Le imprese culturali come teorema scientifico
Come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima? È la frase che riassume la filosofia steampunk, quella letteratura, e non solo, che immagina un mondo anacronistico in cui elementi attuali vengono trasportati nell’epoca vittoriana creando un effetto straniante, anche divertente, ma sostanzialmente inutile. Ecco, il dibattito attorno alle imprese culturali che negli ultimi tempi sempre più spesso possiamo trovare in articoli, convegni, incontri, siti e confronti tra economisti, operatori e politici molto spesso sembra rimandare a questo: qualcosa fuori tempo tra tecnica moderna e abiti vittoriani. Si guarda al futuro dal punto di vista del passato un po’ come i videogames che, per quanto fantascientifici, rimangono comunque giochi bidimensionali. Ne parla Franco Broccardi. “il futuro per molte realtà che spesso già di fatto operano in un perimetro imprenditoriale, sarà quello di diventare qualcosa di diverso da ciò che sono ora, diventare altro”.
Dimensioni
La questione delle dimensioni delle imprese culturali, a proposito, è uno degli aspetti che a vario titolo si ripropone e che molto frequentemente porta più a dubbi che a reali prospettive verso il futuro. Sia la proposta di legge elaborata dalla commissione cultura della Camera che la Riforma del Terzo Settore e delle imprese sociali sembrano indicare la strada verso cui ci stiamo incamminando: un sistema imprenditoriale più strutturato che in passato, più responsabile, più ampio. In pratica entrambi introducono il concetto di profondità. Ma profondità del sistema non significa eliminazione dal campo degli operatori di piccole dimensioni. Anzi. Significa un aumento della qualità amministrativa (quella delle proposte culturali è una condizione sine qua non), un ripensamento delle logiche di gestione, dell’organizzazione, della rendicontazione. Certamente il futuro per molte realtà che spesso già di fatto operano in un perimetro imprenditoriale, sarà quello di diventare qualcosa di diverso da ciò che sono ora, diventare altro. Uno sforzo che, come sempre accade qualsiasi sia la novità in questione, incontra resistenze e un fuoco di sbarramento più o meno giustificabile.
Tutto questo lo sa bene Giacomo Bosi, professore di Diritto Commerciale all’Università di Trento, che nel suo L’impresa culturale – Diritto ed economia delle attività creative denuncia le nicchie di accumulazione di capitale culturale colpevoli di ingenerare fenomeni di arroccamento cognitivo e di autoreferenzialità.
Se mai Bosi dovesse decidere di cambiare il titolo della sua opera, potrei comunque suggerirgliene uno che, credo, riassuma il suo corposo lavoro di rilievo orografico e che lo ha portato, infine, a definire dove piantare il proprio campo base. Il titolo, stavo per dire, potrebbe essere Cultura citta aperta. Bosi, infatti, ha una concezione economica di impresa, pratica, molto aderente alla realtà attuale. Una concezione voluminosa in cui, come ha anche sostenuto Marco Cammelli su questo stesso Giornale, sono labili e forse per certi versi inutili le distinzioni tra profit e no profit, tra natura pubblica e quella privata. E pure quella tra creativa e culturale diventa più una questione di stile che una vera e propria necessità.
Flessibilità
È un po’ come andare per mare. Lo si può fare in molti modi di cui nessuno è in partenza né giusto né sbagliato: chi sceglie di gozzovigliare in crociera senza mai allontanarsi troppo dalla costa e chi di attraversare in solitaria l’oceano, chi va a pescare perché quello è il suo mestiere e chi organizza gli aperitivi in barca sperando, diciamo così, di fare bella figura. Puoi fare come ti pare ma non mancare mai di rispetto a quella grande massa liquida che è mai ferma. Ogni azione ha il proprio hic et nunc, il proprio momento che si collega al carattere e le necessità di chi le pone in atto. E così è per ogni imprenditore, e così è per un’impresa culturale. Riprendo ancora dall’articolo di Cammelli un concetto che, anche in questo caso, si avvicina alle tesi di Bosi: una solida flessibilità. Un concetto che rende l’idea e la trasmette perfettamente, che avvicina la gestione di una impresa culturale alla struttura di una guaina bituminosa, ma con la sostanziale differenza che, nel nostro caso, anziché avere un effetto impermeabilizzante si mantiene, per propria natura, traspirante. In altre parole: operare in ambito culturale, esserne imprenditore, significa avere a che fare con una pluralità di portatori di interessi di genere alquanto vario, navigare in un mare che, per definizione, non è mai uguale a sé stesso. La flessibilità, quindi, la capacità di adattamento, di possibilità di scelta del modello gestionale più aderente alle capacità e alle esigenze devono essere strumenti di serie nella cassetta degli attrezzi dell’impresa culturale e non più solo parte del kit di salvataggio. Per Bosi, oltretutto, non è necessario niente di più di quello che già ora abbiamo a disposizione per raggiungere lo scopo. Il diritto societario attualmente in vigore contiene già forme e strutture adeguate a ogni esigenza. Quello che manca, e ci può essere dato credito che questo lo predichiamo da tempo, è una conoscenza diffusa, professionisti qualificati e operatori consapevoli del cambiamento e delle opportunità. Del fatto che l’eccezionalità culturale può e dovrebbe essere sostenuta da modelli organizzativi che sappiano far emergere sul piano privatistico il valore sociale e meritorio dei beni che realizzano, in modo tale da smarcarsi il più possibile dalla necessita dei bonus e rendere pratica ordinaria l’eccezionalità insita nella loro attività.
Dinamica
Aggiungerei, infine, un aspetto che ha a che fare con il movimento, fatto da cui, volenti o nolenti, non possiamo sottrarci neppure per un istante nella nostra vita. Panta rei, eppur si muove. Cose così.
Molto spesso nelle discussioni sulle imprese culturali si ha l’impressione che tutto ciò che è adesso così sarà per sempre, immutabile in saecula saeculorum. Che la nostra strada sia sempre un senso unico. Non lo è, invece. Non lo è nessuno status giuridico né uno statuto. Non lo sono il modello di governance, l’assetto e neppure gli obiettivi prefissi, la mission se vi piace sfoggiare l’inglese. Tutto invece è modificabile ed è giusto così perché il tempo passa e non solo le mamme imbiancano. Non è immutabile neanche, e questo tendiamo forse a dimenticarlo, il patrimonio culturale, quella creatura fantastica affiancata, ogni volta che viene nominata, da due guardaspalle: tutela e valorizzazione. Ma se è vero che ogni atto che potenzialmente può metterlo a rischio è quantomeno meritevole di attenzione (sui rischi ci sarebbe però da discuterne bene), altrettanto vero è che tutto ciò che può contribuire al suo accrescimento andrebbe sostenuto come il nostro campione al palio del paese. È il movimento a generare l’energia, quella che possiamo accumulare ma che, prima o poi, dovremo rilasciare perché possa darci la sua necessaria spinta.
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