La cultura come “grande infrastruttura civile” da tutelare e sviluppare
Autore/i:
Rubrica:
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di:
Vittoria Azzarita
Come ogni anno, Il Giornale delle Fondazioni è stato invitato a intervenire nel corso di “Sociologia dei processi comunicativi e forme del giornalismo culturale”, tenuto da Salvatore Carrubba e Antonio Troiano presso l'Università IULM di Milano. In tale occasione abbiamo incontrato Salvatore Carrubba, persona di riferimento del panorama culturale italiano, Presidente del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi - che promuove il progetto “Percorsi di secondo welfare” - e Vice-Presidente della Fondazione Sicilia. In virtù della sua lunga esperienza e della sua profonda conoscenza del settore culturale, gli abbiamo posto alcune domande per capire meglio a che punto siamo e soprattutto cosa resta ancora da fare. Se è vero che nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito a molti cambiamenti sostanziali, è altrettanto vero che nel nostro Paese la cultura fatica – ancora oggi - ad essere percepita come “una grande risorsa per la crescita civile, sociale ed economica di una comunità”.
Alla luce del momento politico che stiamo vivendo in Italia, secondo lei che peso avrà la cultura nel programma di governo?
Leggendo le dichiarazioni fatte durante la campagna elettorale, e anche quelle successive, mi è parso che nessuno abbia affrontato il tema della cultura nei termini che molti di noi si sarebbero aspettati, ossia sottolineando che la cultura è una grande infrastruttura civile che deve essere tutelata e sviluppata, non soltanto per le ricadute economiche che può avere – che restano comunque rilevanti – ma anche per la sua importanza di carattere sociale e civile. Mi pare che non ne abbia parlato nessuno dei due partiti che oggi formano la maggioranza di governo, almeno fino a questo momento. Per cui anche da questo punto di vista sono abbastanza preoccupato, perché non mi sembra che ci sia un interesse spasmodico su questo tema.
Volendo fare un bilancio, come sono cambiate le politiche culturali in Italia negli ultimi anni? Quali i principali risultati raggiunti e cosa resta ancora da fare?
Ci sono stati molti cambiamenti di sostanza e credo che adesso la scommessa sia vedere se continueremo su quella strada oppure no. Mi riferisco soprattutto alla riforma attuata dall'ex Ministro della Cultura, Dario Franceschini, che sicuramente ha segnato una svolta perché è andata nella direzione di responsabilizzare di più chi si occupa della gestione delle istituzioni culturali - in particolare dei musei pubblici – con lo scopo di trovare più risorse, valorizzare le collezioni, avere più pubblico, conquistare una cultura manageriale o dotarsi delle professionalità che abbiano tali competenze. Tutti aspetti che forse hanno un po' esasperato l'attenzione nei confronti delle ricadute economiche del patrimonio culturale, ma che sicuramente erano interventi attesi da molti anni che hanno prodotto dei risultati significativi, anche in termini di un aumento della partecipazione culturale. Naturalmente non è tutto oro quello che luccica, nel senso che credo sia necessario fare molto di più per una valorizzazione diffusa del patrimonio. Allo stesso tempo bisogna insistere sulla democratizzazione della cultura, facendo in modo che la cultura sia goduta da un numero sempre più ampio di cittadini e possa svolgere la funzione civile e sociale di cui dicevo prima, che secondo me è la sua funzione principale.
Lei è un esperto di comunicazione. Come valuta le strategie di comunicazione delle nostre organizzazioni culturali? C'è un caso di successo che le piacerebbe ricordare?
