FOCUS FOTOGRAFIA: Dopo un decennio di progetti partecipati nelle periferie, il MuFoCo si ripensa (parte 4/4)
Concludiamo il focus fotografia di questo numero con il MuFoCo, il primo -e finora unico-museo pubblico di fotografia in italia, nato nel 2004 a Cinisello Balsamo, oggi facente capo all’omonima Fondazione di partecipazione. Un museo voluto in periferia come centro di studio e ricerca, di relazioni e di mediazione culturale, che supera una crisi istituzionale con un allargamento della sua governance e un progetto di rilancio, aprendo una vetrina nel cuore della città, alla Triennale di Milano. Gabriella Guerci, che ne gestisce la produzione, lo presenta e in occasione della tavola rotonda da noi moderata per il Mibact-Fotografia. Ci offre un contributo di pensiero che nasce dall’esperienza del MuFoCo a Lampedusa e dal progetto “Urban Layers_Identity Flows” parte del programma UE “Creative Europe”, dal quale sono nati lavori di forte carica pubblica e politica. “La fotografia è chiamata a dare il suo contributo su temi civili a prefigurare scenari di trasformazione sociale: come arte del progetto,ad aiutarci a rappresentare le complessità del nostro tempo”.
Il Museo di Fotografia Contemporanea-MuFoCo è il primo e, finora, unico museo pubblico di fotografia in Italia. Nato nel 2004 per volere dell’allora Provincia di Milano e del Comune di Cinisello Balsamo, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività culturali e della Regione Lombardia, nel 2005 si è costituito in Fondazione di partecipazione. La sua sede è nella secentesca Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo, alle porte di Milano.
L’idea di dar vita ad un museo di fotografia prende avvio a metà degli anni Novanta del secolo scorso, a seguito di una importante campagna di rilevazione dei beni architettonici della Provincia di Milano durata dieci anni che fu affidata a grandi fotografi paesaggisti italiani e che produsse un corpus di immagini, Archivio dello spazio (1987-1997), paragonabile allora ed oggi solo a contemporanei esempi d’Oltralpe come la Mission Photographique de la Datar.
Intorno a questo primo importante nucleo di immagini si accorparono gli esiti di altre committenze pubbliche (della Provincia e della Regione) nonché le acquisizioni di interi archivi fotografici che rischiavano la dispersione, andando a costituire la reale e tangibile base di partenza per il progetto di un museo che si voleva moderno, in linea con le più avanzate esperienze europee: non solo luogo di raccolta ma centro di studio e ricerca, di relazioni e di mediazione culturale, capace di agire nella contemporaneità, di rivolgersi ai diversi pubblici e di farli protagonisti del processo creativo, di offrire consulenza scientifica e servizi culturali a enti, istituzioni e aziende.
Nel giro di dieci anni il Museo ha più che raddoppiato il suo patrimonio fotografico ed ora conserva circa due milioni di immagini d’autore, che datano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, organizzate in 32 fondi fotografici, con oltre 600 autori internazionali rappresentati. Un patrimonio molto vasto che testimonia l’evoluzione dei linguaggi fotografici e la rivoluzione tecnologica della fotografia nel passaggio da analogico a digitale. A questo si aggiunge un eccellente patrimonio librario che, con i suoi 18.000 volumi e riviste, costituisce una delle più importanti biblioteche specialistiche d’Europa nel campo della fotografia.
Sotto la guida sapiente di Roberta Valtorta, suo direttore scientifico, il Museo ha realizzato più di sessanta mostre in diverse sedi espositive, spesso in collaborazione con prestigiose istituzioni europee, promosso numerosi progetti di committenza pubblica e di public art, realizzato una quarantina di seminari di studio e convegni, pubblicato più di trenta libri tra cataloghi di mostre e volumi di studio, promosso concorsi e premi e accompagnato tutta la sua programmazione scientifica con una fitta proposta di iniziative educative per i diversi target di pubblico.
