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La società italiana allo specchio

  • Pubblicato il: 15/12/2015 - 18:09
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Vittoria Azzarita

L'analisi dei principali fenomeni sociali, economici e ambientali che riguardano il nostro Paese, è al centro di due importanti lavori di ricerca presentati nei giorni scorsi. La terza edizione del Rapporto sul Benessere equo e sostenibile dell'Istat, e il 49° Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis, mettono a nudo pregi e difetti di un'Italia in cui inizia a crescere l'ottimismo verso il futuro, nonostante il perdurare di molteplici disparità. In tale contesto, il patrimonio culturale continua a essere una risorsa poco valorizzata e costantemente minacciata dal degrado, a scapito della sua capacità di definire le nuove frontiere dell'italianità
 
 
Dicembre, come noto, è il mese deputato alla presentazione di indagini e resoconti tesi a illustrare l'andamento dell'anno ormai in chiusura. A prescindere dalla tematica e dall'ambito di osservazione, la domanda di fondo di tali analisi risulta essere pressoché la stessa: «come stanno gli italiani?». E la risposta che segue assume nella maggior parte dei casi le fattezze di un cautelativo, ma in ogni caso veritiero, «dipende». Perché in effetti non è possibile fornire una interpretazione univoca di fenomeni complessi, soprattutto quando al centro del dibattito vi sono i principali aspetti sociali, economici, politici e ambientali che caratterizzano il sistema Paese nel suo insieme.
 
Rispettando questa consuetudine, sono stati presentati nel corso della prima settimana di dicembre - a soli due giorni di distanza l'uno dall'altro – il Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) 2015 redatto dall'Istat[1], e il 49° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2015 a cura della Fondazione Censis, Centro Studi Investimenti Sociali[2]. Due ricerche che, con le dovute differenze metodologiche, offrono una visione complessiva e articolata della società italiana, svelando un Paese fortemente disomogeneo al suo interno in cui l'interesse particolare, individuale e di gruppo, ostacola la formazione di intenti e valori condivisi dalla collettività, e in cui il ceto sociale di appartenenza esercita un'influenza diretta sul grado di soddisfazione per la propria vita.
 
Nato con l'intento di offrire una misura della prosperità alternativa al Prodotto Interno Lordo (Pil), il Bes «assume come punto di partenza la multidimensionalità del benessere e, attraverso l’analisi di un ampio numero di indicatori, descrive l’insieme degli aspetti che concorrono alla qualità della vita dei cittadini»[3]. Focalizzandosi sui fattori che hanno un impatto sul benessere umano e sull'ambiente, i dati del Bes 2015 sottolineano una marcata differenza non solo tra un Centro-Nord in ripresa e un Mezzogiorno in caduta libera, ma anche tra giovani e adulti, e tra persone con titoli di studio elevati o professioni qualificate e persone poco istruite o con bassi profili professionali.
 
Scorrendo le pagine dei due rapporti, non lascia indifferenti l'ulteriore aumento della disuguaglianza di reddito. Il Bes mostra come «il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti e il 20% con i redditi più bassi, già passato dal 5,1 del 2008 al 5,6 del 2012, nel 2013 e nel 2014 raggiunge il 5,8. […] Il Mezzogiorno, oltre ad avere un reddito medio disponibile pro capite decisamente più basso del Nord e del Centro (meno 7.200 e 5.300 euro rispettivamente), è anche la ripartizione con la più accentuata disuguaglianza reddituale (il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti è 6,7 volte quello posseduto dal 20% con i redditi più bassi)».
 
Indiscutibilmente tranchant il giudizio espresso dal Censis che, nel capitolo introduttivo al 49° Rapporto, parla di una «composizione sociale in cui vincono il soggettivismo e l'egoismo individuale» e di una «disarticolazione strutturale del nostro sistema», che concorrono alla crescita delle «diseguaglianze fra ceti, gruppi, individui, con distanze interne sempre più evidenti, ma anche con sommerse e significative tensioni sociali (fra i tanti e i pochi, e spesso anche al loro interno)». Si allarga quindi la forbice tra categorie contrapposte, con una caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza che l'hanno nel tempo garantita.
 