A questo proposito, non è possibile generalizzare. Tuttavia mi pare che sia stata acquisita in larga misura la consapevolezza del fatto che comunicare non è un tradire la propria missione, cosa che molti puristi rimproverano agli operatori culturali. Se c'è un direttore di un museo capace di comunicare le cose che fa e in virtù di ciò porta più persone al museo, secondo me va premiato e non punito, va apprezzato e non rimproverato. Ci sono molti casi positivi e di uno, in particolare, ne sono diretto testimone. Il Piccolo Teatro di Milano, per esempio, ha un numero di abbonati notoriamente superiore al numero degli abbonati delle squadre di calcio milanesi e questo è il frutto di un'operazione di marketing e di comunicazione molto importante. Ci sono alcuni musei fortunati - penso a Palazzo Strozzi a Firenze, a Palazzo Reale a Milano, al Museo Egizio di Torino - che sono dei casi da manuale di come si possa fare una comunicazione moderna in ambito culturale. Credo che in generale rimanga molto da fare sul fronte dell'informazione digitale e dei social media, che ormai sono l'unica fonte di informazione capace di raggiunge larghe fasce di popolazione a partire dai giovani. In quest'ambito è importante sia che le organizzazioni culturali si dotino di professionalità che siano in grado di dominare questi mezzi e di saperli usare, sia che l'utilizzo di questi strumenti non sia puramente residuale.
A tal proposito, la diffusione sempre più vasta del digitale sta cambiando anche le forme della partecipazione e non solo le modalità della comunicazione.
Questo è vero, però il successo che sta avendo il teatro – anche tra i giovani - ci dimostra che la virtualità non ha soppiantato del tutto l'analogico. Il teatro è la conferma che ancora oggi si possono provare emozioni reali e non solo digitali. Per quanto riguarda le arti figurative dobbiamo evitare che si pensi che sia sufficiente guardare su un monitor, o sullo schermo del proprio smartphone, un'opera d'arte per godere di tutte le emozioni che quell'opera d'arte può dare. Il virtuale può essere un alleato prezioso per quanto riguarda la comunicazione e la formazione – pensiamo, per esempio, a tutto quello che si può fare grazie alle nuove tecnologie nel campo delle visite guidate - ma non può eliminare e soppiantare la conoscenza diretta dell'arte e del patrimonio culturale.
Siamo nell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale. Tuttavia l'Italia non ha ancora ratificato la Convenzione di Faro. Essere eredi di un patrimonio culturale rimanda a delle responsabilità. Che responsabilità abbiamo oggi nei confronti del nostro patrimonio culturale?
Le responsabilità sono grandissime non soltanto nei confronti del patrimonio ma anche nei confronti dell'umanità, perché quel patrimonio non è nostro ma è un patrimonio comune che appartiene a tutti. Quindi dobbiamo in primo luogo tutelarlo e difenderlo. L'Italia è un territorio straordinario perché ha un patrimonio diffuso che è necessario conoscere, affinché la gente non identifichi il nostro Paese soltanto con Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Milano ma anche con tanti altri luoghi che riflettono la nostra storia. Tale patrimonio diffuso va difeso, va fatto conoscere, va valorizzato affinché la gente impari a scoprire l'Italia e tutta la sua ricchezza nascosta. Ma questo vale a sua volta per le grandi città d'arte, in quanto anche a Venezia, Firenze, Roma, Milano e Napoli c'è molto da fare per far conoscere oltre agli itinerari canonici anche gli itinerari nascosti, che presentano dei patrimoni altrettanto interessanti. Questo è un aspetto che si lega anche alla sostenibilità del turismo: cercare di diffondere i flussi turistici lungo tutta la penisola può essere un modo per alleggerire certe mete e arricchire, invece, altre destinazioni meno conosciute. Un altro aspetto da prendere in considerazione è che il patrimonio culturale si associa spesso alla tutela di carattere scientifico. Da questo punto di vista abbiamo un patrimonio grandissimo in termini di expertise, di competenze, di professionalità che ci sono riconosciute a livello internazionale e che necessitano, a loro volta, di essere difese perché alcuni istituti culturali sono un fiore all'occhiello dell'Italia e possono rappresentare un importante strumento di diplomazia culturale.
