Focus Montagna XXI secolo. Considerazioni di fine viaggio: il ruolo dell’innovazione culturale e sociale nella riattivazione delle aree interne
Un viaggio lungo un anno. Attraverso pieghe e rugosità dell’intero spazio alpino italiano. Incrociando contesti territoriali, situazioni, storie, progettualità differenti. Perché le Alpi restano un puzzle composito, dove la spinta verso l’omogeneizzazione operata dalla modernità novecentesca ha prodotto, soprattutto a partire dagli ultimi decenni del secolo, un parallelo processo di costruzione di nuove specificità e valori, non riducibili solamente alle eredità storiche.
E al contempo, in maniera crescente, diventa sempre più evidente come il tema alpino debba essere traguardato verso una più generale questione nazionale di riconcettualizzazione e riposizionamento delle aree interne del Paese, oggetto non a caso da qualche anno di una Strategia nazionale prefigurata dall’allora ministro Fabrizio Barca. Quell’«osso» – per tornare a una fortunata immagine di Manlio Rossi-Doria – fatto da dorsali appenniniche e alpine, da enclave rurali profonde, che nel corso della storia unitaria è stato progressivamente marginalizzato a favore della «polpa» delle rigogliose pianure e città. Dimenticando che l’Italia è innanzitutto una sorta di gigantesca infrastruttura geomorfologica e ambientale che storicamente è stata interpretata tramite un fitto reticolo insediativo a matrice policentrica fatto di piccoli e medi centri.
Le profonde mutazioni culturali che portano oggi a riconsiderare l’Italia dei margini e dei borghi, la crisi delle aree metropolitane ma ancora di più degli spazi intermedi (distretti, territori di recente urbanizzazione) compresi tra aree interne e città, le ricorrenti catastrofi “naturali” e la parallela presa di consapevolezza dell’importanza della questione ambientale in rapporto ai cambiamenti climatici, impongono con urgenza una riconfigurazione dei rapporti tra «osso» e «polpa». Anche perché questo «osso» rappresenta quasi un quarto della popolazione totale, e più dei due terzi dell’intero territorio italiano. Abbastanza per farne l’oggetto di una grande politica nazionale. Se non fosse che fino ad oggi hanno prevalso nell’elaborazione politica e intellettuale e poi nel senso comune altre rappresentazioni aggregate, più generali e spesso perciò fuorvianti: il Nord contro il Sud, la città opposta alla campagna e la pianura alla montagna; o ancora le rappresentazioni dello sviluppo, dal “triangolo industriale” fino alla più recente “terza Italia” dei distretti. Da qui il valore strategico, per dare nuova centralità ai margini, di un lavoro sulle rappresentazioni e gli immaginari territoriali.
Tale riconfigurazione delle geografie fisiche e culturali del Paese trova riscontro in diversi indizi, ancora pulviscolari e frammentari ma diffusi e evidenti: fenomeni di reinsediamento a macchia di leopardo, nuovi montanari, inedite forme di turismo, agricoltura e sviluppo locale, arrivo di stranieri. Ma anche e soprattutto sperimentazioni di pratiche, dalla riattivazione e rigenerazione dei luoghi a base culturale fino alle cooperative di comunità che elaborano forme altre e autorganizzate di welfare. Fenomeni che dal punto di vista quantitativo sono certamente limitati, ma che al contempo paiono essere decisivi per il ripensamento di questi territori, in quanto portatori di nuove istanze e valori, visioni e progettualità, dove l’esserci, l’assunzione diretta di responsabilità e di presa in cura delle cose, assumono dimensione pubblica e valenza “politica”.
Un’opera di potenziale riterritorializzazione che può essere decisiva. Perché l’Italia contemporanea delle aree interne è, nelle sue componenti più dinamiche e progettanti, anche questo: un’istanza civile e in qualche modo collettiva di emancipazione che vede in questi spazi rarefatti e a maglie larghe un luogo di opportunità per disegnare progetti di vita individuali e – insieme – un’Italia diversa, costruita dal basso, fuori dalle logiche e dai percorsi istituzionali consueti, dove potere intrecciare realismo e idealità. Un’Italia che chiede non assistenzialismo, ma la rimozione degli ostacoli che non consentono il libero dispiegarsi delle progettualità delle persone. Privo di rappresentanze politiche, non intercettato dalle tradizionali culture politiche riformiste, questo pezzo di Italia costituito da un arcipelago di soggettivismi dalla valenza collettiva in fieri ha deciso di muoversi da solo, ripartendo dai margini.