All'interno di una configurazione sociale che genera, secondo il Censis, una «profonda debolezza antropologica […] che non riesce a pensare un progetto generale di sviluppo del Paese», colpisce apprendere che ancora oggi il grado di istruzione dei giovani presenta una correlazione diretta con la classe sociale di provenienza. Nella sezione dedicata a «Istruzione e formazione» del Bes 2015, si evidenzia come ovunque in Italia «il contesto socio-economico di provenienza e il titolo di studio dei genitori condizionano fortemente la riuscita dei percorsi scolastici e formativi dei ragazzi. I figli di genitori con titoli di studio elevati o professioni qualificate abbandonano molto meno gli studi, hanno minori probabilità di diventare Neet e presentano livelli di competenza informatica maggiori dei figli di genitori con la scuola dell’obbligo o con bassi profili professionali». Si tratta di uno squilibrio marcato che necessita di apposite politiche di contrasto per garantire pari opportunità di accesso all'istruzione, capaci di tradursi a loro volta in una sana mobilità sociale, oggi pesantemente compromessa.
 
A fronte di evidenti disparità che si ripercuotono in maniera negativa sulla percezione soggettiva del benessere, in particolare dei cittadini meno abbienti o residenti nelle regioni meridionali, entrambi gli studi sono concordi nel ravvisare i primi segnali di un discreto ottimismo verso il futuro. Dopo un lungo periodo di crisi economica, gli italiani riacquistano fiducia in sé stessi e negli altri, mostrando un timido miglioramento della soddisfazione per la propria situazione economica e una rinnovata capacità inventiva. È il Censis a mettere in evidenza «i comportamenti innovativi dei singoli: la naturalezza dei giovani nell’andare a lavorare all’estero o nel tentare la strada delle start up; la naturalezza delle imprese a investire in innovazione continuata e in green economy; la naturalezza dei territori a diventare hub di relazionalità (nella Milano dell’Expo come nelle città e nei borghi turistici);
la naturalezza delle famiglie ad accrescere il proprio livello patrimoniale e anche a metterlo a reddito (con l’enorme crescita, ad esempio, dei bed & breakfast)».
 
Tra i comparti produttivi vincenti, il Censis annovera insieme ai produttori di macchine e attrezzature, all'agroalimentare e all'abbigliamento, anche il settore creativo e culturale per la sua capacità di essere trasversale e di generare 43 miliardi di euro di export. Il valore aggiunto delle industrie culturali e creative è dato da una sapiente miscela di economia materiale e immateriale, in grado di intrecciare all'interno di uno stesso territorio i prodotti provenienti da filiere disomogenee, facendo dialogare artigiano, enogastronomia, turismo, cultura, arte e paesaggio. Proprio quel mix di beni che secondo quanto riportato dal Bes 2015 continua a essere ostaggio di una politica miope che investe troppo poco nella tutela del paesaggio e nella valorizzazione del patrimonio culturale. L'Istat osserva che «sebbene si possa parlare di una complessiva tenuta della spesa pubblica in questo settore, occorre ricordare che gli attuali livelli di spesa sono, in rapporto all’eccezionalità del patrimonio culturale italiano e in paragone alla media dei paesi europei, manifestamente inadeguati».
 
Il Bes 2015 denuncia in maniera esplicita l'insufficienza della spesa pubblica a favore dei beni e delle attività culturali, che pone l'Italia ben al di sotto della media europea. Sebbene l'Italia possa vantare una vasta e «capillare diffusione del patrimonio cosiddetto “minore”, nella quale si realizza quella compenetrazione di paesaggio e patrimonio culturale che è uno dei tratti distintivi dell’immagine del nostro Paese, nonché un asset di valore incalcolabile nella competizione economica globale», l’impegno di spesa dello Stato italiano in questo settore nel 2013 è stato pari allo 0,3% del Pil, collocandoci al penultimo posto fra i 28 paesi dell’Ue ed evidenziando un consistente taglio degli investimenti. Una contrazione della spesa che nei prossimi anni dovrebbe subire un'inversione di tendenza secondo quanto dichiarato dal ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, in occasione della presentazione della legge di stabilità. Prestando fede a quanto annunciato dal ministro, il bilancio del Mibact dovrebbe aumentare dell’8% nel 2016 e del 10% nel 2017, rendendo finalmente disponibili nuovi fondi per la tutela del patrimonio e i grandi progetti culturali.
 