Dottor Carrubba, lei è stato assessore alla cultura del Comune di Milano dal 1997 al 2005. Negli ultimi anni la città di Milano ha puntato molto sulla produzione e sull'innovazione culturale, diventando un modello per il Paese. Cosa ha reso possibile questa trasformazione? Secondo lei si tratta di un fenomeno destinato a durare nel tempo oppure rischia di esaurirsi nel giro di pochi anni?
Sarà un fenomeno destinato a durare nel tempo, perché affonda le sue origini nella storia di Milano. Non è un fuoco di paglia, ma è la conferma e l'adeguamento ai tempi di una tradizione che deriva dal forte collegamento che c'è sempre stato a Milano tra la produzione industriale, la ricerca scientifica e la produzione artistica, che ha consentito ad esempio di fondare il Politecnico 150 anni fa e poi di associare a questo il design e la ricerca del bello. Non si tratta di una vocazione improvvisa, ma è radicata nella storia di Milano. Il futuro della città si giocherà in un'arena che è destinata a diventare sempre più competitiva. Per garantire che la creatività milanese possa continuare a diventare industria sarà quindi necessario dotare i nostri creativi di tutti quegli strumenti, finanziari e non finanziari, che permettano loro di incontrarsi, di fare rete, di farsi conoscere nel mondo, di avere le migliori esperienze, di accedere ai mercati.
Il successo di Milano è sì un successo che nasce da lontano, come dicevo prima, ma è anche un successo che nasce da alcune scelte politiche che sono state fatte negli ultimi venti anni. C'è stata una progettualità dietro questo dinamismo che oggi tutti riconoscono a Milano. C'è stato l'Expo, che è stata una scelta politica controversa. C'è stata la scelta di cambiare volto urbanistico alla città, di costruire i grattacieli e di recuperare le aree urbane che erano state abbandonate. C'è stata la scelta di puntare molto sulle istituzioni culturali: sono stati costruiti nuovi musei e altri sono stati restaurati; sono stati costruiti nuovi teatri e nuove sale musicali. Tutto questo, in un arco di tempo quasi ventennale, ha fatto sì che oggi Milano sia una città ricca di dotazioni culturali molto più di quanto non fosse in passato. Pertanto la progettualità di oggi si riverbera nei risultati che avremo tra vent'anni: se Milano cessa di progettare probabilmente tra vent'anni soffrirà. E spero che questo non succeda.
Dottor Carrubba lei è anche Presidente del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi che promuove il progetto “Percorsi di secondo welfare”. Perché nell'attuale contesto socio-economico è necessario sviluppare esperienze di secondo welfare capaci di affiancarsi al primo welfare?
Questo è un punto strategico e ha a che fare, secondo me, con il futuro e con la buona salute della democrazia. Oggi assistiamo a un gap di credibilità delle istituzioni democratiche nei confronti dei cittadini che lamentano minore crescita economica, minori opportunità di crescita sociale - l'ascensore sociale si è bloccato - maggiori diseguaglianze e soprattutto una grande incertezza sul futuro proprio e dei propri figli, a differenza degli anni gloriosi del boom economico in cui l'ascesa sociale era costante e predeterminata quasi per tutti. Tutto ciò determina un grande scoraggiamento che si riverbera nella fuga e nella sfiducia nei confronti della politica. Per rispondere a questa sfiducia bisogna dimostrare che uno Stato moderno, una democrazia moderna è capace di capire, affrontare e risolvere i problemi dei cittadini, che sono vittime della globalizzazione e delle nuove tecnologie. La diffusione della robotica, ad esempio, avrà certamente un impatto, non necessariamente drammatico e tragico, però sicuramente negativo su molti posti di lavoro e bisogna fare in modo che lo Stato sia in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini che si troveranno in difficoltà, giovani o anziani che siano.
