Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

La città come 'opera'

  • Pubblicato il: 23/09/2016 - 09:29
Autore/i: 
Rubrica: 
CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

L’attenta e rigorosa analisi di Alessandra Pioselli nel testo edito da Johan& Levi - L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi – è l'occasione per una riflessione trasversale su arte, sfera pubblica, trasformazioni urbane. L'invito è a superare le dicotomie tra dimensione etica ed estetica, integrando ricerca, formazione, pratica, oltre le retoriche

 
 

«L’arte […] contribuisce alla realizzazione della società urbana con la sua meditazione sulla vita come dramma e gioia. Inoltre e soprattutto, l'arte restituisce il senso dell'opera, consente figure molteplici di tempi e di spazi appropriati: non subìti, non accettati da una rassegnazione passiva ma trasformati in opera. […] Lasciando da parte la rappresentazione, l'ornamento, la decorazione l’arte può diventare praxis e poiesis a scala sociale, l'arte di vivere nella città come opera d'arte».
Le droit à la ville, Henri Lefebvre, 1968

Se, un po’ per gioco, attraverso un qualunque motore di ricerca si crea un alert con le parole «arte pubblica», spuntano quotidianamente decine e decine di avvisi di bandi, opere, artisti, progettualità che hanno per oggetto e soggetto questa magmatica e indefinita forma d’arte, accompagnata non di rado dai temi mantra del momento - partecipazione, engagement, comunità, innovazione, rigenerazione - restituendo una mappatura, poco scientifica ma variegata, che da nord a sud abbraccia la penisola declinandosi nelle più svariate possibilità.

Segno di un rinnovato interesse? Un dibattito incalzante? Un trend? Forse tutto questo. Ma se, come diceva Gustav Klimt, «tutta l’arte è erotica» possiamo a ragione dire che «tutta l’arte è pubblica». Se alla genericità delle categorie non segue un’analisi attenta – filologica oserei dire – del fenomeno, capace di dare un peso alle parole, inquadrare le opere, le pratiche, le biografie degli artisti all’interno di scenari socio-economici, politici e territoriali, il rischio – affatto sventato - è l’uso e l’abuso di un termine che va ad accogliere tutto e il contrario di tutto.
Di qui la necessità di complessificare i termini della questione, a partire dall’inserimento dei concetti di sfera (pubblica) e di spazio, imprescindibili interlocutori di una stagione dell’arte che, dagli anni ’60 e affondando le proprie radici nelle avanguardie storiche, subisce variazioni e soste ma non arresti.

L’arte nello sfera pubblica e nello spazio pubblico, in tutte le sue declinazioni - come oggetto e come processo, come pratica artistica e urbana, come sperimentazione educativa, come archivio - esplora nuovi modi di rappresentazione della città e innesca nuove forme di partecipazione e relazione, nuove forme di comprensione dello spazio, nuove mappature sensibili che mirano a restituire, leggendo segni e indizi, la polisemia del territorio e il suo primato simbolico, riconsegnando un significato inedito e talvolta inespresso e latente della realtà.

Molteplici coniugazioni: da un’accezione «decorativa», dove l’opera d’arte fuori dal museo va ad occupare lo spazio pubblico senza entrare realmente in dialogo con l'ambiente circostante – nel dibattito sulla sponda politica della rotatoria, se di destra o di sinistra, tante (troppe) opere d'arte vi sono nate sopra – a lavori strettamente connessi con le specificità del luogo, site specific, fino a processi e «pratiche» costituenti, attive nelle dinamiche di trasformazione del luogo in cui «accadono», espressione di una urgenza e vettori di cambiamento.
Azioni che sono un invito a ripensare lo spazio attraverso l’osservazione del quotidiano come direbbe De Certeau, dell’esperire, del fare, dell’immaginare, attivando nuove progettualità e svelando l’intraducibile attraverso il «re-incanto». Un agire che caratterizza molte delle pratiche artistiche (e culturali tout court) attuali: un fitto sottobosco che agisce sperimentando nuove forme di innovazione culturale nella città, un'arte che si situa nello spazio urbano con una vocazione fortemente sociale e le cui origini sono certamente rintracciabili nelle avanguardie e nelle neo-avanguardie, che ne costituiscono le premesse storiche.
Premesse che aprono la problematizzazione critica di questioni che ancora oggi sono al centro del dibattito sul ruolo, le funzioni e i processi che ruotano intorno all’arte nella sfera pubblica.
Questioni che in Italia per molto tempo non sono state sufficientemente problematizzate se non – grazie all’operato di alcuni critici, curatori, operatori culturali – facendo riferimento alla sola sfera artistica ed estetica e tutt’al più sociale, tralasciando come la questione dell’arte nello spazio pubblico incide tanto nella sfera soggettiva che collettiva, influenzando e determinando l’uso e la definizione della città e interessando, quindi, anche l’urbanistica  e la governance del territorio.

Un’analisi attenta e rigorosa ci viene ora offerta da Alessandra Pioselli ne «L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi».
Una accorta ricostruzione storica che prosegue il lavoro di ricerca critica avviato dalla mostra «Fuori! Arte e spazio urbano 1968/1976», curata con Silvia Bignami al Museo del Novecento di Milano nel 2011, quando indagarono opere e artisti attivi nello spazio urbano in anni di grande stravolgimento politico di cui l'arte divenne espressione e stimolatore.

