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Il sogno di un’istituzione per fare a meno delle istituzioni. La Fondazione Mario Tommasini

  • Pubblicato il: 13/02/2017 - 20:23
Autore/i: 
Rubrica: 
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

Se la chiave è la mission, la Fondazione Mario Tommasini la eredita da un uomo semplice e speciale, un amministratore pubblico che per anni ha integrato le fasce deboli nella popolazione, cooperato con realtà distanti, lottato per la dignità umana, tagliato le reti di malattia mentale, carcere, disabilità, vecchiaia, infanzia. Col cambio generazionale si frantumano i rapporti di prossimità, un patrimonio di interazioni, avanzano i pregiudizi. “La nostra sfida – dice la figlia Barbara – è ricordare agendo”

Anziani tolti alle restrizioni degli istituti di ricovero e tenuti sul loro territorio, in abitazioni accessibili. Minori senza famiglia o disagiati, sottratti a istituti e brefotrofi e restituiti a un mondo di relazioni. Detenuti, disabili, persone con problemi psichici, fatti emergere dall’isolamento e reinseriti nel tessuto lavorativo e sociale, grazie una responsabilizzazione diffusa. Comunità locale perno del cambiamento sociale e base di un welfare al cui centro sono i rapporti di fiducia e di prossimità. Politici e amministratori pubblici con funzione di mediazione e ascolto.
E’ l’agenda di una start-up del terzo settore, attiva nella sharing economy o nel community engagement? No. E’ l’azione di Mario Tommasini, amministratore pubblico dal 1965 e per quarant’anni a Parma: quinta elementare, lavoro e militanza operaia, precarietà, integrità, profonda conoscenza degli uomini e del suo territorio. Ma soprattutto un innovatore in campo sociale. Cosa abbiamo ereditato da lui? E, soprattutto, cosa rischiamo di perdere?

Tommasini pioniere del Community Welfare, tra guida pubblica e partecipazione civica.
A inizio 2000 Mario Tommasini, da decenni politico ed amministratore pubblico, si occupa di uno dei suoi gioielli di progettualità sociale, che ha il pari solo in nuovi esperimenti di domotica assistiva – anch’essi finanziati da Fondazione Cariparma – di cui pure fu promotore: dà vita, nel più remoto territorio parmigiano, a un villaggio ad alta accessibilità e a misura d’anziano col sostegno privato e di enti pubblici, associazioni, ACLI (che vigilano su di esso): le Case di Tiedoli. Una sperimentazione di reinsediamento in borghi abbandonati, in anticipo sulle attuali riflessioni sulla rivitalizzazione delle aree interne.
Già nel decennio precedente, il progetto di prossimità abitativa Esperidi prevedeva nuovi cluster di appartamenti e la coabitazione fra anziani e giovani coppie, a loro tutela. Restò sulla carta, per le difficoltà ad intervenire su suolo pubblico con capitali privati degli anziani senza generare conflitti con gli assi ereditari, ma ne emersero approcci e linee guida adottati in molte parti d’Europa: e in Regione Emilia-Romagna ci sono oggi centinaia di appartamenti in alternativa alle case di riposo: anche se Tommasini diceva che un appartamento senza rete sociale può tornare a essere istituzione.
Negli anni ’70, soprattutto per gli anziani, avviò l’affido di Orti sociali da terre pubbliche inutilizzate, a rischio di futura edificazione: ancora oggi Parma è fra le città leader in Italia per estensione di orti.
Dalla terra, nella Fattoria di Vigheffio e in altre tre, nacque forse il più vecchio progetto di inclusione e reinserimento psichiatrico, a fine ’60: Tommasini, Assessore provinciale con delega all’Ospedale Psichiatrico di Colorno, vi inserì i suoi primi dimessi, restaurandole con la comunità locale e dando agli ex internati nuova vita e lavoro. Oggi la casa alloggio è affiancata da un centro sociale e culturale.
Ed è proprio lì, l’inizio di una sfida per la convivenza: sulla malattia mentale Tommasini fece la prima lotta e nominò Franco Basaglia a Colorno, per svuotare il manicomio parmigiano prima che fosse il medico fosse chiamato a aprire quello di Trieste; in seguito fu con Franco Rotelli in analoghe missioni nel mondo.
Con Tommasini nacquero gli esperimenti di documentario sociale Nessuno o tutti/Matti da slegare, D’Amore Si Vive (e Gli Orti dell’Amore, inedito) dei giovani Marco Bellocchio e Silvano Agosti, che incisero sulla percezione di questi temi, intaccati da paure e pregiudizi.
Riportò in famiglie nuove e di origine i minori con problemi internati nel tempo in istituti e strutture ospedalizzanti in tutto il Paese, sfruttati o maltrattati, inducendole le stesse a cambiare, e fece lo stesso coi minori abbandonati nel brefotrofio locale di cui dichiarò la “chiusura per mancanza di bambini.
Le madri, oltre a nuovi aiuti sociali per scongiurare affidi esterni, videro la prima Cartella della Gestante: esperimento di monitoraggio coordinato fra medici di base, personale ospedaliero, ostetriche. Tommasini attivò poi canali di affido rapidi per i neonati che non potessero essere allevati e nell’assistenza ai minori disabili riuscì a spendersi per il superamento delle classi differenziali istituite a inizio ‘60 nelle scuole pubbliche per i soli portatori di handicap e di ritardi di apprendimento.
Fra le tante realtà cooperative nate e cresciute nei vari contesti di azione di Tommasini, la Sirio, dal 1986 e in anticipo sulle normative, avviò percorsi di lavoro alternativi al carcere, spesso di utilità sociale. E, punto di contatto fra adolescenza e carcere, nel 1983 Tommasini era già riuscito a mettere in atto il primo percorso di pena alternativo al carcere per cinque minorenni che avevano ucciso per futili motivi un coetaneo: i ragazzi restarono collocati in coabitazione in un appartamento di privati, assistiti da volontari, e dopo un anno e mezzo terminarono la pena e ricominciarono da capo.
La vita di Tommasini può essere riassunta come il tentativo di stare nell’istituzione per togliere alle istituzioni la gestione delle persone e restituirla a queste ultime: per far questo collaborava con tutti, imprenditori, operai, artigiani, famiglie, servizi pubblici, cooperative, realtà religiose e associazioni.
Era consapevole di essere di fronte a una sfida culturale per uscire dall’ottica del servizio e dell’assistenza, far appropriare i cittadini delle istituzioni, ridare loro dignità e diritti. Cosa resta di questo modello unico di welfare comunitario, a guida pubblica, partecipativo, in grado di creare cultura della accoglienza e in anticipo sui tempi, dopo la scomparsa di un uomo così?

