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Napoli Zona franca per la Cultura? Prosegue il dibattito

  • Pubblicato il: 18/05/2018 - 08:01
Autore/i: 
Rubrica: 
NORMA(T)TIVA
Articolo a cura di: 
Franco Broccardi

Qualche giorno fa Marco D’Isanto ha rilanciato l’idea di fare di Napoli un laboratorio “dove sperimentare un grande progetto nel comparto culturale e della creatività attraverso interventi di defiscalizzazione”, una Zona Economica Speciale della cultura in cui sviluppare progetti liberi dalle abituali zavorre del fisco e della burocrazia e che possano, quindi, per il tramite della cultura, fungere da traino sociale ed economico. Un esperimento, questo, a valenza europea dove potrebbe essere esportato nelle aree depresse ad elevata contrazione di beni culturali per stimolarne la rinascita. Il dibattito partito dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno si è acceso. Un commento di Franco Broccardi.


Ci sono interpreti ovunque. Ognuno parla la sua lingua anche se un po’ conosce la lingua dell’altro. L’astuzia dell’interprete ha campo aperto ed egli non dimentica i suoi interessi”.
Le parole di Deridda, riportate all’inizio de La settima funzione del linguaggio, l’ultimo romanzo, colto e creativo, di Laurent Binet si adattano bene alla discussione in atto sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno e che ha la sua genesi in un articolo di Marco D’Isanto, acuto intellettuale prestato alla professione di commercialista.
 
Qualche giorno fa D’Isanto ha rilanciato l’idea di fare di Napoli un laboratorio “dove sperimentare un grande progetto nel comparto culturale e della creatività attraverso interventi di defiscalizzazione. Di fare del territorio partenopeo, quindi, una Zona Economica Speciale della cultura in cui sviluppare progetti liberi dalle abituali zavorre del fisco e della burocrazia e che possano, quindi, per il tramite della cultura, fungere da traino sociale ed economico. Un esperimento, questo, a valenza europea dove potrebbe essere esportato nelle aree depresse ad elevata contrazione di beni culturali per stimolarne la rinascita. Un progetto interessante che mette al centro la questione culturale come motore economico del nostro paese, che rilancia il lavoro svolto negli ultimi anni e lo declina ancor di più in chiave di rigenerazione urbana. Un progetto a cui occorre porre attenzione e a cui gli interpreti chiamati a discuterne nei giorni successivi hanno dato, ognuno secondo la propria specificità e con i propri distinguo una ovvia adesione adattata i contenuti alla propria lingua.
 
Giustamente Stefano Consiglio dalle stesse pagine pone il distinguo delle iniziative già sotto i riflettori del gruppo di ricerca del laboratorio di Management del patrimonio e delle industrie culturali dell’Università Federico II che possono essere considerate l’embrione di un fenomeno che la ZES dovrebbe amplificare. Iniziative lontane “anni luce dalla retorica delle start-up” ma anche iniziative per cui “le similitudini con il mondo dell’associazionismo non sono tante”. E in entrambi i casi il tema della sostenibilità è il vero punto di distacco.
 
E quindi a cosa ci riferiamo? Qual è la platea a cui la ZES dovrebbe rivolgersi? Il perimetro è quello indicato da Claudio Bocci che guarda alle “opportunità emergenti del codice del Terzo Settore (che introduce l’impresa sociale)” e alla “nuova figura dell’impresa culturale e creativa introdotta (e quindi un campo che può passare da 0 all’infinito in un batter d’occhio) o un altro ancora da definire?
Questa, peraltro, è solo la prima delle questioni ancora aperte. Perché affinché si possa avere una discussione istituzionale e ascolto dalle istituzioni andrà definito quello che si intende per defiscalizzazione e per sburocratizzazione. Occorre quindi capire di cosa e a chi stiamo parlando.
 
Proprio in questi giorni è stato presentato il Social Impact Outlook 2018 curato da Tiresia, il centro di ricerca della School of Management del Politecnico di Milano. Da questo emerge che “esiste un’ampia platea di imprese a impatto sociale che, adeguatamente supportate attraverso un’adeguata azione di capacity building, possono raggiungere, intempi relativamente rapidi, l’investment readiness necessaria ad assorbire l’offerta di capitali che, ad oggi e in prospettiva, si rendono disponibili per le imprese a impatto sociale”.
La ZES può certamente essere il volano delle opportunità ma, a questo punto, occorre concretezza, la definizione dello schema, della platea, delle agevolazioni. Occorre la definizione degli obiettivi senza la quale il coro dei favorevoli alla ZES assomiglia ai festeggiamenti per un goal che ci ha solo fatto vincere una partita. Per il campionato servono altri passi, altre convergenze. E su questo concordo con Angelo Curti che più che la fantasia serve l’immaginazione al potere: “la capacità visionaria di progettare e dunque di costruire ipotesi praticabili di futuro”. I tempi sono maturi.
 
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