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L’Italia ha paura della cultura e delle idee

  • Pubblicato il: 15/06/2012 - 13:50
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Pier Luigi Sacco
Pier Luigi Sacco

Nel confuso dibattito italiano sul ruolo economico e sociale della cultura che ha caratterizzato questi ultimi anni, si incontrano con frequenza ossessiva riferimenti al mecenatismo come «formula magica» che riassume in sé vecchie aspirazioni e nuove paure. Da un lato, l’ambizione, a volte peraltro esplicita, di molti nel potersi considerare i legittimi eredi degli uomini che resero possibile il Rinascimento italiano; dall’altro, la tentazione di seppellire sotto l’ampio manto rassicurante di associazioni positive di significato che questo termine porta con sé, tutte le ansie, le ambiguità e le contraddizioni che si addensano nella trama quotidiana delle pratiche culturali in Italia. Ma questa idea rassicurante e distorta del mecenatismo e della sua dimensione economico-sociale oltre che storico-culturale sembra oggi aver incontrato la sua nemesi. Mai come ora sembra ampia ed evidente la distanza tra il modello ideale e il suo supposto attuale correlativo oggettivo. Se, infatti, la cultura rinascimentale è stata resa possibile dal coraggio e dalla perseveranza di figure capaci di sfidare il senso comune e le convenzioni culturali del proprio tempo, pur di sostenere il lavoro e le scelte di personalità creative tra le più scomode e a volte poco difendibili – si pensi ad esempio alla vicenda esemplare del rapporto tra Cosimo de’ Medici e Brunelleschi, e all’enorme dose di rischio e di visionarietà politica che ha spinto il primo a mettere le sorti personali e  familiari nelle mani del secondo e del suo «folle» progetto di cupola per Santa Maria del Fiore – nella scena attuale i più convinti alfieri del mecenatismo nouvelle vague e dei suoi meriti sono proprio i più fieri propugnatori del conservatorismo culturale, del completo ripiegamento sulle gerarchie consolidate, sui «nomi sicuri» – posizioni che incarnano, evidentemente, il perfetto rovesciamento dialettico dello spirito a cui si afferma di ispirarsi.
Questa situazione rispecchia con una chiarezza particolare il vicolo cieco in cui è finito il nostro paese che, in teoria, dovrebbe poggiare sulla cultura e sulle idee il suo intero edificio economico e sociale, ma che nei fatti ha paura della cultura e delle idee nelle loro forme più vitali, e osa concedergli spazio soltanto quando queste hanno perduto quella funzione trasformativa, quella facoltà di «distruzione creatrice» che è alla base dell’innovazione in tutte le sue forme. Il mondo delle fondazioni di origine bancaria (FOB) non ha sempre saputo opporsi a questa tendenza, e a volte l’ha sposata pienamente. In un certo senso, nessuno più delle FOB sembrerebbe chiamato a dare una traduzione pratica della dimensione più visionaria e anticipatrice del mecenatismo storico nel contesto attuale. Un patrimonio, a volte ingente. Una missione istituzionale che indica nella cultura una delle aree privilegiate di azione. Bassi livelli di rischio politico e imprenditoriale. Libertà dalla tirannia del breve termine. E’ difficile pensare a condizioni più favorevoli per dare luogo a un’azione centrata sull’innovazione, sulla ricerca, sulla sfida culturale e creativa. La realtà dei fatti è stata, in molti casi, piuttosto diversa. Una delle cause di questa discrepanza può forse essere cercata nel carattere locale dell’azione delle FOB, che dovendo focalizzarsi su un territorio di riferimento circoscritto avrebbero a disposizione un bacino di eccellenza relativamente limitato da coltivare. Ma questa è in realtà un’obiezione debole: l’Italia è sempre stata un paese di «piccole capitali» e la temporanea grandezza delle une piuttosto che delle altre è stata dovuta appunto alla capacità di trasformare un piccolo centro, a volte geograficamente marginale, in un irresistibile magnete di progettualità capace di attrarre attenzioni e risorse che rimanevano irraggiungibili per centri più grandi e geograficamente più centrali. La «vocazione» di una FOB verso il suo territorio, lungi dall’essere una limitazione, potrebbe diventare una straordinaria opportunità se ciò volesse dire elaborare e mettere in atto una precisa visione di cambiamento – un obiettivo che sarebbe chiaramente fuori della portata su una scala più ampia forse anche per le FOB più grandi, ma che alla scala locale diventa appunto credibile e in gran parte possibile.
