Paesaggio per nutrire il pianeta
Dall’Expo una contradditoria ambientazione per un tema che poteva essere svolto con grinta dall’Italia. Il mancato rapporto tra rappresentazione e contenuti, tra capacità di attrarre sugli argomenti interessanti e comportamenti indotti nei visitatori, genera una sensazione di spreco e il rimpianto per una bella occasione perduta
Milano. Camminando lungo il Decumano dell’Expo si ha una sensazione di disagio, leggero e difficile da definire ma persistente.
Uno si domanda: forse è il disgusto per il leitmotiv dei banchi da mercato tradizionale che espongono quarti di bue, finocchi e pescispada, grani e marmellate, tutto di purissima plastica cinematografica griffata Dante Ferretti? O forse è lo sbalordimento di vedere greggi ordinati e pazienti in attesa per 4 o 5 ore di entrare in uno stand di fiera, luci e colori, grandi foto e video, suoni forti e ressa e poi uscire e rimettersi in fila per un altro giro in un'altra fiera? Si rimane esterrefatti perché quello in fila è il popolo che suona il clacson un secondo dopo il verde, che chiede perché non rispondi all’sms due minuti dopo l’invio, che non regge una pagina scritta e chiede riassunti di 140 caratteri. Quel popolo impaziente forse considera 300 minuti di coda una sorta di fastidio secondario rispetto al vanto di poter dire «io c’ero» e farsi un selfie con il cacciafuori in costume orientale. Forse per loro le code sono occasioni inusitate di riflessione sulla caducità della vita, o luogo di illuminazioni zen e non ce ne eravamo accorti.
Non ci sono molte altre spiegazioni, anche perché le code dell’Expo si snodano in luoghi deprimenti: si staziona per ore nei corridoi, negli infiniti (e non finiti) spazi residuali che risultano dalla lottizzazione degli stand più o meno allineati lungo la grande allea, poi si va in un non-luogo teatrale, dove si viene presi in uno spettacolino, banale o entusiasmante ma sempre di immagini spaesanti, come in ogni luna park che si rispetti, e poi fuori, a riveder le code.
Comunque a spiegare la sensazione di disagio non basta il malumore per la stanchezza da visita al megaevento, per lo schiamazzo autocentrato dei gruppi scolastici, per la scomodità penitenziale delle file, per la bassa qualità complessiva del luogo.
E’ qualcosa di più profondo. Ci se ne rende conto tornando a casa, quando ti chiedono: hai visto l’Expo? Com’è Nutrire il pianeta?
Rimani di sale: ah già, il tema di quella messa in scena archi-gastronomica era Nutrire il pianeta… un imperativo etico, un incipit messianico finito lussuosamente a pizza e fichi.
E dire che il tema è stato lanciato con un interessante condimento retorico.
Si argomentava: quale paese se non l’Italia può affrontare un tema così potente, affascinante come un’avventura di Indiana Jones, drammatico e festante al tempo stesso?
E non lo si è detto perché sappiamo fare dei bei padiglioni di fiera, ma perché tutti intuiscono che l’Italia è fondata su un patto con la terra, che dà un ineguagliabile benessere climatico, alimentare e sensuale ai suoi abitanti, in cambio di un trattamento di bellezza che nei secoli abbiamo messo a punto un decine di versioni ad hoc, producendo paesaggi d’eccellenza.
E’ il patto con la terra che ci fa tradizionalmente famosi nel mondo, che alimenta una retorica ancora durevole, anche se smentita da 50 anni di nefandezze e tradimenti.
Dalle campagne coltivate alle piazze coi tavolini, ai piatti fumanti, le connotazioni più note del paesaggio italiano riguardano ciò che mangiamo, diversamente dai vasti orizzonti selvaggi del paesaggio vantato dal nord o dall’inabitabilità fascinosa dei deserti e e delle foreste del sud.
In Expo sono oltre 1000 gli eventi che vedono calabresi e trevigiani, salentini e cuneesi a raccontare come dalle loro parti si mangia bene, si coltiva meglio e ogni giorno si segue senza neppure saperlo quella dieta mediterranea che sembra essere il più salutare modo per nutrire il pianeta.
Non solo, ma ci raccontano, nelle salette nascoste e senza folla dell’Expo, come il lavoro per mangiare bene, dall’agricoltore al cuoco, dall’enologo all’insaccatore, sia una continua ricerca di equilibri, di sostenibilità, di economie circolari, di costruzioni sinergiche con i contesti sociali, culturali e paesaggistici. Ci dicono, raccontando le loro esperienze, che food è slow, che piccolo è bello, che milioni di bocche si sono tradizionalmente nutrite con milioni di azioni produttive diverse. Ci dicono che resistere alla spinta straniera di allestire un solo gigantesco apparato e di fornire alimentazione standardizzata, sempre più vicina alle pillole delle barzellette futuribili dello scorso millennio, non è solo una questione di resilienza, ma rappresenta una seria alternativa politica ed economica ai trend imperanti, densi di crisi e di schifose ricadute.
Le periferie rurali dell’Italia, che sono il nostro vanto reale, ci narrano di queste resistenze, di queste conquiste, e lo vengono sommessamente a dire all’Expo, in un luogo dove i costruttori e i gestori non si sono neppure posti il problema di rendere fisicamente evidente la ricerca di equilibri, di sostenibilità e di sinergie socioculturali o paesaggistiche, cioè il fronte sia della tradizione che dell’innovazione in Italia.
Il risultato è una sorta di straniamento dei relatori, di senso di distanza incolmabile che si prova ogni volta che si esce da un seminario o un convegno dove si è parlato (tra pochi, pochissimi) di produttori d’olio di qualità o di ruolo delle femmine nell’agricoltura asiatica e africana, di modi per non sprecare l’acqua o per tutelare la sapienza delle cucine tradizionali, e ci si ritrova nella main street delle facciate insignificanti di vetro e legno e dei gruppi che si fanno i selfie.
Ecco, questa è una spiegazione plausibile del disagio che coglie ripensando all’Expo.
Ma la sfida rimane: anche se a Rho non si riesce ad ambientare un nuovo fronte della lunga battaglia che si sta conducendo per far pace con la terra, per ridiventare italiani attivi.
Anche se, dopo anni di promesse di fare dell’Expo un evento diffuso territorialmente, i visitatori delle magnifiche esperienze rurali e di paesaggio preparate nel giro di 200 km da Milano sono in rapporto 1:1000 rispetto a quelli che camminano nel Decumano.
Qualche risultato forse ci sarà: forse ha ispirato lo stile comunicativo di Expo la figura del seminatore evangelico, forte della dissipazione del suo gesto.
Perciò forse bisogna contentarsi del fatto che 20 milioni di persone, fermi in fila, forse hanno letto alcune frasi significative poste a tema dei diversi padiglioni, anche se gli svolgimenti all’interno spesso confondevano le idee, o erano fuori tema. Così qualcuno sarà tornato a casa con qualche frase che galleggia sulla gran confusione complessiva: da Diversità armoniosa (Giappone) a Condividiamo e arricchiamo l’eredità (Haiti), da Seminare sostenibilità (Qatar) a Seme per un mondo nuovo: cibo, diversità ed eredità (Messico), da Coltivando il futuro (Spagna), fino a Non di solo pane… (Vaticano, of course).
Forse.
Speriamo.
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