Fondazione Mario Tommasini. La trasmissione del social heritage ai tempi della prossimità latente.
Nel 2006 Tommasini, polemico uomo di pace, scompare. Un percorso aperto fra chi ne aveva conosciuto e ammirato l’opera fa sorgere la Fondazione di partecipazione Mario Tommasini, tra fine 2007 e inizio 2008, per promuoverne pensieri ed azioni. Amici, amministratori, estimatori impegnano (molti) enti locali e pubblici, associazioni e cooperative ad aderirvi.
Si è lavorato alla raccolta di testimonianze, documenti, all’edizione di un libro (Mario Tommasini. Eretico per amore. Bruno Rossi, Ed. Diabasis), a incontri e laboratori sui suoi temi, anche in collaborazione con Sirio. Con Fondazione Cariparma, Sirio e ASL si dà vita all’esperimento radiofonico che coinvolge giovani con problemi psichiatrici, Non ci sto più dentro (Radio Parma). E’ si fonda il premio a lui intitolato (Giusy Nicolini, Milena Gabanelli, Don Gallo, Don Ciotti e altri, tra i premiati) per consolidare la rete di affinità e di attenzione alla sua eredità. Ma non si è giunti a poter garantire che, con la memoria del suo lavoro, resti viva la ricettività del territorio, acquisita con lui.
Il Presidente, Bruno Rossi (ex direttore della Gazzetta di Parma) ricorda come “Davanti a una città sconvolta, da Assessore comunale alle Politiche Sociali, Mario, Vincenzo Tradardi, presidente ASL (già tra gli autori dell’occupazione del manicomio di Colorno) e don Pino Setti, d’accordo col Vescovo, ottennero l’affidamento dei minori alla ASL, la primavera successiva all’omicidio: accadde dopo un lungo percorso di confronto pubblico nei quartieri e in città.”
E i punti critici oggi sono proprio questi: dimensione intergenerazionale, riflessione e azione basate su una vera partecipazione locale alle scelte che possono creare una reale accoglienza. La Vicepresidente Marcella Saccani, politica e assessore di lungo corso, impegnata in Sirio ci dice: “Dovremmo ripartire dalle scuole e portare il libro su di lui in ogni classe. C’è un primo archivio di documenti e carte private, articoli e materiali di rilievo, anche pubblici, sul suo operato e la sua vita, e molta documentazione sul sito. Quel che forse non serviva – ironizza – era una Fondazione! Un’associazione implica meno procedure e avrebbe calzato meglio per generare partecipazione diretta: ciò non toglie che cercheremo di semplificare la gestione quotidiana e che ora per fare uno scatto serve recuperare lo spirito cooperativo iniziale, la nostra cultura, e ritrovare ascolto nelle amministrazioni. Ci serve un impegno maggiore dei soci e nuove persone a collaborare, e si può fare qualcosa di buono. Ci sono amministratrici interessanti tra i soci partecipanti – anche giovani e preparate: l’assessora di Fidenza, ad esempio, che ha esperienza e formazione nel sociale ed è stata coordinatrice di Libera di Parma. Sono buoni acquisti per il futuro.”
Nell’epoca dello storytelling totale e della prossimità latente della rete, non basta più il racconto per generare coinvolgimento ma servono strumenti e contesti adeguati per trasmettere e riportare a pulsare il cuore di un’esperienza così: lo stimolo può arrivare dalla creazione di un soggetto associativo morbido, che potrebbe costituirsi come socio della fondazione stessa e lavorare al ricoinvolgimento (nei luoghi di inclusione, di formazione, di produzione culturale) dei diversi attori sociali. A una Fondazione che intenda preservare un’esperienza così radicale, e che vuole candidarsi al ruolo di coach comunitario, serve accogliere fra le sue fila più generazioni e persone di ogni condizione sociale, svegliando i partner pubblici passivi, creando i suoi progetti, fin dalla radice, in base alle necessità espresse localmente – come faceva Tommasini. O è condannata a sparire tra la burocrazia e la crescente insensibilità ai temi sociali.
Una possibilità di partenza è quella di istruire – ci dice la Vicepresidente – incontri sui temi più caldi, che già furono al centro dell’operato di Tommasini, per fare un punto della situazione” La Fondazione si sta ricalibrando ma non è semplice trovare il modo di tenere vivo il dibattito sulla vita pubblica e sociale del presente: è un ruolo di advocacy e moral suasion che sul territorio va rafforzato: “Oggi cosa direbbe Tommasini della condizione degli anziani, dei soprusi sui migranti, o dell’indebolirsi dell’assistenza ai disabili sul territorio?” aggiunge Marcella Saccani.
Cristina Brighenti, amica di Tommasini nella seconda parte della sua vita, impegnata nel Consiglio di Gestione della Fondazione sottolinea “Nel 2007 c’erano persone sedute a terra all’incontro del Comitato promotore. Servono tempo e forze per organizzare risorse come le persone coinvolte nel tempo dall’opera di Tommasini. Oltre agli eventi in programma per quest’anno, continueremo con la redazione radio, che può crescere. C’è anche l’Archivio di Colorno della ASL che gestiremo con Centro Studi Movimenti. Sono state fatte molte tesi sul lavoro di Mario. Il nostro scopo è comunque far conoscere questa storia e far arrivare le attività alle persone: e per farlo serve intercettare le risorse giuste.”
E da dove devono venire queste risorse se non dalle parti più sensibili della comunità, nella quale la partecipazione attiva di ognuno ha un ruolo determinante, a partire dalle pubbliche amministrazioni fino ai più semplici cittadini? Le risorse sono già lì: devono solo attivarsi – e la prima risorsa, la più difficile da smuovere, è la capacità di riconoscerlo.

