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Mamma, li privati!

  • Pubblicato il: 14/09/2012 - 02:02
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Umberto Allemandi
Il cortile dell'Accademia di Brera

Questa volta l’ennesimo appello a Napolitano è contro la «privatizzazione» (della gestione, attenzione, non del patrimonio) di Brera che il Governo ha finalmente progettato. Brera è il museo principale della città più ricca e moderna d’Italia, Milano. Ma ha un numero bassissimo di visitatori: meno di 288 mila all’anno. Non confrontabile con città come Parigi, Londra o Berlino. I compilatori di questo giornale se ne sono occupati fin da quando, nel 1974, l’allora soprintendente Franco Russoli estrasse dal taschino il progetto della «Grande Brera» e incaricò Giorgio Mascherpa di divulgarlo per la prima volta dalle pagine di «Bolaffi Arte». Il problema dell’inadeguatezza del museo statale di Brera e del veto alla partecipazione privata è aperto ma irrisolto dalla bellezza di 38 anni! Eppure mezzi finanziari cospicui furono allora messi a disposizione da privati come l’Istituto Bancario San Paolo di Torino (Ennio Brion potrebbe testimoniare l’attivismo di sua madre, Rina, presidente degli amici di Brera). Brera è dunque un monumentale capolavoro dell’incapacità e refrattarietà pubblica italiana ad utilizzare la disponibilità privata. Basti ricordare l’inverosimile caso della collezione Jucker.
Questo giornale da decenni sostiene che in un Paese così dotato di beni artistici ma così avaro o sprovvisto delle risorse necessarie (talvolta, va detto, anche di professionalità, talaltra perfino di quella volontà che discende dalla consapevolezza cioè dalla pratica della cultura) logica vorrebbe che un compito così titanico fosse partecipato da tutto il Paese: dai migliori di noi in ragione delle rispettive capacità e non del colore politico. E non interdetto da imperdonabili vizi di origine come l’esser nati privati anziché pubblici.
Non basta. Spesso sentiamo dire che questi sono beni universali, che tutti gli abitanti del mondo ne usufruiscono e che quindi tutto il mondo deve partecipare alla loro sopravvivenza. Nobile ecumenismo. Anche se la traduzione è: dateci anche «voi» dei soldini che «noi» spenderemo. Ci sembra dunque interessante accertare: a) se il rischio è davvero tale da giustificare un allarme così estremo; b) se un appello del gratin artistico (inclusi sgomitanti arrivisti) è l’unico o il miglior sistema per sventarlo, qualora il rischio incombente sia davvero tanto grave e calamitoso, o piuttosto un terroristico polverone mediatico. Chi si oppone sembra più preoccupato di escludere degli «intrusi» che delle esigenze dei musei sofferenti.
Sull’allarmismo nessuno in verità spiega perché i privati non potrebbero contribuire a potenziare la gestione di Brera. Perché si debba rinunciare a quello che i migliori di essi potrebbero fare e dare (entro limiti e regole precise, ma questo è ovvio). Soprattutto «insieme», sommando le rispettive capacità ed esperienze. Pubbliche e private, non necessariamente divergenti o antagoniste. Chi può dire che i migliori dei privati sono meno bravi e avveduti degli equivalenti pubblici? Che Settis sia tanto meglio di Bernabè? Avevamo accanitamente sostenuto questo modello di collaborazione per l’Egizio di Torino (e prima per Rivoli) per dimostrare che poteva funzionare. È improbabile che qualcuno possa sostenere che le cose non siano andate molto meglio di prima. E che il pasticcio che sta rovinando Rivoli non sia stato esclusivamente di origine pubblica. È improbabile anche che qualcuno dei firmatari oserebbe firmare la dichiarazione che i musei italiani sono gestiti meglio di quelli americani o inglesi (a conduzione sostanzialmente privatistica). Escludere i privati in quanto tali è il perfetto equivalente della negazione leghista dell’idoneità di romani, pugliesi o marocchini a condurre tram o a fare il medico o a giocare nel Milan. Sarebbe come dire: in questo museo non vogliamo né privati né ebrei.
Per concludere, fare un appello non solo appare come una manifestazione di delega personale autoconferita (il che in fondo non importa a nessuno), ma un atto massimalista e di contrapposizione oltranzista: o di qui o di là, o con noi o contro. Separa, non avvicina. I buoni da questa parte dell’aula, gli altri sono i cattivi. Gli altri: cioè quelli che non negano ai migliori dei privati potenzialità equivalenti ai migliori dei pubblici. Rivolgersi al Presidente suona un po’ piagnucoloso, fondato su uno scandalismo da anziana signora. Oddio, signora maestra, eccoli i cattivi che vogliono prendersi la nostra merenda! Questa radicalizzazione, basata su una prevenzione ingiusta, indimostrabile e inaccettabile, fa male. Non aggiunge, toglie. È dannosa ed è disonesta: ostacola decisioni equilibrate, razionali e realistiche. Il vero problema infatti è come saranno scelti gli eventuali partner privati, quali saranno le regole e le finalità e chi farà i controlli. Perché dobbiamo pensare che in Italia non ci siano persone culturalmente oneste e preparate che in un Consiglio di amministrazione smettano di pensare al proprio privato interesse per dedicare il loro talento unicamente a quello dell’istituzione? Non è possibile che solo gli inglesi o gli americani riescano a trovare persone così per far funzionare le loro istituzioni culturali. Incluse le inevitabili mele marce, si capisce, che si trovano nel privato proprio come nel pubblico. Non c’è una ragione per la quale la svolta partecipativa non debba finalmente avvenire anche per i beni culturali e per i musei italiani. Che ne abbiano bisogno è un assioma planetario.
PS: Abbiamo scritto puntate molto severe sull’ignavia e non solo del ministro Ornaghi. Ma dobbiamo dire che le sue risposte su questo argomento a Paolo Conti pubblicate nel Corriere della Sera del 23 agosto sono esemplari e meritevoli di totale condivisione. Saremmo tentati di riferirle integralmente. Esortiamo i lettori a leggerle online.   

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da Il Giornale dell'Arte numero 323, settembre 2012