La cooperazione pubblico-privato, tema superato a livello internazionale che nel nostro paese non decolla
In Italia, il dibattito non risolto sul tema pubblico-privato sta provocando uno stallo e una sclerosi istituzionale. Di recente a Strasburgo, nel corso di una audizione su un programma comunitario, ho potuto verificare come questo tema sia ormai superato per gli altri Stati membri, per i quali la partnership pubblico/privato è un fatto acquisito mentre la discussione europea attuale si e' spostata sul "come" raggiungere e coinvolgere gli utilizzatori (users) di cultura
Perché non funziona la partnership pubblico privato in Italia?
Troppi teatri, musei ed enti istituzionali hanno vissuto dell’assistenzialismo statale e dei finanziamenti a pioggia: nessun criterio meritocratico, nessuna verifica sulla destinazione reale dei fondi. È arrivato il momento di sfatare un mito: non è vero che i soldi per la cultura non ci sono, o non ci sono mai stati. I fondi sono stati molto spesso male utilizzati, dispersi in mille rivoli. I fondi europei non vengono utilizzati per mancanza di progettualità e di progetti, come è successo con i finanziamenti per le regioni del Sud, che non sono state capaci di spenderli e rischiano di non potervi più accedere. E stiamo parlando di miliardi di euro, non di pochi spiccioli. Eppure erano fondi destinati agli " attrattori culturali" e al turismo culturale, una possibilità concreta per Regioni che hanno nel proprio territorio questa vocazione. Invece, purtroppo, sotto l’etichetta «cultura» si cerca di far entrare di tutto, comprese le cementificazioni (spesso definite «ricostruzioni») e corsi di formazione improbabili, come testimonia la stampa di questi giorni. In questa situazione è evidente che lo spazio per il privato non c'è . Eppure in un momento di crisi come questo, in cui si assiste (e ancora di più nel futuro) alla contrazione delle risorse pubbliche, il privato può fare molto investendo nella cultura con modalità di efficacia ed efficienza. Ed è proprio questo il timore di molti comparti della pubblica amministrazione.
È un degrado di costumi. Focalizziamoci sulle formule per favorire una cooperazione pubblico privato. Le fondazioni di partecipazione potrebbero essere uno strumento utile, considerato che hanno avuto una forte evoluzione?
Per Brera assisteremo alla nascita di una Fondazione di partecipazione, che costruirà un paradigma per i grandi attrattori.
Mentre sul web i musei di tutto il mondo si pongono (e pongono al loro pubblico) domande esistenziali i «come hanno senso i musei oggi in tempo di crisi?», e in Germania infuriano i dibattiti a seguito della pubblicazione del provocatorio «Kulturinfarkt» che decreta la fine della cultura Stato-assistenzialista, in Italia la polemica si cristallizza su «fondazione si, fondazione no; privati si, privati no». Nessun cenno alla crisi dei modelli organizzativi che fino ad oggi hanno gestito (male!) il nostro patrimonio culturale; nessun dibattito «intellettuale» che ponga questioni diventate ormai fondamentali: possiamo continuare ad occuparci dei beni culturali in questo modo? Cosa fare realmente per cambiare rotta e renderli «fruibili» (brutta parola, cerchiamone un'altra), gestibili, visitabili, piacevoli, mantenuti (basta con il restauro, la manutenzione quotidiana costa meno ed è molto più efficace!) redditivi (per cortesia smettiamo di considerare il profitto una parolaccia!), selezionati (è davvero necessario aprire un museo al giorno se non si fanno i piani a lungo termine e non si prevedono le fonti di finanziamento?). Nessuno che abbia il coraggio di dire: ma serve ancora un ministero dei beni culturali ridotto in queste condizioni?.
Nella desolazione fatta di appelli ideologici, che peraltro cadono nel vuoto, di formule diventate presto di moda perché fanno comodo a tutti (creare per decreto una fondazione non significa aver risolto il problema dei fondi, della gestione, della redditività e della governance, ma solo procrastinare la resa dei conti) noi imprese private vogliamo proporre una ricetta semplice, una formula nella quale tutti guadagnano e nessuno perde; una nozione che non ha bisogno di norme aggiuntive perché esiste già. Si chiama Project Financing ed è uno dei pilastri su cui il ministero dello sviluppo economico vuole rilanciare l'economia del Paese. La Finanza di progetto può essere applicata con successo anche ai beni culturali, è l'uovo di colombo per risolvere tanti problemi, sciogliere lacci e lacciuoli burocratici, aprire alla progettualità dell'impresa privata e ai finanziamenti della stessa, prefigurare una vera idea di partnership fra pubblico e privato.
Di recente abbiamo letto del pericolo di chiusura del complesso di Santa Maria della scala a Siena per mancanza di finanziamenti. Il fatto che i politici corrano in soccorso promettendo stanziamenti per tenerlo aperto per una altro anno, fino a che non si trova un'altra soluzione, è certamente degno di merito, ma la dice lunga sulle capacita di programmazione dello stato e degli enti locali. Non abbiamo bisogno di toppe che rappezzano una situazione già disastrata, ma di progetti pluriennali che rendano realmente profittevoli per il territorio gli investimenti. Invece anche qui si evoca quella che è diventata la parolina magica: la fondazione pubblico-privato. Fondazioni in cui di privato non c'è proprio niente, se non il modo di spendere i soldi pubblici. Soldi di tutti noi.