È cambiato il concetto di welfare, che non può più essere identificato - come è avvenuto per molti anni - soltanto con la pensione e con la sanità e quindi con le persone anziane. Oggi il welfare deve essere orientato verso tutti i cittadini, seguendo e individuando i diversi momenti di crisi che le persone possono attraversare nel corso della loro vita: per esempio, il cinquantenne che perde il lavoro oppure il venticinquenne che ha difficoltà a trovare un lavoro. Bisogna costruire un welfare più partecipato, più flessibile, capace sia di ascoltare le diverse esigenze che nel corso della vita di un cittadino possono sorgere, sia di individuare le risorse attraverso un'alleanza tra tutti i soggetti della società - tra le istituzioni pubbliche e i privati, le aziende, le fondazioni erogative e gli altri enti del Terzo settore - per ristabilire la fiducia nei confronti della democrazia e delle istituzioni.
A questo proposito si registra un coinvolgimento crescente di attori privati e del Terzo settore anche nell'ambito culturale. In che modo, dal suo punto di vista, è possibile stimolare un maggior interesse nei confronti della cultura come linea strategica di investimento per le organizzazioni filantropiche?
Secondo me bisogna convincere le organizzazioni filantropiche - e non tutte ne sono convinte - che la cultura non è pura comunicazione, come molto spesso la si interpreta, non è una pura occasione di visibilità, ma è una grande risorsa per la crescita civile, sociale e anche economica di una comunità. La filantropia istituzionale deve capire che la cultura è un pilastro importante del welfare. La cultura ha tanti aspetti: quello economico, quello della crescita sociale, quello della costruzione della comunità, quello dell'integrazione di società che diventano sempre più multiculturali, quello della salute e della terapia. Tutti questi aspetti non possono essere trascurati e considerati secondari, in quanto rendono la cultura una leva fondamentale dell'insieme delle misure necessarie a garantire il benessere dei cittadini, assieme all'housing sociale, alla salute, all'assistenza, tutti capitoli di spesa e di impegno nei quali le fondazioni erogative sembrano credere in misura maggiore.
Salvatore Carrubba attualmente è: Presidente del Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”; Presidente della Fondazione Collegio delle università milanesi; Presidente del Piccolo Teatro di Milano; editorialista del Sole24Ore e titolare di una rubrica di recensioni librarie su Radio24; vice-presidente del Cda della Fondazione Sicilia; membro del Cda dell'Università Iulm di Milano, presso la quale tiene un insegnamento di Politiche per la cultura, uno di Editoria per l'arte e uno di Storia delle industrie editoriali e nuove piattaforme culturali. È stato: direttore della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia di Roma (1978-1990); direttore responsabile di Mondo Economico (1990-1993); direttore responsabile del Sole 24 Ore (1993-1997); direttore editoriale del Gruppo Sole 24 Ore (1997); assessore (indipendente) alla Cultura e alle Relazioni Internazionali del Comune di Milano (1997-2005).
Leggendo le dichiarazioni fatte durante la campagna elettorale, e anche quelle successive, mi è parso che nessuno abbia affrontato il tema della cultura nei termini che molti di noi si sarebbero aspettati, ossia sottolineando che la cultura è una grande infrastruttura civile che deve essere tutelata e sviluppata, non soltanto per le ricadute economiche che può avere – che restano comunque rilevanti – ma anche per la sua importanza di carattere sociale e civile. Mi pare che non ne abbia parlato nessuno dei due partiti che oggi formano la maggioranza di governo, almeno fino a questo momento. Per cui anche da questo punto di vista sono abbastanza preoccupato, perché non mi sembra che ci sia un interesse spasmodico su questo tema.
Volendo fare un bilancio, come sono cambiate le politiche culturali in Italia negli ultimi anni? Quali i principali risultati raggiunti e cosa resta ancora da fare?
