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Il pubblico ha sempre ragione?

  • Pubblicato il: 15/09/2018 - 08:01
Rubrica: 
CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Filippo Cavazzoni, Direttore editoriale Istituto Bruno Leoni
In libreria un nuovo lavoro sulle politiche culturali. “Il pubblico ha sempre ragione? Presente e futuro delle politiche culturali”, a cura di Filippo Cavazzoni, direttore editoriale dell’istituto Bruno Leoni.  Anticipiamo un estratto dell’introduzione per comprendere obiettivi e proposte, in primis “adottare un atteggiamento di umiltà rispetto al modo in cui accostarsi alle politiche culturali. Perché voler promuovere attivamente la cultura può portare ad abbracciare il punto di vista del demiurgo: di chi si pone come colui che definisce e individua chiaramente, in maniera arbitraria e univoca, l’arte e la cultura”, in un epoca in cui i consumi culturali sono stati sconvolti e accelerati dall’innovazione tecnologica.

Pare evidente come vi sia una distanza sempre più marcata tra le forme “otto/novecentesche” di fruizione e i consumi culturali per come avvengono oggi, soprattutto tra i giovani. Con ciò non si vuole affermare che sia da intendersi come superato l’assistere a un concerto di musica classica in un teatro, bensì come l’offerta culturale si sia dilatata, nelle forme e nei contenuti, oltre che nei modi e nei mezzi con i quali viene veicolata. Una piattaforma nata e alimentata spontaneamente dal basso come YouTube, pur avendo al suo interno quasi ogni genere di filmato, forse ha fatto più per la democratizzazione della cultura e la sua accessibilità di costose politiche culturali adottate dai singoli Stati europei.

Basterebbe una rapida incursione nella storia dei consumi culturali del secolo scorso per rendersi conto di come questi siano mutati, con tempi diversi (oggi assistiamo indubbiamente a un’accelerazione), grazie alle opportunità fornite da innovazioni e nuove tecnologie. E di come ogni cambiamento possa essere giudicato (e sia stato giudicato) in due modi opposti: con forte preoccupazione per la perdita di qualcosa stimato come più elevato culturalmente oppure con ottimismo per ciò che potenzialmente consentono tali novità.

Prima degli anni Trenta del Novecento, in Italia, vi era un basso tasso di scolarizzazione e il reddito procapite veniva utilizzato in larghissima parte per spese di “prima necessità” a cominciare dall’alimentazione. L’offerta culturale poteva dirsi scarsa e limitata a teatro, libri e periodici e divertimenti “leggeri” come balli e spettacoli vari. Con la comparsa e la diffusione dei nuovi media il quadro cambia. Si pensi all’effetto determinato dalla radio ma soprattutto dal cinema.

Ma il regno incontrastato della sala cinematografica come intrattenimento di massa sarebbe di lì a qualche anno, e in tutto l’Occidente, stato usurpato da un’altra invenzione come la televisione: anche in questo caso, alla stregua della radio, da oggetto di lusso diventata, a poco a poco, incredibilmente popolare. Negli Stati Uniti le presenze in sala sono diminuite del 73% dal 1950 al 1971; nel Regno Unito del 96% dal 1950 al 1984; in Italia dell’88% dal 1955 al 1992.

E oggi? Basta fare come dice Donald Sassoon all’inizio del suo La cultura degli europei, un giro in metropolitana la mattina presto, per rendersi conto di come i consumi culturali avvengano ovunque, ad esempio, tramite smartphone e tablet: grazie ai quali si legge, si ascolta musica o si guardano video. Internet e i nuovi device hanno cambiato, ancora una volta, la nostra quotidianità. Dimostrando inoltre come vi sia una positiva relazione tra sviluppo culturale ed economico, e tra i consumi culturali e i crescenti standard di vita materiale delle persone.

Quanto detto fino ad ora deve indurre ad adottare un atteggiamento di umiltà rispetto al modo in cui accostarsi alle politiche culturali. Perché voler promuovere attivamente la cultura può portare ad abbracciare il punto di vista del demiurgo: di chi si pone come colui che definisce e individua chiaramente, in maniera arbitraria e univoca, l’arte e la cultura. Con la conseguenza, per giunta, di mettere in pratica un approccio paternalista, imposto e calato dall’alto e poco rispettoso delle preferenze delle persone. Che non tiene conto di come lo sviluppo della produzione e dei consumi culturali sia una storia fatta di traiettorie per lo più inaspettate e impreviste, che imporrebbe pertanto il mantenimento di una posizione “neutrale”, volta sì a considerare la tradizione ma senza soffocare l’innovazione o ad avere la pretesa di “guidare” o “indirizzare” il futuro.

Tutti i capitoli che costituiscono il libro cercano di fare una rapida fotografia del presente e di indicare una direzione da prendere. L’approccio comune da utilizzare nei vari ambiti vorrebbe essere di semplificazione e di sottrazione: evitare quindi di aggiungere complessità a un quadro che di suo è già sufficientemente complesso; porsi nei confronti delle politiche da adottare con l’intento di rimuovere chirurgicamente quelle barriere che sono da ostacolo a un maggiore sviluppo del settore culturale, per renderlo più libero, flessibile, vivace e rispettoso delle preferenze degli individui. Concedendo più autonomia e insieme maggiore responsabilità alle istituzioni culturali, e cercando di ottenere un contesto all’interno del quale possano emergere nuovi soggetti e nuove proposte, capaci di attirare pubblico e di approfittare di innovazioni e nuove tecnologie.

Quelle proposte sono riforme “a costo zero”. E anche qui risiede un elemento che ci permettiamo di definire di novità, perché sembrerebbe invece che, di norma, le politiche culturali riguardino quasi solamente la scelta delle strade da far prendere al denaro pubblico.

IBL Libri, 230 pp., 18 euro. A cura di Filippo Cavazzoni. Prefazione di Guido Vitiello

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