Proclami a parte, la gravità della situazione ad oggi resta tale e anzi aumenta ulteriormente se si prende in considerazione la competente più fragile e meno protetta del nostro patrimonio culturale, i paesaggi rurali. In quest'ambito, secondo il Bes le carenze principali sono ravvisabili nell'inconsistenza delle politiche di recupero e di riqualificazione dei contesti rurali, esposti a due principali forme di minacce: la trasformazione del paesaggio rurale in paesaggio urbano e la transizione dal rurale all'incolto. In entrambi i casi, il degrado derivante da un uso inappropriato del suolo rischia di alimentare fenomeni che possono avere rilevanti conseguenze sull'equilibrio idrogeologico e sulla conservazione della biodiversità. Un atteggiamento irresponsabile che si traduce in un aumento della percentuale di persone che esprime un giudizio negativo sul paesaggio del proprio luogo di vita, in un innalzamento della preoccupazione per il deterioramento del paesaggio, e anche in un consistente danno economico.
 
I dati elaborati dal Censis assegnano alla filiera dell'agroalimentare un ruolo di primo piano nel sistema economico italiano, con imprenditori «orientati verso la qualità» che puntano sugli elementi distintivi del nostro territorio e sullo stretto legame con le comunità e la cultura locale. Una realtà articolata fatta di piccole e medie imprese, molte delle quali a conduzione familiare, che vale 225 miliardi di euro e che, nonostante la crisi, è riuscita ad aumentare il numero di occupati attirando anche l’interesse dei giovani. Una filiera che è cresciuta nel tempo, contando oggi 3,3 milioni di addetti, e che potrebbe crescere ulteriormente in presenza di politiche di settore capaci di riconoscere il potenziale economico insito nella salvaguardia del paesaggio in termini di valore aggiunto per le produzioni di qualità e il turismo sostenibile.
 
Un'affermazione che trova evidenza empirica nella realtà fattuale che indica l'ibridazione di settori e competenze tradizionali, come il vero «ingrediente segreto» in grado di far ripartire l'economia italiana. In quest'ottica, il settore creativo e culturale, insieme al turismo e all'agroalimentare, si posiziona tra i comparti produttivi maggiormente capaci di definire le nuove frontiere dell'italianità e di dar vita a un rinnovato Made in Italy che, fondendo il saper fare artigiano con l'uso delle nuove tecnologie, crea un legame indissolubile tra cultura, enogastronomia, turismo, e bellezze paesaggistiche.
 
In un'Italia che ha ripreso a camminare, ma che non ha ancora voglia di correre, il 2015 si chiude con la consapevolezza che nonostante ci siano molte delle premesse necessarie a innescare un nuovo rinascimento italiano, bisognerà aspettare l'anno nuovo e sperare che questa possa essere davvero la volta buona.
 
 
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[1]    «Il progetto per misurare il benessere equo e sostenibile, nato da un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat, si inquadra nel dibattito internazionale sul “superamento del Pil”, alimentato dalla consapevolezza che i parametri sui quali valutare il progresso di una società non possano essere esclusivamente di carattere economico, ma debbano tenere conto anche delle fondamentali dimensioni sociali e ambientali del benessere, corredate da misure di diseguaglianza e sostenibilità». Fonte: http://www.misuredelbenessere.it/index.php?id=38

[2]    «Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, è un istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964. A partire dal 1973 è diventato una Fondazione riconosciuta con Dpr n. 712 dell'11 ottobre 1973, anche grazie alla partecipazione di grandi organismi pubblici e privati. Il Censis svolge da cinquant'anni una costante e articolata attività di ricerca, consulenza e assistenza tecnica in campo socio-economico. […] L'annuale «Rapporto sulla situazione sociale del Paese», redatto dal Censis sin dal 1967, viene considerato il più qualificato e completo strumento di interpretazione della realtà italiana». Fonte: http://www.censis.it/8?shadow_testo=1

[3]    Il Rapporto Bes fornisce una misura del benessere attraverso 12 domini – Salute, Istruzione e formazione, Lavoro e conciliazione dei tempi di vita, Benessere economico, Relazioni sociali, Politica e istituzioni, Sicurezza, Benessere soggettivo, Paesaggio e patrimonio culturale, Ambiente, Ricerca e innovazione, Qualità dei servizi – articolati in 130 indicatori. Il volume integrale può essere scaricato gratuitamente al seguente link http://www.istat.it/it/files/2015/12/Rapporto_BES_2015.pdf