Va detto che negli ultimi anni, pur mantenendo le sue funzioni istituzionali primarie e un certo ritmo nella produzione delle attività culturali, il Museo ha attraversato un’importante crisi istituzionale dovuta soprattutto al taglio dei contributi degli Enti fondatori e alla trasformazione della Provincia di Milano in Città metropolitana con la conseguente perdita delle funzioni in materia di cultura e beni culturali. Una crisi che si è innestata su alcune difficoltà storiche e mai superate, come la collocazione in una sede decentrata rispetto a Milano e non immediatamente raggiungibile, dotata peraltro di spazi espositivi piuttosto angusti che non hanno permesso la convivenza di grandi mostre temporanee con una mostra permanente capace di dare visibilità a rotazione alla ricchezza delle collezioni e illustrare l’evoluzione dei linguaggi e delle tecniche della fotografia.
Al momento il Museo, dopo una fase di grandi e articolate consultazioni, ha finalmente messo a punto un progetto di rilancio condiviso da tutti i soggetti coinvolti, basato sull’allargamento della sua governance con l’ingresso della Triennale di Milano e il sostegno di Regione Lombardia e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e la dislocazione delle attività museali su due sedi: quelle espositive temporanee e convegnistiche presso il Palazzo dell’Arte della Triennale e quelle di conservazione e consultazione del patrimonio, educative e di esposizione permanente presso la sede storica di Cinisello Balsamo.
In questa fase di grande ristrutturazione, che ha comportato l’adozione di un nuovo statuto e che prefigura trasformazioni del progetto culturale, degli organi di governo e del piano organizzativo e gestionale, il Museo è stato invitato a collaborare alla realizzazione del progetto espositivo permanente Verso il Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo a Lampedusa. L’adesione è stata immediata, nella condivisione delle istanze culturali e politiche sottese al progetto, e, all’atto pratico, nella messa a disposizione delle collezioni fotografiche per la ricerca e la selezione, da parte dei curatori scientifici, delle opere più coerenti e significative per la costruzione del percorso espositivo.
La scelta è ricaduta su quattro opere di Federico Patellani, grande maestro del reportage attivo dal secondo dopoguerra a metà degli anni Settanta, collaboratore delle più importanti testate giornaliste dell’epoca, cineasta e viaggiatore. Di Patellani il Museo conserva l’intero archivio fotografico (circa 620.000 unità tra stampe bianco e nero, negativi su pellicola e diapositive), qui depositato dalla Regione Lombardia e i mobili originali disegnati dall’autore per lo studio di Piazza Tricolore a Milano. L’archivio è oggetto di continue campagne di catalogazione e digitalizzazione nonché interventi di restauro ed è uno dei fondi più “attivi” all’interno del Museo perché continuamente richiesto per prestiti a fini espositivi e pubblicazioni. A Federico Patellani il Museo ha dedicato anche numerose iniziative di valorizzazione, mostre interne e fuori sede, come la mostra monografica ospitata a Torino in Palazzo Madama. Le immagini in mostra sono state scattate dal 1945 al 1954 tra Italia, Spagna e Grecia e sono state presentate a Lampedusa per la prima volta attraverso light box, una soluzione di montaggio molto contemporanea che, al tempo stesso, esalta la potenza narrativa e la bellezza delle forme della fotografia di Patellani. Le immagini appartengono alla produzione che il fotogiornalista ha lungamente dedicato al racconto dell’Italia del dopoguerra, della ricostruzione e della ripresa economica testimoniando i cambiamenti della società e della vita culturale, ma anche alla fotografia di viaggio, che ha occupato grande parte della sua produzione a partire dalla metà degli anni Cinquanta grazie ai numerosi viaggi effettuati in tutto il mondo. Ciò che accomuna le immagini scelte per la mostra, anche solo ad una lettura immediata ed epidermica, è l’attenzione al lavoro, alle occupazioni manuali, spesso intese nella loro accezione più umile: i personaggi ci parlano del lavoro in termini di necessità, quella che fa emigrare le genti o le sottopone alle attività più dure e faticose, della dignità del lavoro e ad un tempo del suo sfruttamento, dell’operosità, del senso di dovere e di comunità, del lavoro come chiave di libertà e rinascita. C’è tutta una gestualità e una ritualità delle azioni del lavoro che è al tempo stesso umile e solenne, quotidiana e senza tempo, profondamente umana. Nel taglio ravvicinato lo sguardo è attratto dalle mani femminili, sporche e veloci, che selezionano il carbone nelle miniere di Carbonia o da quelle dei trasportatori pubblici che impugnano i sacchetti di carta e portano il pane alla bocca durante la pausa pranzo in piazza Duomo; nel campo lungo lo sguardo prova ad indagare le mani di chi armeggia con strumenti di manutenzione intorno ai lampioni stradali o alle colonne monumentali dell’Acropoli.