Ci sono stati molti cambiamenti di sostanza e credo che adesso la scommessa sia vedere se continueremo su quella strada oppure no. Mi riferisco soprattutto alla riforma attuata dall'ex Ministro della Cultura, Dario Franceschini, che sicuramente ha segnato una svolta perché è andata nella direzione di responsabilizzare di più chi si occupa della gestione delle istituzioni culturali - in particolare dei musei pubblici – con lo scopo di trovare più risorse, valorizzare le collezioni, avere più pubblico, conquistare una cultura manageriale o dotarsi delle professionalità che abbiano tali competenze. Tutti aspetti che forse hanno un po' esasperato l'attenzione nei confronti delle ricadute economiche del patrimonio culturale, ma che sicuramente erano interventi attesi da molti anni che hanno prodotto dei risultati significativi, anche in termini di un aumento della partecipazione culturale. Naturalmente non è tutto oro quello che luccica, nel senso che credo sia necessario fare molto di più per una valorizzazione diffusa del patrimonio. Allo stesso tempo bisogna insistere sulla democratizzazione della cultura, facendo in modo che la cultura sia goduta da un numero sempre più ampio di cittadini e possa svolgere la funzione civile e sociale di cui dicevo prima, che secondo me è la sua funzione principale.
Lei è un esperto di comunicazione. Come valuta le strategie di comunicazione delle nostre organizzazioni culturali? C'è un caso di successo che le piacerebbe ricordare?
A questo proposito, non è possibile generalizzare. Tuttavia mi pare che sia stata acquisita in larga misura la consapevolezza del fatto che comunicare non è un tradire la propria missione, cosa che molti puristi rimproverano agli operatori culturali. Se c'è un direttore di un museo capace di comunicare le cose che fa e in virtù di ciò porta più persone al museo, secondo me va premiato e non punito, va apprezzato e non rimproverato. Ci sono molti casi positivi e di uno, in particolare, ne sono diretto testimone. Il Piccolo Teatro di Milano, per esempio, ha un numero di abbonati notoriamente superiore al numero degli abbonati delle squadre di calcio milanesi e questo è il frutto di un'operazione di marketing e di comunicazione molto importante. Ci sono alcuni musei fortunati - penso a Palazzo Strozzi a Firenze, a Palazzo Reale a Milano, al Museo Egizio di Torino - che sono dei casi da manuale di come si possa fare una comunicazione moderna in ambito culturale. Credo che in generale rimanga molto da fare sul fronte dell'informazione digitale e dei social media, che ormai sono l'unica fonte di informazione capace di raggiunge larghe fasce di popolazione a partire dai giovani. In quest'ambito è importante sia che le organizzazioni culturali si dotino di professionalità che siano in grado di dominare questi mezzi e di saperli usare, sia che l'utilizzo di questi strumenti non sia puramente residuale.
A tal proposito, la diffusione sempre più vasta del digitale sta cambiando anche le forme della partecipazione e non solo le modalità della comunicazione.
Questo è vero, però il successo che sta avendo il teatro – anche tra i giovani - ci dimostra che la virtualità non ha soppiantato del tutto l'analogico. Il teatro è la conferma che ancora oggi si possono provare emozioni reali e non solo digitali. Per quanto riguarda le arti figurative dobbiamo evitare che si pensi che sia sufficiente guardare su un monitor, o sullo schermo del proprio smartphone, un'opera d'arte per godere di tutte le emozioni che quell'opera d'arte può dare. Il virtuale può essere un alleato prezioso per quanto riguarda la comunicazione e la formazione – pensiamo, per esempio, a tutto quello che si può fare grazie alle nuove tecnologie nel campo delle visite guidate - ma non può eliminare e soppiantare la conoscenza diretta dell'arte e del patrimonio culturale.
Siamo nell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale. Tuttavia l'Italia non ha ancora ratificato la Convenzione di Faro. Essere eredi di un patrimonio culturale rimanda a delle responsabilità. Che responsabilità abbiamo oggi nei confronti del nostro patrimonio culturale?
