La situazione europea: il punto di Baia Curioni
Europa 2012: la ristrutturazione dei conti pubblici impone un pesante arretramento delle risorse per la cultura in molti paesi, ma l’agenda Europea è segnata più da problemi che da progettualità comuni. Il silenzio da parte delle più importanti istituzioni culturali è assordante. Impostare i termini del problema è già forse un modo
per intravedere soluzioni.
a) In primo luogo senza lo Stato o sostanziosi aiuti di privati o entrambi non sono sostenibili pratiche culturali non strettamente commerciali. Le istituzioni culturali che non si muovono nella fascia ben delimitata della cultura pop, non possono auto sostenersi. Le istituzioni culturali tradizionali (in particolare musei, teatri di prosa, teatri lirici) nella maggior parte dei casi, per motivi intrinseci al loro funzionamento e alla loro storia, si adeguano molto, forse troppo, lentamente al cambiamento dei contesti.
b) L’Unione Europea non ha significative competenze sulle politiche culturali. Ogni Stato sceglie per sé. Questo implica che oggi i sistemi europei della cultura evolvono lungo due traiettorie principali. A sud: Grecia, Spagna, Portogallo Italia, sotto costrizione, hanno tagliato dove fa meno male: sui bisogni rimandabili, e tra questi quelli di cultura. A nord: Germania, Olanda, Belgio, Francia governano i loro privilegi. In Germania i fondi pubblici per la cultura aumentano, assieme a crescenti presenze fondazionali private, che ribadiscono la logica cooperativa radicata nella storia del capitalismo tedesco. In Belgio le istituzioni culturali traggono provvisoriamente linfa dal conflitto ormai sempre meno latente tra fiamminghi e valloni, che il governo tenta di sedare con una politica culturale espansiva. L’Olanda con scelte drastiche di riduzione, fa invece scandalo, ma parte da livelli che per l’Italia di oggi sono miraggi. È chiaro, insomma, che rispetto a quanto accade sulle rive del mediterraneo, la situazione è molto diversa.
c) Le conseguenze di questa cesura, la cui presenza ormai è chiara, non sono semplici da prevedere. Può sembrare razionale mantenere la copertura sui bisogni fisici (salute), sulle infrastrutture e sull’ambiente, togliendole dai bisogni «sovrastrutturali» di cultura, che per altro possono essere in parte soddisfatti da mercati privati... D’altra parte se l’origine della crisi risiede nella riduzione della capacità competitiva delle nazioni
europee, potrebbe non essere una splendida idea tagliare le risorse destinate alla formazione del capitale umano per il futuro. E poi, volendo essere ancora più radicali, se l’origine della debolezza competitiva è nascosta nella fragilità di valori condivisi, di motivazioni, di fiducia, di comprensione interculturale, di desideri di autorealizzazione che costituiscono il patrimonio culturale nascosto, fondamentale di ogni società, i tagli sono destinati a provocare conseguenze e traiettorie ancor più gravemente divergenti.
d) I rimedi sono ancora meno certi. Da una parte, in particolare in Germania, si attesta l’idea di una cultura protetta costituzionalmente, alimentata da orgoglio nazionale e locale, che rivendica il diritto di rinnovarsi con piena autonomia rispetto ad obiettivi di natura economica. Dall’altra parte l’Unione Europea ha mutuato senza ambiguità la prospettiva anglosassone di una cultura che può essere finanziata solo se realisticamente utile alla crescita con tutte le conseguenze che questo ha per la cultura umanistica tradizionale. L’incremento a 1,7 miliardi di euro del fondo europeo per le politiche culturali nel prossimo settennio è basato sull’idea di alimentare la sequenza culturacreatività-innovazione-crescita. I due punti di vista non sembrano facili da armonizzare e segnano la frontiera di un’opposizione potenzialmente radicale. Da che parte starà la Francia? Non vi sono le condizione affinché la politica pubblica possa ancora rappresentare una soluzione duratura per il continente.
Gli incentivi comunitari, se saranno confermati, potranno solo incentivare azioni e progetti radicati nella società civile.
e) La risposta sta quindi nella presenza di una dinamica privata e imprenditoriale. Ma occorre essere molto chiari sul punto. Per diversi motivi non ci sono segnali significativamente diffusi che il sistema delle imprese e delle fondazioni d’impresa possa svolgere a breve un ruolo adeguato. L’unica via, stretta, è rappresentata dalla presenza di nuova imprenditorialità culturale associata a rinnovate opportunità di istituzionalizzazione basate sul contributo di pubblico e privato.
Gli esempi non mancano: basta pensare al teatro Kampnagel di Amburgo, al Kunstfestivaldes arts di Bruxelles, al Theatre du Soleil a Parigi, o al centro Wiels in Belgio o al Museo di arte contemporanea di Anversa, solo per citarne alcuni nella cerniera nord quasi tutti provenienti da iniziative individuali, quasi da squat. Esempi alti, sussidiati, istituzionalizzati, e provenienti da visioni culturali radicali, sedimentate dagli anni Settanta agli anni Novanta. E poi? Questo è forse il segnale più preoccupante nell’Europa di oggi. La scarsità di nuove iniziative capaci di combinare efficacemente qualità, radicalità, sostenibilità in processi di istituzionalizzazione convincenti. Il percorso sembra sempre più difficile rispetto ad un tempo.
Forse questo dovrebbe essere il centro dell’attenzione delle politiche pubbliche, dei privati e anche, soprattutto delle istituzioni culturali consolidate: far emergere il nuovo. Non per il fatto in sé, né per i balbettanti riferimenti teorici alla creatività. Ma per dare un segno concreto di vita sociale, per dare voce, parola, speranza e integrità. Per un impegno civile che inevitabilmente genera anche valore economico. Occorre cambiare, occorre rischiare. Adesso.
© Riproduzione riservata
(dal XII Rapporto Annuale Fondazioni)
Stefano Baia Curioni è Direttore del Master ACME (Arts Culture Media Entertainment) dell’Università Bocconi