Dal design istituzionale a quello comunitario. Dall’assistenza verticale alla cura condivisa. Quando un’eredità è di tutti.
Oggi l’opera di Tommasini sembra una sperimentazione fra economia della condivisione, welfare, lobbismo solidale. Era soprattutto, però, il frutto di una comunità che provava a investire su di sé.
Se si guarda al passato come a qualcosa di futuribile, si è perso qualcosa. Forse non c’è più quel radicamento in sé della comunità parmigiana che l’ha resa accogliente e all’avanguardia? Col venire a mancare di un’intera comunità – socialmente, emotivamente, istituzionalmente – a se stessa, iniziano i problemi: cosa resta di una città, e cosa può fare in essa una Fondazione, se essa inizia a disperdere l’eredità sociale di un simile percorso? E a chi spetta, davvero, questa tutela?
Se un patrimonio, o heritage (sociale e immateriale) consiste nella capacità di dare un certo disegno alle relazioni sociali – se l’opera è il design sociale di Tommasini con cui si è data forma un’intera comunità – allora il patrimonio si può ereditare solo come e con una continuità d’azione e riflessione pubblica, condivisa da tutti.
Chi si occupa di patrimoni fisici si pone il problema di come comunicarli e farli arrivare a un target: qui si deve preservare e diffondere una cultura di interazione fra le persone. (Ma in modo analogo a come Tommasini provò a uscire da una politica di assistenza nel welfare, oggi la sfida è uscire dal marketing culturale verticale per arrivare a modelli seriamente partecipati di produzione culturale.) E’ un compito a cui solo il lavoro consapevole di tanti attori (alcuni, importanti, presenti in Fondazione) pubblici e privati, associazioni e singoli, può metter mano. Serve – difendere la memoria di qualcosa che può trasformarsi in azione per il presente – ma come?
E’ la sfida di ogni conservazione immateriale, quella di cercare di rigenerare qualcosa fra le persone, far loro abitare una forma di relazione con ciò che le circonda, una sensibilità: una sfida, dunque, che non ha come sola erede la Fondazione. Essa semmai è uno strumento per aiutare a riscrivere l’interazione fra i vari attori sociali che agiscono nei territori, teatri del possibile cambiamento: la sua sfida principale sta nella capacità di persuadere che ciò sia ancora possibile e, forse, imprescindibile.

