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Cosa ci portiamo a casa da Expo

  • Pubblicato il: 26/10/2015 - 17:27
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Pier Luigi Sacco

L’esperienza Expo giunge al termine e noi condividiamo l’opinione di Pier Luigi Sacco che invita ad abbandonare i trionfalismi così come le retoriche per chiedersi, se si ha realmente a cuore il futuro del Paese, cosa sia realmente accaduto
 

 
Ora che Expo volge al termine, può essere il momento di abbozzare una prima riflessione. Il livello del dibattito pubblico su questo tema è fortemente condizionato dalla logica da talk-show ormai prevalente nel nostro Paese, che porta le persone a schierarsi emotivamente e partigianamente per una posizione stereotipata o per un'altra senza preoccuparsi di conoscere i fatti e senza farsi domande su come interpretarli in modo sensato.
Personalmente, tra coloro che preferiscono il ragionamento al partito preso credo che siano in pochi quelli che si augurano che l'Expo non raggiunga/non abbia raggiunto i risultati che si prefiggeva: sarebbe un atteggiamento autolesionistico e insensato. Ma se davvero si ha a cuore il futuro del nostro Paese credo che l'atteggiamento più responsabile non sia quello di un trionfalismo incondizionato, che di fatto rimuove la realtà e la sostituisce con la retorica negando qualunque possibilità di imparare davvero dall'esperienza, ma chiedersi piuttosto cosa sia accaduto, e metterlo in relazione con ciò che sarebbe potuto accadere in scenari differenti.
C'è un primo elemento innegabile: il grande afflusso di visitatori degli ultimi mesi ha contribuito a ribaltare, anche nei media internazionali, il sentimento inizialmente negativo che si concentrava sulle inefficienze e sugli scandali, producendo invece un'attenzione positiva su Milano e sull'agroalimentare italiano, per quanto temporanea e destinata a scemare se non opportunamente rinforzata con un'azione a lungo termine fondata su una visione strategica chiara. Questo porta molti ad esprimersi in toni trionfalistici e a decretare che l'Expo sia stato un grande successo. Ma in realtà una valutazione equilibrata dell'Expo non dovrebbe tenere conto soltanto degli esiti, ma anche dei costi opportunità. Se un mega-evento come l'Expo, che ha comportato un investimento di risorse largamente superiore al miliardo di euro (e la cui esatta entità è ancora abbastanza nebulosa) non producesse come minimo un ritorno di attenzione positiva e un vantaggio promozionale per chi lo organizza, sarebbe, senza giri di parole, una catastrofe. E in questo senso, il grande sforzo che è stato fatto negli ultimi mesi per far sì che almeno questo accadesse è stato utile e importante, ha impedito che appunto di catastrofe si dovesse parlare, e va salutato con soddisfazione per chi ha a cuore l'interesse pubblico.
Ma il concetto chiave per valutare l'effettivo impatto di un evento è come si è detto quello di costo opportunità: non basta verificare che qualcosa di buono sia accaduto, ma bisogna chiedersi anche quali altri risultati si sarebbero potuti ottenere con il migliore impiego alternativo delle stesse risorse. Ed è qui che emergono dubbi importanti: con un investimento di queste dimensioni si sarebbe potuto (e dovuto) ottenere un effetto molto più rilevante di un po' di promozione per il nostro agroalimentare, di un miglioramento dell'immagine della città e di un numero accettabile di biglietti venduti ottenuto in extremis. I grandi obiettivi strategici di un mega-evento come l'Expo non possono essere solo promozionali, ma hanno a che fare con la pianificazione urbanistica a lungo termine della città (e qui i programmi erano inizialmente molto ambiziosi ma sono rimasti totalmente sulla carta), con la capacità di attrazione di investimenti internazionali significativi (e anche qui al momento il meglio che si possa dire è che un effetto positivo in tal senso è ancora tutto da dimostrare), con lo sviluppo di una piattaforma di diplomazia culturale (e anche qui mi sembra di poter dire che si sia andati poco al di là delle photo opportunities per i vip di turno), con la capacità di affrontare temi di vasto interesse internazionale (ad esempio, quanto alle tematiche, di sicura rilevanza globale, legate all'etica e alla sostenibilità dell'alimentazione che erano al centro del tema dell'Expo ancora una volta il meglio che si possa dire è che sono stati dati dei segnali contraddittori), con una legacy significativa quanto a destinazione d'uso dell'area, e a questo proposito si brancola ancora nel buio a pochi giorni dalla chiusura.
In un paese come il nostro, nel quale una fetta importante della popolazione è analfabeta di ritorno e nella quale una fetta altrettanto importante (e parzialmente sovrapposta) non sa nemmeno bene cosa sia internet, e in cui il vero medium di riferimento resta ancora, con tutto ciò che questo comporta, la televisione generalista, i criteri di successo sono ancora legati ai meccanismi tradizionali dell'audience, e quindi la fila di gente che si accalca all'entrata dell'Expo e dei padiglioni di maggior successo rappresenta per molti un'evidenza positiva incontestabile. Ma la realtà è appunto molto più complessa, e voler trasformare per forza questa vicenda in un successo malgrado i clamorosi errori di pianificazione e gli spaventosi ritardi di implementazione che hanno messo ancora una volta a repentaglio l'intero progetto (e il cui rimedio in extremis ha comportato costi ancora tutti da determinare) vuol dire creare le premesse perché questi errori si ripetano in futuro.
La questione non è soltanto ciò che avremmo potuto (dovuto) ottenere con un investimento così ingente in un momento in cui le risorse vengono tagliate in quasi tutti i settori. E' anche questione di evitare che, la prossima volta che ci sarà l'opportunità di ospitare un mega-evento (e si pensi al Giubileo che è alle porte) si debba riassistere allo stesso, solito carnevale di ritardi, incompetenza e approssimazione, "perché poi tanto alla fine si aggiusterà tutto come con l'Expo e perché noi italiani siamo fatti così, dobbiamo sempre arrivare all'ultimo momento con l'acqua alla gola". Ecco, se la vicenda dell'Expo avrà contribuito, sotto la sottile patina del trionfalismo di maniera, a legittimare ulteriormente questo atteggiamento di compiaciuto pressappochismo, che produce effetti socio-economici devastanti e che nelle sue molte varianti è alla radice di gran parte delle nostre difficoltà di competere a livello globale, si sarà prodotto un danno ben superiore a quello di non aver saputo utilizzare al meglio un gigantesco investimento come quello di Expo per rilanciare davvero il nostro paese al di là di una effimera spinta congiunturale.