L'impresa privata può invece veramente intervenire con un progetto e un prospetto di investimenti, dai quali trarre certamente profitto per se, ma contemporaneamente creare ricchezza per il territorio. Il project financing , quello vero, prevede che l'impresa (o più imprese insieme) presenti un progetto, con un piano di investimenti, un conto economico asseverato (valutato cioè da una banca e quindi vagliato nelle sue parti) e un piano di rientro degli investimenti stessi. L'amministrazione pubblica esamina e giudica questo progetto (attenzione alla commissione: deve essere composta da persone competenti!!) e se il progetto è valido lo mette a gara, in una procedura pubblica, trasparente, alla quale tutti possono partecipare e vincere se presentano il progetto migliore. Nessuna spesa inutile per lo Stato, ma guadagno per tutti.
Il demanio lo ha già fatto con ottimi risultati e ha chiamato questa procedura «concessione di valorizzazione». Noi preferiamo utilizzare la definizione «delega di servizio pubblico» , alla francese. Ci sembra che una delega riconosca al privato un ruolo di partner, mentre la concessione sa di sudditanza, ha un sapore «monarchico».
Quindi, cosa impedisce che il project financing sia applicato? Non lo sappiamo, in quanto non c'è nessuna ragione evidente. Una saggia dietrologia ci fa invece pensare che gli apparati burocratici vogliano tenere per sé il potere di non fare funzionare le cose per poter così governare pezzi di «cosa pubblica» che così diventano «cosa di nessuno». E inoltre: dove, se non nella cultura , ultima Thule dei protettorati, piazzare i politici trombati, gli amministratori falliti, gli incompetenti e tutti quegli amici che non si possono sistemare altrove ? Della cultura, anche se si fanno dei danni, in fondo non importa a nessuno. Ma non è vero che con la cultura non si mangia, anzi, ci si potrebbe nutrire, e bene, tutto il Paese.
Lo Stato deve essere meno incombente, non gestire direttamente ma esercitare la funzione di controllo e garanzia nei confronti dei cittadini.
Non mi sembra la strada che quest’esecutivo sta portando avanti..
E infatti i pessimi risultati sono evidenti: le gare di concessione dei servizi museali, bandite oltre due anni e mezzo fa, (quando le condizioni economiche e sociali mondiali erano peraltro ben altre rispetto ad oggi!) hanno dimostrato l'impossibilità della loro applicazione: all'impresa non si offre autonomia e si pongono vincoli tali da impedire la sostenibilità economica della gestione.
Inoltre l’impianto farraginoso non attira certamente i possibili investitori/partner stranieri.
Un gruppo internazionale ha preso contatto con la nostra Fondazione perché disponibile ad un investimento di parecchi milioni di euro su una sede prestigiosa da gestire quale luogo d'arte e cultura, ma ovunque si frappongono ostacoli burocratici. Sarebbe disponibile anche a presentarsi ad una gara, ma con la certezza dei tempi, cosa che in Italia non è possibile.
Occorre quindi fare un salto culturale, quasi una rivoluzione copernicana, Ma ho l'impressione che manchi la volontà politica e i segnali in questo senso sono chiari. È' evidente che la cultura non è una priorità del Paese, non è nell'agenda del Governo.
Pur dichiarando che la cultura è la risorsa del Paese.
Mentre assistiamo con sgomento e partecipazione al dramma degli operai dell’Alcoa in Sardegna , mi viene da pensare che oltre trenta anni fa nello stagno di Cabras – nella piana di Oristano – sono stati rinvenuti circa 30 Guerrieri di pietra (il numero aumenta di continuo mentre si procede con il restauro), giganti alti 2,20, definiti «la più grande ed enigmatica scoperta in questo territorio». Ciò che è incredibile e lascia attoniti è il fatto che di loro e dell’eccezionale ritrovamento non se ne è mai saputo nulla, se non da pochi anni.
Infatti furono «abbandonati» per ben 32 anni nel museo di Cagliari, ma non in una sala di visita, bensì negli scantinati. La protesta di alcuni giovani archeologi ha avviato il lavoro di restauro e il progetto di valorizzazione di questa scoperta è solo all'inizio e procede con lentezza. Pensiamo a quello che è successo in Cina, con i Guerrieri di Xi’an, e a ciò che potrebbe succedere in Sardegna con i guerrieri di Monti Prama.
Si tratta di un'occasione e una sfida per tutto il territorio: creare un museo non polveroso ma interattivo, organizzare mostre, circuitarle, utilizzare i giganti quali ambasciatori di una cultura millenaria. Fare insomma marketing traendo vantaggio competitivo da questa scoperta, e utilizzarla come leva per lo sviluppo economico di un territorio che oggi è in grande sofferenza, vorrebbe dire occupazione giovanile e qualificata, indotto economico, circuito virtuoso.
Di questi esempi possiamo farne tantissimi, in Italia. Purtroppo si preferisce l’assistenzialismo o «cattedrali industriali nel deserto» che non sono più in grado di garantire posti di lavoro perché i mercati di riferimento si sono spostati altrove. Il nostro patrimonio culturale, al contrario, non è
delocalizzabile, non è replicabile, è vera ricchezza se la utilizziamo al meglio.
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