Tra famiglia umana e ombra luminosa degli ultimi: Tommasini uomo e intellettuale organico.
La figlia, Barbara Tommasini, sentita a telefono dice: “Stiamo ricostituendo un gruppo di lavoro in questo periodo. La Fondazione è aperta a chi è vicino all’esperienza di mio padre Mario, ha idee e vuole collaborare. C’è un problema di continuità generazionale. Molti nuovi amministratori non hanno conosciuto o sono cresciuti lontano dall’esperienza politica di mio padre.”
Chissà se l’amministrazione a cinque stelle di Parma avrà pensato a Tommasini come a un prodromo delle proprie lotte per un protagonismo extra-partitico della cittadinanza nella gestione della cosa pubblica? Tommasini collaborò con persone di ogni idea e schieramento: in un’occasione sola, stanco del suo partito – che aveva già posto un veto alla sua nomina a Assessore alle Politiche Sociali in Regione, in passato – si pose di traverso. Nel ’98 alle comunali una sua lista civica strappò il 19% e la sinistra fini per la prima volta all’opposizione (non vince da allora): era un segnale chiaro a chi rischiava di separare troppo l’azione politica dai percorsi di emancipazione comunitari.
Era una spina nel fianco quando voleva, Tommasini. Faceva ombra. Era l’ombra, scomoda, in cui stanno gli esclusi e che li riportava alla luce.
Barbara, impegnatasi nel lavoro della Fondazione in questi anni, dice “E’ stato un padre fuori dalle tradizioni. Forse sabato e domenica non ci ha portato alle giostre, ma ci ha portati con sé in manicomio, in ufficio, fra le persone, e dai bambini del brefotrofio: ci ha dato la capacità di leggere le sofferenze delle persone, una sensibilità di tipo diverso. A volte è stato faticoso, ma mai difficoltoso. Era una persona semplice, per quanto portasse con sé tutta la sua complessità progettuale: era una persona pratica e ciò che vedevamo era tradotto molto bene. Un’esperienza di figlia così non può ridursi in poche righe.” e aggiunge: “Il nostro compito, come Fondazione, ora, è ricordarlo agendo.”
E non c’è più molto tempo, perché il problema di storie come questa è che, se non le si trasmette in tempo, si perdono. E tocca, poi, riscriverle tutte, da capo.

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ph| Pizzamiglio, Vigheffio (PR), Mario Tommasini, immagine tratta dal Fondo dell'Archivio fotografico del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.