Le responsabilità sono grandissime non soltanto nei confronti del patrimonio ma anche nei confronti dell'umanità, perché quel patrimonio non è nostro ma è un patrimonio comune che appartiene a tutti. Quindi dobbiamo in primo luogo tutelarlo e difenderlo. L'Italia è un territorio straordinario perché ha un patrimonio diffuso che è necessario conoscere, affinché la gente non identifichi il nostro Paese soltanto con Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Milano ma anche con tanti altri luoghi che riflettono la nostra storia. Tale patrimonio diffuso va difeso, va fatto conoscere, va valorizzato affinché la gente impari a scoprire l'Italia e tutta la sua ricchezza nascosta. Ma questo vale a sua volta per le grandi città d'arte, in quanto anche a Venezia, Firenze, Roma, Milano e Napoli c'è molto da fare per far conoscere oltre agli itinerari canonici anche gli itinerari nascosti, che presentano dei patrimoni altrettanto interessanti. Questo è un aspetto che si lega anche alla sostenibilità del turismo: cercare di diffondere i flussi turistici lungo tutta la penisola può essere un modo per alleggerire certe mete e arricchire, invece, altre destinazioni meno conosciute. Un altro aspetto da prendere in considerazione è che il patrimonio culturale si associa spesso alla tutela di carattere scientifico. Da questo punto di vista abbiamo un patrimonio grandissimo in termini di expertise, di competenze, di professionalità che ci sono riconosciute a livello internazionale e che necessitano, a loro volta, di essere difese perché alcuni istituti culturali sono un fiore all'occhiello dell'Italia e possono rappresentare un importante strumento di diplomazia culturale.
Dottor Carrubba, lei è stato assessore alla cultura del Comune di Milano dal 1997 al 2005. Negli ultimi anni la città di Milano ha puntato molto sulla produzione e sull'innovazione culturale, diventando un modello per il Paese. Cosa ha reso possibile questa trasformazione? Secondo lei si tratta di un fenomeno destinato a durare nel tempo oppure rischia di esaurirsi nel giro di pochi anni?
Sarà un fenomeno destinato a durare nel tempo, perché affonda le sue origini nella storia di Milano. Non è un fuoco di paglia, ma è la conferma e l'adeguamento ai tempi di una tradizione che deriva dal forte collegamento che c'è sempre stato a Milano tra la produzione industriale, la ricerca scientifica e la produzione artistica, che ha consentito ad esempio di fondare il Politecnico 150 anni fa e poi di associare a questo il design e la ricerca del bello. Non si tratta di una vocazione improvvisa, ma è radicata nella storia di Milano. Il futuro della città si giocherà in un'arena che è destinata a diventare sempre più competitiva. Per garantire che la creatività milanese possa continuare a diventare industria sarà quindi necessario dotare i nostri creativi di tutti quegli strumenti, finanziari e non finanziari, che permettano loro di incontrarsi, di fare rete, di farsi conoscere nel mondo, di avere le migliori esperienze, di accedere ai mercati.
Il successo di Milano è sì un successo che nasce da lontano, come dicevo prima, ma è anche un successo che nasce da alcune scelte politiche che sono state fatte negli ultimi venti anni. C'è stata una progettualità dietro questo dinamismo che oggi tutti riconoscono a Milano. C'è stato l'Expo, che è stata una scelta politica controversa. C'è stata la scelta di cambiare volto urbanistico alla città, di costruire i grattacieli e di recuperare le aree urbane che erano state abbandonate. C'è stata la scelta di puntare molto sulle istituzioni culturali: sono stati costruiti nuovi musei e altri sono stati restaurati; sono stati costruiti nuovi teatri e nuove sale musicali. Tutto questo, in un arco di tempo quasi ventennale, ha fatto sì che oggi Milano sia una città ricca di dotazioni culturali molto più di quanto non fosse in passato. Pertanto la progettualità di oggi si riverbera nei risultati che avremo tra vent'anni: se Milano cessa di progettare probabilmente tra vent'anni soffrirà. E spero che questo non succeda.
Dottor Carrubba lei è anche Presidente del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi che promuove il progetto “Percorsi di secondo welfare”. Perché nell'attuale contesto socio-economico è necessario sviluppare esperienze di secondo welfare capaci di affiancarsi al primo welfare?