Collaborare al progetto di Lampedusa è stato importante anche per le suggestioni che ha stimolato, perché ha innescato un dialogo fatto di rimandi, corrispondenze e transumanze tra aree semantiche diverse intorno a grandi temi come quello dell’identità, un dialogo capace di far riemergere un sentire comune nel rumore di voci e segni “frontalieri” che sono propri del Mediterraneo.
Innanzitutto intorno al concetto di tutela. La tutela si esplica quando esiste una realtà debole e bisognosa che non è in grado di prendersi cura di se stessa e necessita di un soggetto più forte per poter esprimere i propri diritti. Nel nostro campo, sul terreno che ci compete, applichiamo tutto un insieme di accorgimenti raccolti sotto il nome di tutela al patrimonio fotografico che custodiamo, in quanto bene culturale: si tratta di una cura assidua, quotidiana, attenta, amorevole, che comprende tutte le azioni, gli strumenti e i materiali coinvolti nella gestione delle collezioni fotografiche, dalla conservazione alla consultazione, dall’esposizione al trasporto e imballaggio delle opere … operazioni tanto più eccezionali perché applicate ad un numero impressionante di pezzi, molto diversi tra di loro per procedimenti, tecniche e materiali costitutivi ma tutti fortemente sensibili e deteriorabili, per la fragilità intrinseca della fotografia. Un’operazione accurata e necessaria e tanto più sorprendente perché fino ad una quindicina d’anni fa la nostra legislazione non riconosceva né comprendeva la fotografia tra le categorie di beni culturali soggetti alla legge di tutela e dunque dignitosa di certi trattamenti. Entrare in un archivio e operare affinché le immagini siano conservate con cura e a regola d’arte nel corretto microclima in scatole, buste, armadi, cassettiere e celle frigorifere a norma, mette in campo precisi saperi e testimonia l’attaccamento viscerale al patrimonio, l’impegno a mantenerlo a qualsiasi costo, laddove “mantenere” comporta la promessa di tenere per mano, di rispettare (con la forza di una stretta di mano) e di custodire (con la delicatezza della presa per mano) un patto, una parola, una storia, un bene pubblico, il diritto di tutti noi e dei nostri figli di poterlo conoscere e godere. Riflessioni che ci spostano naturalmente, e con ben diversa e violenta evidenza, anche su altri piani, fuori dall’archivio, e ci inducono a ragionamenti più ampi e profondi sul tema della tutela, laddove ad essere implicati siano gli esseri umani, gli individui stessi e i loro diritti.
Concetto di tutela Identità, trama e intreccio. Da sempre i Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, il grande lago salato culla dell’umanità, hanno visto e vissuto esodi di popoli, interazioni, scontri e scambi che, pur nella costruzione di definiti confini culturali, linguistici e religiosi, rivelano da un lato una comune matrice culturale, dall’altro mettono in discussione il concetto stesso di identità e confermano che la formazione delle identità è un processo fluido e in continuo movimento. Alla luce non soltanto dei drammatici fatti di attualità ma soprattutto degli inarrestabili cambiamenti demografici e sociali che la stanno investendo, l’Unione Europea si trova in questo delicato momento storico a ripensare il proprio ruolo in senso politico, economico e culturale. In questo processo Lampedusa, la Sicilia tutta, è diventata uno dei simboli dei recenti flussi migratori di massa che interessano tutto il Mediterraneo e che si pone al confine meridionale di un'Europa chiamata con urgenza ad abbracciare nuove forme di identità, come ponte e non barriera per un rinnovato patto di comunicazione e dialogo tra popoli.