In tutte queste esperienze e processi, la dimensione culturale gioca un ruolo decisivo. Ma di che “cultura” stiamo parlando? Un dato sembra emergere da questo viaggio attraverso le Alpi: la visione culturale patrimonialista, fondata sulla valorizzazione delle eredità storiche e delle risorse locali, e che così grande peso ha avuto nel corso degli ultimi 25 anni, pare non essere più sufficiente. Quello che sta emergendo, è piuttosto un’istanza fondata sulla capacità produttrice della cultura. Come ha affermato Gianluca D’incà Levis di Dolomiti Contemporanee, «quassù c'è nulla da consumare, c'è invece molto da produrre». Nelle esperienze più interessanti, è questa nuova accezione del fare culturale che permette di ricombinare gli elementi patrimoniali con sguardi e pratiche innovative, ponendo al centro non come di consueto il consumo e il turismo, ma la creazione di nuovi modelli di abitabilità e di sviluppo del territorio montano.
Non quindi mera produzione culturale finalizzata al consumo, o semplice costruzione di narrazioni e nuovi valori simbolici. Piuttosto, un ripensamento complessivo dei modi di vivere lo spazio alpino, in cui la dimensione culturale è determinante per rielaborare le forme della produzione agricola o del costruire in montagna, di gestione dei servizi collettivi di welfare o di trasferimento delle innovazioni tecnologiche. Un’idea di riattivazione e rigenerazione a base culturale che inizia ad attraversare tutto l’arco alpino, dalle valli occitane del Piemonte (si vedano i casi di Ostana e della valle Maira) come fino alll’esperienza dell’Unione Territoriale Intercomunale delle Valli e delle Dolomiti Friulane.
Una riattivazione a base culturale, e questo è l’altro dato centrale, strettamente correlata ai processi di innovazione sociale. Perché è nell’intreccio e ibridazione di vecchi e nuovi abitanti, di consolidate e inedite competenze, che si producono – fuori da ogni ritrita contrapposizione tra culture “alte” e “basse” – nuovi saperi e conoscenze territoriali condivise, e nuovi progetti di territorio. La nascita di nuove culture è inscindibile dalla costruzione di una nuova società locale.
Tutti questi temi attraverso il libro collettivo «Riabitare l’Italia», edito da Donzelli, che sarà in libreria nel prossimo mese di dicembre. Un volume che pone al centro della riflessione proprio la riattivazione delle aree interne e marginali italiane. A partire dall’idea che tale processo può prendere corpo solo sapendo rispondere alle domande di cittadinanza, di servizi e infrastrutturazioni, degli abitanti di questi territori. Ma tutto questo, per quanto necessario, non è ancora sufficiente. Perché senza nuovi sguardi e immaginari culturali, senza la capacità di costruire un progetto di abitabilità complessivo, la sfida rischia di essere persa. «Riabitare l’Italia» tenta proprio questo: mettere a fuoco una visione nuova e d’insieme, dalla valenza ricompositiva, capace di intrecciare i saperi di storici e antropologi, sociologi e economisti, architetti e pianificatori territoriali, ecologisti e scienziati rurali, esperti di policies e di pubblica amministrazione, studiosi di pratiche di rigenerazione a base culturale e di riattivazione di comunità.
Ecco allora tra le decine di saggi e autori del libro gli scritti di Pier Luigi Sacco sulla rigenerazione a base culturale, di Fabrizio Barca sul rapporto tra politiche per le aree interne e nuove diseguaglianze, gli Atlanti di Lanzani-Curci, Carrosio-Faccini e Cersosimo-Nisticò che ridefiniscono le geografie fisiche, sociali e economiche di questi territori, le riflessioni di Barbera-Parisi sugli innovatori sociali. Perché è solo attraverso la costruzione di una progettualità d’insieme, che non riduca nuovamente le aree interne a un recinto separato dal resto, che «osso» e «polpa» possono ritornare a compenetrarsi, come è sempre stato nella storia del Bel Paese.
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Antonio De Rossi è professore ordinario di progettazione architettonica e direttore dell’Istituto di Architettura Montana. Tra il 2005 e il 2014 è stato vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino. È autore di diversi progetti architettonici, e con i due volumi «La costruzione delle Alpi» (Donzelli, 2014 e 2016) ha vinto i premi Mario Rigoni Stern e Acqui Storia.
Immagine: La copertina del volume “Riabitare l’Italia”, edito da Donzelli, a cura di Antonio De Rossi
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