Di fronte al bivio, si è scelta troppo spesso l’altra strada, quella sicura: quella che, non diversamente da quanto è avvenuto per decenni nella politica economica nazionale, ecumenicamente non sceglieva, ma distribuiva secondo un accurato sistema di pesi e contrappesi risorse e opportunità secondo le logiche del mantenimento dello status quo. E finiva quindi per rendere i territori stessi ostili alla novità, in quanto qualunque rottura della situazione esistente avrebbe di fatto modificato una logica di allocazione delle risorse che i beneficiari correnti avevano tutto l’interesse a difendere strenuamente. Se una rottura degli equilibri si è verificata, è stata spesso nella direzione dell’assunzione diretta dell’iniziativa da parte delle FOB stesse, che si sono trasformate in produttori culturali, accorciando nettamente la filiera della committenza e operando direttamente nell’arena culturale, a volte dando vita a strutture proprie. Una scelta che potrebbe anche in alcuni casi permettere di assumere un controllo più diretto dei processi produttivi e della loro portata innovativa, ma che in altri potrebbe, invece, assumere un carattere auto-referenziale e auto-celebrativo, che finisce per ingessare ulteriormente il dinamismo culturale del territorio.
Dove ci ha portato questa strada, a tutti i livelli, ormai lo sappiamo bene: a un paese fermo dal punto di vista della capacità innovativa, soffocato dai personalismi locali e nazionali, e spesso incapace di utilizzare le risorse facendo riferimento a una misura sensata di razionalità collettiva, oltre che individuale: un paese che, a livello di standard di governance, appare nettamente indietro, come illustrano spietatamente le classifiche di settore, non soltanto rispetto ai paesi socio-economicamente più avanzati, ma anche alla maggior parte di quelli emergenti. La sostenibilità, tanto economica quanto politica, di questo modello, è evidentemente arrivata al capolinea. Bisogna tornare indietro lungo il bivio, e provare a imboccare l’altra strada, quella a suo tempo da molti non presa, e allo stesso tempo fare invece tesoro delle esperienze che, anche nel vasto e composito mondo delle FOB, hanno invece già fatto passi decisi lungo quella direzione, nel senso dell’accountability e della valutazione indipendente e rigorosa delle proprie scelte, nel senso del confrontarsi con meccanismi esterni di attrazione e di impiego delle risorse come quelli dei programmi comunitari, nel senso dell’apertura di spazi reali di sviluppo professionale per le competenze giovani, inevitabilmente più pronte nel cogliere i mutamenti dello spirito del tempo e soprattutto le tendenze di sviluppo delle piattaforme culturali nell’epoca dell’economia digitale. Se l’Italia di oggi, nel pieno della più complessa e rischiosa transizione economico-istituzionale del secondo dopoguerra, fatica tanto a trovare uno spazio reale per la cultura nel processo di elaborazione di un nuovo modello di sviluppo capace di rispondere efficacemente ai nuovi vincoli, e al massimo riesce a vederla come una «specie protetta» da salvaguardare possibilmente dall’estinzione, ciò dipende anche in larga misura dall’insufficienza di «laboratori locali» che, su una scala più gestibile, siano stati in grado di indicare chiaramente un percorso, di produrre risultati concreti e spendibili alla scala nazionale. E’ questo il ruolo che possono assumersi le FOB nello scenario attuale, quello di divenire promotrici di laboratori di sviluppo locale a base culturale che siano finalmente consapevoli delle esperienze più interessanti e avanzate che si stanno manifestando nel contesto internazionale, stabilendo possibilmente legami e forme avanzate di cooperazione con esse. E’ un ruolo prezioso e importante, che forse nessun altro soggetto, pubblico o privato, del nostro paese è attualmente in grado di svolgere, e che pure è indispensabile per «fare sul serio», per dare finalmente alla cultura una chance reale di diventare per l’Italia una fonte di vantaggio competitivo – nella consapevolezza che non si tratta di «petrolio», come vorrebbe una delle più sciagurate quanto fuorvianti metafore che hanno infestato il pensiero sulla cultura degli ultimi decenni, quanto piuttosto di una difficile, ma entusiasmante, pista acrobatica su cui imparare a volteggiare con abilità, prontezza, coraggio, senso della sfida, muscoli tesi e occhi ben aperti.
 
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Pier Luigi Sacco è Preside della Facoltà di Arti, mercati e patrimoni della cultura - Università IULM di Milano
 
 
(dal XII Rapporto Annuale Fondazioni)