Su questi temi e interrogativi, il Museo ha avviato dal 2015 un articolato progetto artistico curato da Matteo Balduzzi dal titolo “Urban Layers_Identity Flows” all’interno del programma UE “Creative Europe”, insieme all’Università del Salento, l’Istituto di Culture Mediterranee di Lecce, la Fondazione Orestiadi di Gibellina, il GACMA di Malaga e il Museo di Fotografia Contemporanea di Salonicco. Gli esiti del programma di residenze artistiche a Gibellina, a seguito di una call internazionale che ha selezionato 6 artisti (Federica Bardelli e Alex Piacentini, Claudio Beorchia, Angelica Dass, Simone Sapienza, Zamiyr Suleymanov, Stratis Vogiatzis) provenienti da diversi Paesi non solo europei, sono stati presentati in Festival outdoor a Malaga (maggio 2016), Salonicco (giugno 2016) e Lecce (settembre 2016) insieme ai lavori di altri importanti artisti internazionali e ad un’opera site specific di Adrian Paci. Sono tutti lavori sui quali porre l’attenzione, per la loro carica pubblica e politica: uno per tutti, “Stato di emergenza” di Claudio Beorchia, che ha trasformato la coperta termica usata nei primi soccorsi di emergenza offerti ai migranti naufraghi nel simbolo istituzionale per eccellenza, la bandiera. Già molte municipalità della Sicilia occidentale hanno accolto l’invito ad issarla per 24 ore sui pennoni degli edifici pubblici.
Memento. Indubbiamente alla fotografia è associato un valore di ricordo e memoria e al tempo stesso è riconosciuta una carica persuasiva, di denuncia e di monito. La fotografia parla un linguaggio universale più facile da apprendere rispetto alle parole ma soprattutto più immediato da ricordare perché ha un formato più sintetico, esemplare e paradigmatico, insieme ad una forza che, al netto di possibili interventi manipolatori o di soggettiva interpretazione dell’autore, rimane probatoria.
Di fronte a certe immagini, soprattutto di dolore e sofferenza, è giocoforza provare emozioni, anche contraddittorie, partecipare, sentire il pungolo della coscienza, sentirsi spinti ad agire. Ma cosa succede una volta che l’immagine è sottratta alla nostra vista? Anche l’emozione provata o il messaggio raccolto vengono velocemente chiusi in un angolo del nostro cervello? Susan Sontag, in un lucidissimo saggio del 2003 Davanti al dolore degli altri, analizza i processi di apprendimento, mistificazione, spettacolarizzazione, retorica e fascino del male della fotografia di guerra che ci bombarda tramite i mass-media e conclude dicendo che in fondo noi ricordiamo solo le immagini, non ricordiamo attraverso le immagini, il messaggio sbiadisce e perde mordente e noi finiamo per rimanere irrimediabilmente lontani dal dolore degli altri.
Certo la fotografia, così come tante espressioni dell’arte contemporanea, è chiamata a vivere il suo tempo e ad agire nella realtà, toccare temi civili, entrare in dialogo con i cittadini, prefigurare scenari di trasformazione sociale: come arte del progetto, aiutarci a rappresentare le complessità del nostro tempo e a progettare un mondo migliore.
Gabriella Guerci, Direttore di Produzione del Museo di Fotografia Contemporanea
Il testo è stato pubblicato: G. Guerci, Il Museo di Fotografia Contemporanea per Lampedusa, in Verso il Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo. Lampedusa, catalogo della mostra (Museo archeologico delle Pelagie, 3 giugno-3 ottobre 2016), a cura di Eike D. Schmidt e Moncef Ben Moussa, Palermo, Pendragon, 2016.
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Ph: Claude-Nori, Capri 1983, Fondo-Viaggio-in-Italia @MuFoCo