Nuove narrazioni per Il Made in Italy. A Base culturale
L’annuale rapporto «Io sono cultura» della Fondazione Symbola, presentato l’11 giugno scorso in conferenza stampa romana in attesa della discussione del workshop 2015 a Treia, stressa il concetto della valorizzazione economica di tutte le attività produttive, tipiche del made in Italy, che dalla cultura traggono linfa vitale. In linea con queste analisi il libro «Raccontare il Made in Italy. Un nuovo legame tra cultura e manifattura» di Marco Bettiol, pubblicato da Marsilio editore, indica delle strategie per le piccole e medie imprese per valorizzare la complessità culturale alla base del prodotto italiano, servendosi di competenze umanistiche per creare storie in grado di mettere in scena la qualità della cultura materiale italiana nei nuovi mercati
Alla base del Made in Italy c’è la tradizione dei saperi taciti del fare artigiano e la cultura del segreto, dei trucchi del mestiere. Che tipo di narrazione è necessario adottare per rendersi vivibili e competitivi sui nuovi mercati?
Bisogna raccontare delle storie che siano in grado di valorizzare l’unicità del nostro saper fare, mettendo in luce tutta la cura e l’attenzione che il produttore italiano impiega nella realizzazione del prodotto. Non si tratta però di un passaggio scontato. Storicamente i nostri artigiani sono cresciuti nella cultura del segreto, basti pensare alla pena di morte prevista ai tempi della serenissima per chi avesse diffuso i segreti della lavorazione del vetro di murano fuori dall’isola. Il consumatore internazionale ha una grande curiosità verso il prodotto italiano. Dobbiamo imparare a comunicare meglio ciò che facciamo. In fondo, i marchi del lusso francese come LWMH ci hanno insegnato attraverso le acquisizioni di aziende storiche italiane (Gucci, Bottega Veneta, Pomellato) quanto sia importante la qualità italiana. Non è un caso che siano stati proprio i francesi a risaltare la figura dell’artigiano, che oggi compare in primo piano nella comunicazione pubblicitarie dei grandi marchi, ridando centralità all’uomo, alla mano sapiente che genera bellezza e crea valore. Se non riprendiamo le fila della narrazione saranno gli altri a raccontarci usando i nostri contenuti culturali.
Artigianalità, design, personalizzazione e autenticità sono le parole chiave da lei adottate per connotare il prodotto italiano. Come si declinano per generare nuovi contenuti?
Il punto di partenza è rendere visibile il legame tra cultura e produzione manifatturiera. La nostra cultura è una straordinaria riserva di idee, storie e pratiche che il nostro paese ha a disposizione e che merita di essere impiegata come una fonte di innovazione. In fondo, molte delle nostre tradizioni culinarie sono il risultato di una lunga elaborazione culturale. Basti pensare alla pasta, oggi piatto unico tipico italiano, che però nel medioevo gli italiani utilizzavano come contorno. Pensiamo più recentemente all’invenzione dell’espresso nato dalla volontà dei baristi italiani di offrire un caffè in tempi rapidi (rispetto alla classica infusione) e dal gusto cremoso. Un’invenzione culturale che ha avuto delle importanti conseguenze dal punto di vista industriale: dalla produzione delle macchine espresso alla cura nelle miscele dei nostri torrefattori. Peccato però che poi non siamo stati in grado di valorizzare tutta questa qualità a livello internazionale, cosa che invece ha fatto Starbucks che ha reinterpretato il caffè espresso in chiave americana. Diventa prioritario saper valorizzare la cultura e la storia che è alla base del nostro prodotto. Per fare questo più del marketing tradizionale abbiamo bisogno di sensibilità umanistica.
Nel libro si fa spesso riferimento alla mediazione culturale. Chi sono i nuovi mediatori?
Sono figure professioni in grado di «tradurre» la componente culturale e il valore aggiunto dei nostri prodotti, calandoli nella cultura locale, partendo dall’ascolto dei mercati. La maggior parte degli utenti di Internet oggi proviene dall’Asia e ha una cultura diversa da quella occidentale. Le nostre imprese devono saper cogliere questa nuova opportunità. Come ci dimostra il caso di Young digitals, un gruppo di giovani studenti che ha creato un’agenzia di comunicazione che ha «antenne» in tutto il mondo e che ha portato a Padova cinesi e russi per consentire alla nostre imprese di dialogare attraverso i social network nella stessa lingua dei consumatori locali. Abbiamo bisogno di nuovi mediatori culturali capaci di combinare cultura umanistica, conoscenze delle lingue e capacità di comunicazione attraverso l’uso del digitale.
Per far crescere le piccole e medie imprese il suo suggerimento è di adottare nuove forme di Digital storytelling.
Il racconto può avvenire su diversi livelli. A partire dal sito web, che molto spesso viene sottovalutato ma che offre grande flessibilità alle imprese per comunicare la qualità del prodotto fino ad arrivare a strumenti più avanzati come i video su Youtube oppure i social network come Instagram. E’ importante ricordare che questo racconto digitale si basa sull’interattività, sulla capacità di confrontarsi continuamente con i consumatori. Grazie proprio alle domande e ai suggerimenti dei consumatori è possibile migliorare la qualità del racconto. Da questo punto di vista le imprese devono investire sul digitale con una logica diversa rispetto a quella della comunicazione tradizionale, previlegiando la continuità nel tempo. Ci sono tanti casi di piccole aziende che hanno utilizzato il digitale con successo. Come Dario Loison che ha trasformato il panettone da dolce stagionale a un prodotto da consumare tutto l’anno che i mercati internazionali hanno riconosciuto e premiato, grazie alla sua comunicazione online e off line. O piuttosto il gruppo di stilisti superduper che hanno rivitalizzato la tradizione fiorentina del cappello attraverso la creazione di storie in cui aneddoti, design e artigianalità sono i fattori chiave del racconto.
Che ruolo gioca il sito produttivo e il territorio nell’identità narrativa dell’impresa?
Il successo del format «Megafabbriche» di National Geographic dimostra che è possibile rendere interessanti e seduttivi i contenuti aziendali mettendo in scena il processo produttivo e la complessità dei prodotti. C’è una richiesta insoddisfatta di poter visitare le imprese e di poter conoscere da vicino i processi produttivi. I musei aziendali rispondono a questa esigenza ma un eccessivo scollamento tra storia e produzione a volte risulta penalizzante. La fabbrica e il museo dovrebbero completare il racconto a vicenda. Un po’ come accade nel Museo della Grappa Poli a Bassano del Grappa in cui la visita al Museo si conclude con il giro in distilleria, coniugando il recupero delle origini storiche della grappa (la biblioteca si compone di 1300 volumi tra cui il famoso Liber de Arti distillandi del cinquecento) con il radicamento nel territorio e con la sua tradizione produttiva.
C’è un caso aziendale in cui convivono reinvenzione della tradizione, straordinarietà del prodotto, originalità e autenticità dell’esperienza?
Un caso emblematico è quello della fabbrica lenta di Giovanni Bonotto, a Molvena, in cui i telai giapponesi, i vecchi macchinari degli anni Cinquanta dialogano con le opere d’arte fluxus collezionate dal padre Luigi, dando vita a tessuti straordinari in cui la materia prima della manifattura è la cultura.
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Marco Bettiol, Raccontare il Made in Italy. Un nuovo legame tra cultura e manifattura, 2015, Marsilio Editore.
Marco Bettiol è Ricercatore in Economia e Gestione delle Imprese presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Padova