi e pubblici molto importanti come al Metropolitan Museum di New York, al British Museum di Londra, al Neues di Berlino. Considerando che siamo la seconda collezione più importante al mondo dopo Cairo, inoltre, ospitiamo regolarmente un gran numero di studiosi che dialogano con la nostra collezione, studiandola. Abbiamo realizzato una summer school in collaborazione con la UCLA University durante la quale abbiamo ospitato 15 undergraduate e 5 graduate per 5 settimane – un’esperienza che ha avuto tanto successo e verrà implementata nei prossimi anni. Coinvolgere studenti e studiosi internazionali costruisce una relazione solida, genera radicamento e disseminazione perché le loro pubblicazioni faranno il giro del mondo, diventando materiali didattici o divulgativi. Un altro aspetto al quale stiamo lavorando molto sono le mostre itineranti, il nostro biglietto da visita rispetto a pubblici lontani. Attualmente una nostra mostra è stata al Rijksmuseum van Oudheden di Leiden e all’Hermitage di San Pietroburgo, nei prossimi mesi sarà a Montreal - sperando possa proseguire negli Stati Uniti. Inoltre, l’8 dicembre apriremo una mostra in Cina che prevede tappe in cinque differenti città. In questo caso, stiamo anche studiando una soluzione digitale che ci permetta di mettere in dialogo gli oggetti esposti con quelli custoditi a Torino.
 
Come l’istituzione che dirige affronta il tema dell’inclusione sociale, anche dal punto di vista digitale?

È un aspetto fondamentale che ci vede profondamente coinvolti. Abbiamo lavorato sul versante comunicazione per avere una video-guida in arabo, lingua nella quale vengono tradotti i contenuti anche su piattaforma digitale e comunicazione istituzionale. Il Museo Egizio, in quanto museo iconico, vuole avere un dialogo costante con la sponda sud del Mediterraneo. In questo senso, abbiamo realizzato “Fortunato chi parla arabo”, campagna rivolta agli immigrati dal Medio Oriente e sviluppata da un’agenzia di comunicazione che si occupa di minoranze linguistiche ed etniche presenti nel territorio – anche tramite i social. Grazie a questa campagna, nella quale offrivamo due ingressi al prezzo di uno, abbiamo cercato di raggiungere tali comunità con un lavoro fatto sul territorio. Una comunicazione che passa attraverso la cultura materiale e cerca di rendere queste persone fiere di appartenere a una cultura che è custodita a Torino e ampiamente ne ha influenzato l’evoluzione. Il progetto è stato percepito in maniera molto positiva, dal momento che abbiamo coinvolto anche due scuole (una di queste era la Scuola Egiziana Il Nilo) e stiamo cominciando a vedere dei visitatori che arrivano dal Nord Africa. Abbiamo anche organizzato “Io sono benvenuto”, durante La notte del rifugiato, che ha fatto circa 1400 presenze in una sola serata.

Stiamo anche studiando un metodo per migliore altri aspetti di inclusione e accessibilità. Ci sono già delle attività di visite fuori orario per trasformare il museo in un luogo aperto e accessibile, anche a distanza, ai disabili, alle persone ospedalizzate o a coloro che sono attualmente in carcere – come nel caso dell’Ospedale Regina Margherita o del Carcere Lorusso Cutugno. Con il progetto “Museo fuori dal museo”, inoltre, la nostra istituzione assolve alla sua missione più alta – la sua funzione politica di istituzione inserita nella vita della città. Il nostro obiettivo è che l’esistenza e l’attività del museo vengano percepite da tutti – non solo da chi ha la fortuna di venire a trovarci.

Nei giorni scorsi i Rettori di Università e Politecnico hanno proposto la fusione dei due atenei torinesi, al fine di superare la divisione tra sapere umanistico e scientifico ed offrire, così, una formazione orientata ad offrire delle competenze multidisciplinari, integrate e trasversali. I musei possono avere un ruolo attivo in tale cambiamento?

Rispondo in modo un po’ polemico: bisogna ripensare la dicotomia che vede l’università come unica sede accademica, separando i musei da questo tipo di funzione. Anche i musei sono enti di ricerca, la parte espositiva è una delle tante vie nelle quali si estrinseca il nostro lavoro di ricerca. Nei musei lavorano ricercatori che fanno studi sulla collezione, e per assottigliare questa differenziazione il professor Giuliano Volpe parla in maniera efficace dei Policlinici dei Beni Culturali. Mentre questa sintesi si è trovata negli ospedali, dove lavorano i clinici e i professori delle università, nei musei non siamo ancora riusciti a far fruttare il tanto decantato patrimonio culturale italiano proprio perché non siamo riusciti a metterlo al centro della ricerca e dell’azione dell’istituzione museo. Pensiamo al valore attrattivo che la nostra nazione potrebbe avere rispetto agli atenei e agli studenti stranieri, se solo avessimo il coraggio di unire università e musei e aprire le porte a chiunque voglia studiare storia dell’arte o archeologia in Italia – facendolo nei musei, nei parchi archeologici e nelle sovrintendenze. Musei e sedi universitarie dovrebbero compenetrarsi così come facevano in passato, ritornando a pensare che la formazione si fa in museo in quanto ente di ricerca e formazione. Lei andrebbe mai a farsi operare da un medico che abbia solo studiato senza passare anche in sala operatoria?

Ormai il sapere è multidisciplinare. In questo senso, il museo spinge la multidisciplinarietà in ogni sua attività, basti pensare alla complessità racchiusa in un progetto espositivo e alle competenze multiple che vengono convogliate nella generazione di valore sul reperto. Un evento espositivo non esisterebbe senza essere un dialogo corale che coinvolge il curatore, i tecnici, il restauratore, l’architetto, l’ingegnere, il comunicatore, l’esperto di didattica museale, i custodi o altre figure che portano il lor sapere. È la risposta della nostra società a una precedente parcellizzazione e settorializzazione del sapere estrema. È necessario ripensare una certa sintesi e approcciare un argomento da diversi punti di vista per comprenderlo meglio, senza dover per forza tornare alla concezione rinascimentale dell’homo universalis. Non bisogna formare dei tuttologi, ma delle figure competenti che sappiano dialogare tra di loro. Ben venga la ricerca di base specifica, ma in un dialogo di convivenza pacifica e rispettosa delle diverse forme del sapere, stimolando la multidisciplinarietà per un interesse sociale più grande.

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