Come ben afferma Alessandra Pioselli, con estremo rigore scientifico, a partire dagli anni Sessanta l’arte vede un sistematico processo di enfatizzazione dei concetti di partecipazione, collaborazione, condivisione, contestazione: dalla  Sfera di Giornali di Michelangelo Pistoletto  (1966)  alle manifestazioni goliardiche e politiche di Piero Gilardi, al «ritorno alla terra», con Agricola Cornelia (1973), di Gianfranco Baruchello in risposta alla spettacolarizzazione estetizzante dell’arte, alle «anarchitetture» di Ugo La Pietra, alle ricerche antropologiche e gli esercizi immaginativi di Riccardo Dalisi, solo per citare alcuni tra i numerosi casi analizzati nel testo.

Ciò che colpisce è che, tra l’imprevedibilità e la sorpresa di un pubblico non allertato caratterizzante molti degli happening urbani del tempo, gran parte di queste esperienze si situano ai margini, territoriali e disciplinari, facendosi promotrici di un decentramento della cultura che vedeva nelle periferie e nella provincia italiana un’«alternativa» alla città profanata dal boom e un’«opportunità di riscatto» per la creazione di un «ambiente come sociale», parafrasando Crispolti, ovvero per la costruzione di una socialità attraverso l’arte.

Ma nel clima politico-sociale del tempo, l’«alternativa di cooperazione culturale» echeggiata da Crispolti, per cui «crescita culturale e crescita di consapevolezza politica» andavano di pari passo, si scontrò con un’incomprensione generale, non solo amministrativa, che vedeva nell’arte uno strumento di animazione sociale piuttosto che un processo epistemologico – attraverso l’esperienza estetica – di capacitazione critica, e fu fagocitata dalla «retorica del beneficio sociale» e del «decoro».

Nel testo, ogni esperienza, da nord a sud, nello spazio temporale trattato, racconta microcosmi sociali molto diversi.
Dalle esperienze paradigmatiche di Como (1967), Amalfi (1968), San Benedetto del Tronto (1969), Volterra (1973), con la tutta portata politica di quei tempi, fatti di militanza, conflitto e lotte di classe, che rincorrevano quel diritto alla città echeggiato da Henri Lefebvre e quella funzione sociale dell’arte teorizzata da Crispolti, passando per l’adozione, a partire dalli anni ’90 e dopo l’arresto degli ’80 – in uno scenario urbano in repentino mutamento con la formazione dei grandi agglomerati periferici – di modalità d’azione via via più performative, processuali e partecipate, il testo è l’occasione per riflettere trasversalmente sulla risposta dei territori quando l’arte sceglie di stare «fuori», sulle committenze pubbliche e private, sul dibattito scientifico intorno al tema, sulla risposta delle politiche (culturali, sociali, urbane),  miopi e incapaci – e ad oggi poco è cambiato, come sapientemente scrive il Prof. Sacco su queste pagine – di cogliere le opportunità e le potenzialità offerte dalle pratiche artistiche .

Una cecità che ha fatto delle esperienze del passato casi isolati e che oggi, nonostante un rinnovato interesse, costituiscono isole che, agli occhi di chi amministra, rappresentano utili asset per strategie di marketing territoriale, decoro urbano per periferie dimenticate che tornano a colorarsi con l’ultimo street artist di turno, potenziali agenti di sviluppo economico, mentre per di chi le sostiene - curatori, musei e istituzioni culturali – rappresentano momenti isolati e destinati a una élite di settore (quello dell'arte) o, ancor peggio, eventi costretti a una restituzione immediata per rispondere alle (non) politiche culturali che impongono una valutazione immediata, in cui l'engagement si tramuta spesso in un conteggio che invalida la sperimentazione.

Persiste dunque, allora come oggi, una visione dicotomica e separata - sia delle discipline che delle politiche – che relega l’arte sempre  a un ruolo marginale e sussidiario e non centrale nelle dinamiche di produzione della città, dello spazio urbano e sociale, nel processo di significazione culturale – individuale e collettivo - e territoriale.

Dalle avanguardie ad oggi mutano i contesti e le sfumature, ma restano sostanzialmente invariati i termini della questione. Da una fusione totale tra arte e vita – caratterizzante gli «ismi» dei primi decenni del ‘900 e i pionieri del Movimento Moderno – a un ridimensionamento, meno ideologico e più praticabile della questione, medesime domande, da ogni sponda, ricorrono.

Più che dare risposte allora occorrerebbe cambiare approccio, pensare trasversalmente, creativamente, attraversare i campi e trovare prima di tutto una zona di dialogo in cui teoria, pratica, politica, specialismi, attivismi, utopismi si incontrano e, nell’affrancarsi da una dimensione retorica, così come da una concezione di produzione culturale intesa come consumo, comprendere (e sperimentare) come «l’arte – come affermava Henri Lefebvre – può aiutare la forza sociale ad esprimersi».

Una zona franca che non può che essere un luogo di cortocircuiti, spostamenti, di creazione di mondi altri. Uno spazio dell’immaginazione, praticabile.

© Riproduzione riservata

Alessandra Pioselli
«L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi»
Johan & Levi, 2015
pp.218, euro 21