Questo è un punto strategico e ha a che fare, secondo me, con il futuro e con la buona salute della democrazia. Oggi assistiamo a un gap di credibilità delle istituzioni democratiche nei confronti dei cittadini che lamentano minore crescita economica, minori opportunità di crescita sociale - l'ascensore sociale si è bloccato - maggiori diseguaglianze e soprattutto una grande incertezza sul futuro proprio e dei propri figli, a differenza degli anni gloriosi del boom economico in cui l'ascesa sociale era costante e predeterminata quasi per tutti. Tutto ciò determina un grande scoraggiamento che si riverbera nella fuga e nella sfiducia nei confronti della politica. Per rispondere a questa sfiducia bisogna dimostrare che uno Stato moderno, una democrazia moderna è capace di capire, affrontare e risolvere i problemi dei cittadini, che sono vittime della globalizzazione e delle nuove tecnologie. La diffusione della robotica, ad esempio, avrà certamente un impatto, non necessariamente drammatico e tragico, però sicuramente negativo su molti posti di lavoro e bisogna fare in modo che lo Stato sia in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini che si troveranno in difficoltà, giovani o anziani che siano.
È cambiato il concetto di welfare, che non può più essere identificato - come è avvenuto per molti anni - soltanto con la pensione e con la sanità e quindi con le persone anziane. Oggi il welfare deve essere orientato verso tutti i cittadini, seguendo e individuando i diversi momenti di crisi che le persone possono attraversare nel corso della loro vita: per esempio, il cinquantenne che perde il lavoro oppure il venticinquenne che ha difficoltà a trovare un lavoro. Bisogna costruire un welfare più partecipato, più flessibile, capace sia di ascoltare le diverse esigenze che nel corso della vita di un cittadino possono sorgere, sia di individuare le risorse attraverso un'alleanza tra tutti i soggetti della società - tra le istituzioni pubbliche e i privati, le aziende, le fondazioni erogative e gli altri enti del Terzo settore - per ristabilire la fiducia nei confronti della democrazia e delle istituzioni.
A questo proposito si registra un coinvolgimento crescente di attori privati e del Terzo settore anche nell'ambito culturale. In che modo, dal suo punto di vista, è possibile stimolare un maggior interesse nei confronti della cultura come linea strategica di investimento per le organizzazioni filantropiche?
Secondo me bisogna convincere le organizzazioni filantropiche - e non tutte ne sono convinte - che la cultura non è pura comunicazione, come molto spesso la si interpreta, non è una pura occasione di visibilità, ma è una grande risorsa per la crescita civile, sociale e anche economica di una comunità. La filantropia istituzionale deve capire che la cultura è un pilastro importante del welfare. La cultura ha tanti aspetti: quello economico, quello della crescita sociale, quello della costruzione della comunità, quello dell'integrazione di società che diventano sempre più multiculturali, quello della salute e della terapia. Tutti questi aspetti non possono essere trascurati e considerati secondari, in quanto rendono la cultura una leva fondamentale dell'insieme delle misure necessarie a garantire il benessere dei cittadini, assieme all'housing sociale, alla salute, all'assistenza, tutti capitoli di spesa e di impegno nei quali le fondazioni erogative sembrano credere in misura maggiore.
Salvatore Carrubba attualmente è: Presidente del Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”; Presidente della Fondazione Collegio delle università milanesi; Presidente del Piccolo Teatro di Milano; editorialista del Sole24Ore e titolare di una rubrica di recensioni librarie su Radio24; vice-presidente del Cda della Fondazione Sicilia; membro del Cda dell'Università Iulm di Milano, presso la quale tiene un insegnamento di Politiche per la cultura, uno di Editoria per l'arte e uno di Storia delle industrie editoriali e nuove piattaforme culturali. È stato: direttore della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia di Roma (1978-1990); direttore responsabile di Mondo Economico (1990-1993); direttore responsabile del Sole 24 Ore (1993-1997); direttore editoriale del Gruppo Sole 24 Ore (1997); assessore (indipendente) alla Cultura e alle Relazioni Internazionali del Comune di Milano (1997-2005).