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Flessibilità, capacità gestionali, coraggio e rigore. Ecco ciò che si richiede al professionista della cultura

  • Pubblicato il: 12/10/2012 - 12:02
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Cecilia Conti

Lecce. Durante le giornate di ArtLab si è parlato diffusamente del tema della formazione e delle professioni culturali. Quale è a vostro parere la situazione attuale? L'offerta formativa è in grado di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro del sistema culturale?
«Il tema della formazione nell’ambito del management culturale è ed è sempre stato centrale. Non a caso lo stesso convegno ArtLab, fino a qualche edizione fa, si chiamava “management culturale e formazione”, titolo passato poi in sordina. Molte delle esperienze presenti a questa edizione hanno dimostrato come una delle principali risposte alla crisi sia stata proprio la ricerca di una nuova forma organizzativa, sia in termini di assetto giuridico (con la creazione di realtà for profit accanto alla tradizionale forma associativa) che di soluzioni gestionali (modificando ruoli e funzioni, introducendo nuovi sistemi di reporting, direzione e controllo). Tutto ciò ha portato a nuove esigenze in termini di competenze, ponendo importanti sfide all’offerta formativa. Se già il delicato equilibrio tra competenze gestionali e culturali era un obiettivo difficile, la criticità del momento e la rapidità del cambiamento richiedono ora ai percorsi formativi rivolti ai professionisti della cultura un rigore ed una flessibilità ancora maggiori.
Questo ruolo centrale e delicato della formazione si scontra però con due problematiche. Da un lato le rigidità del sistema universitario, che aldilà delle recenti riforme anche in termini di autonomia dei dipartimenti continua a doversi confrontare con i vincoli economici e burocratici tipici dell’amministrazione pubblica (con tutto ciò che ne consegue, per esempio, in termini di possibilità di coinvolgimento di personale docente esterno). Dall’altro, questione a nostro avviso ben più grave, l’esistenza di un mercato della formazione extra-universitario mal regolamentato e poco trasparente, se non addirittura ingannevole sia nei confronti dei propri utenti, che del mercato del lavoro. Molto si è fatto negli ultimi 10 anni, e attualmente l’offerta in Italia dispone di alcuni percorsi formativi, sia universitari che non, di indubbio valore. Ma tanto resta ancora da fare. Un primo importante passo in questo senso, per tornare dalle pratiche alle politiche, dovrebbe essere quello di censire in maniera efficace l’attuale offerta formativa (con adeguati elementi di valutazione anche qualitativa) e regolamentare in maniera più chiara l’uso dei titoli formativi. Vi è infine anche un tema importante di formazione post esperienza e continua, quella cioè destinata alla ridefinizione delle competenze dei vari professionisti della cultura e non solo come aggiornamento, su cui si gioca molto della capacità di affrontare cambiamenti e criticità attuali e future. »
Si è anche parlato di dilettantismo progettuale e gestionale, di scarsa professionalità e capacità manageriale. Da qui il dibattito si è concentrato non solo sul tema della scarsità di fondi, quanto, prima di tutto, sulla capacità di gestirli.  Cosa ne pensate?
«Anche questo non è un tema nuovo. L’incapacità gestionale e la scarsa professionalità manageriale presente in molte organizzazioni culturali è cosa nota e discussa. Si pensi solo – per portare un esempio estremo - al numero di istituzioni pubbliche operanti nell’ambito culturale che sono state commissariate nel corso degli ultimi 20 anni (almeno 25 soggetti, inclusi Cinecittà SpA, le Fondazioni liriche Arena di Verona, Carlo Felice di Genova e San Carlo di Napoli, la soprintendenza di Roma e Ostia, gli Uffizi, Brera, per finire con il recentissimo commissariamento del MAXXI). Per non parlare dell’incapacità di spesa di molte di queste istituzioni, in primis la soprintendenza «autonoma» di Pompei.
Paradossalmente, a nostro parere, le realtà in cui si trova maggiore capacità gestionale, se non addirittura «imprenditoriale» (nel senso di saper cogliere le opportunità dell’ambiente, investire in un’impresa rischiosa passioni, tempo ed energia, e dimostrare di saper organizzare persone e risorse verso un obiettivo) sono proprio le piccole organizzazioni di nuova generazione. Quelle che affrontano le maggiori difficoltà in questo momento di crisi, ma che, grazie ad una maggiore duttilità e ad un certo coraggio, sono anche in grado di sviluppare e sperimentare sia nuove forme e competenze gestionali, sia nuove piattaforme progettuali. Così come la realtà delle piccole biblioteche comunali, che in molti casi sono delle vere e proprie agorà culturali del territorio. Da queste esperienze bisognerebbe sicuramente imparare, nonché permettere una maggiore permeabilità delle «grandi» istituzioni in termini di professionalità e competenze.
C’è poi un enorme problema di accountability e controllo della spesa nel comparto culturale nel suo complesso, a partire dal FUS per finire con le nuove iniziative di crowdfunding, che resta ancora grandemente irrisolto e che non ci stancheremo mai di sottolineare.»
Oggi il settore culturale deve più che mai dare contenuti a parole continuamente evocate, come partecipazione e sostenibilità. Quali connessioni auspicate tra ricerca e pratica, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra pubblico, privato e cittadini, il recupero del concetto di bene culturale come bene comune e il giusto modello gestionale?
«I due concetti, partecipazione e sostenibilità, che tra l'altro vanno a braccetto, rappresentano il bisogno forte di riaffermare il valore sociale dei diritti culturali della collettività e la necessità di una legittimazione della cultura stessa che va oltre il riconoscimento istituzionale. Entrambi insistono sulla possibilità di costruire condizioni e relazioni utili per la produzione e il consumo culturale, restituendo centralità all'etica e alle risorse di fiducia, di cui oggi sembra aver perso traccia, sovvertendo inoltre quelle modalità settoriali di funzionamento e finanziarie che la crisi ha messo in discussione. Ma intanto questo comporta l'assunzione di responsabilità, senza ipocrisie o reticenze, e richiede serietà e un pensiero lungo, a partire dal fatto che la cultura torni nell'agenda delle priorità del Paese in ragione delle sue valenze e potenzialità. Occorre smettere di demonizzare il settore privato, senza però enfatizzarne impropriamente un ruolo salvifico. Ciascuno deve fare la propria parte ed è nell'equilibrio degli apporti e delle funzioni che possono svilupparsi situazioni virtuose per il mondo della cultura.
A nostro avviso i modelli gestionali sono strumenti sartoriali che vestono la visione, lo stadio di vita, l'identità, i mercati di riferimento, le scelte di un'organizzazione culturale. Non esiste una soluzione ideale, una panacea a tutti i dolori del settore culturale, ma tanti possibili modelli e compromessi che devono essere trovati e sperimenti a seconda delle specifiche esigenze artistiche ed operative.  Torna, invece, l'importanza della dimensione progettuale come punto d'incontro e di sintesi, capacità di creare e ricombinare. Così come la totale flessibilità che può derivare, ad esempio, dalla cooperazione anche con realtà concorrenti, da partnership mobili, informali, situazionali, dalla condivisione di competenze, da un'ottica aperta di sistema che facilita la permeabilità, l'intreccio di realtà ed esperienze, la distribuzione d'intelligenze. Obbligatorio è però dismettere l'autoreferenzialità e avere una visione allargata ad ogni possibilità. »

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