Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

Contro l’asservimento

  • Pubblicato il: 14/04/2015 - 14:38
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

La street art da cultura underground e informale negli anni ’80 a vettore di rigenerazione urbana negli attuali programmi istituzionali di recupero delle periferie. In un dibattito crescente, in cui impera una retorica della bellezza, del decoro urbano, del rammendo, tra partecipazione e censura, tra riappropriazione ed esproprio, cosa resta dell’arte e della sua promessa di cambiamento?
 
 
 
Re-Writing Street Art
Se negli ultimi anni l’interesse e il dibattito verso l’arte nello spazio pubblico è crescente - nella sue molteplici declinazioni di arte partecipata, partecipativa, collaborativa, engagé e quant' altro - è la street art ad essere oggi alla ribalta.

Una forma di arte urbana che sta diventando virale, connotando gli ambienti di tutto il mondo, sviluppando una sottocultura vivace e partecipante. Difficile da definire, accoglie in sé molteplici sfumature: dal writing, ai murales, agli stencil, ai tag, alle installazioni temporanee ai flash mob.

Dal carattere amorfo e mutevole, sfuggente - molti artisti sono «senza identità» -  si ispira e si situa nello spazio urbano e soprattutto al suo margine, nelle zone al limite.
Nata come anti-capitalista e ribelle, considerata da alcuni un fastidio, da altri uno strumento per comunicare opinioni di dissenso, per innescare interrogativi, oggi la street art sembra però perdere il suo carattere informale e rivoluzionario - underground - per entrare in programmi istituzionali di rigenerazione urbana, promossa da amministrazioni, ma anche da istituzioni culturali, all'insegna dell'innovazione, diventando spesso innocuamente e pacatamente rassicurante.

Da strumento narrativo di una contro cultura in fermento ed espressione di un conflitto, generazionale e sociale, a strumento di abbellimento e decoro, di riqualificazione, finalizzato alla mitigazione delle lacerazioni e incontrando spesso retoriche legate alla bellezza e al beneficio sociale.
 
Ma è proprio tutto così lineare?

San Basilio: borgata del fascismo e della resistenza
Anche Roma cede al fascino della street art (cfr. articolo Francesca Sereno ne Il Giornale delle Fondazioni, aprile 2015) soprattutto in quelle «terre al limite, al confine, al margine» verso le quali il fascismo dirottò gli abitanti delle zone sventrate del centro per compiere quel grande progetto – per lo più incompiuto per giunta   che si proponeva di trasformare la città, attraverso tutta una serie di demolizioni del vecchio centro, in una quinta che facesse da sfondo ai monumenti celebrativi del regime.

Sradicati dal loro habitat, gli abitanti delle zone sventrate – artigiani per lo più – andarono ad abitare quegli insediamenti urbanistici di edilizia popolare costruiti tra gli anni 20’ e 30’ e che furono chiamati borgate. Borgate ufficiali alle quali si somma una miriade di poli spontanei, non regolamentati, abusivi e auto-costruiti che però caratterizzano la specificità delle nostre città, fatte di superfetazioni, di ibridazioni, contaminazioni naturali, il cui fermento e la natura polisemica non sono rappresentati dalla cartografia di un piano urbanistico. Il mondo è piatto e schiaccia i poveri, scriveva Franco Farinelli sull’Unità di qualche anno fa (19 agosto 2006).
Borgate a cui Pier Paolo Pasolini conferì quella dignità letteraria che scandalizzò intellettuali benpensanti che non osavano rapportarsi con la parte più «bassa» e «disonorevole» della società.
Oggi – come ben schematizza Francesca Sereno su questo numero molte di quelle borgate accolgono i colori e i linguaggi dell’arte attraverso programmi di quella che, seguendo il mantra del momento, viene denominata «rigenerazione urbana». Progetti top down promossi da pubbliche amministrazioni ma anche bottom up, attivati da associazioni culturali, da gruppi curatoriali o gallerie, dalla cittadinanza stessa.

Tra queste San Basilio rappresenta un caso singolare e che merita – secondo chi scrive – attenzione, nel far emergere interessanti sfaccettature che portano a riflettere sull’arte e sullo spazio pubblico, oltre le ideologie e le demagogie.
Sintetizzando, sperando di non banalizzare ma con la volontà di esemplificare.
Qui un progetto finanziato anche da Fondazione Roma nell'edizione del 2014, curato da Simone Pallotta per Walls, nato in collaborazione con l’amministrazione del Municipio IV, ha visto il coinvolgimento – attraverso progetti educativi, didattici, culturali delle scuole, della cittadinanza, insieme a «muralisti» di fama internazionale per realizzare opere monumentali sulle facciate di alcuni palazzi del quartiere. Tutto questo, seguendo un impeccabile processo di partecipazione e inclusione, è «SAMBA», all'interno del quale la street art è solo una parte.

In un apparente generale entusiasmo, noti Street Artist – da Agostino Iacurci a Liqen, a Hitnes – sono intervenuti mutando il volto del quartiere che è diventato mèta di visite guidate, luogo per attività laboratoriali, «facendo dell’arte e della creatività uno strumento di accrescimento culturale, portando delle novità e, con una costruzione di senso che tende a produrre un progetto unitario, mirando a creare anche economie», afferma il curatore in un’intervista per RAI.
 
Ma San Basilio inserita nelle statiche categorie – di periferia e degrado  che imperano nelle politiche pubbliche, tanto urbane quanto culturali, è luogo di profonde contraddizioni, di inconciliabilità, di resistenza. Una resistenza che si manifesta anche nella difesa di un diritto primario che è quello all’abitare.

Simbolo di questa lotta è Fabrizio Ceruso, ucciso dalla polizia nel 1974 durante gli scontri in via Monte Carotto, mentre una barricata popolare si opponeva allo sgombero delle case occupate.
Oggi quell’episodio viene ricordato da un murales di Blu, realizzato nell’ambito del progetto «San Basilio, storie de Roma», nato dalla volontà di alcuni giovani e realtà del territorio di riscoprire, attraverso la ricerca storica, il cuore popolare della borgata romana.

Ma quando l’arte sfugge, quando dissente, quando non si limita ad essere decoro urbano come molti vorrebbero, succede che il dipinto murale viene censurato e cancellato in parte.
A molti – e tra questi anche molti cittadini, oltre alla pubblica amministrazione che si è subito mobilitata e ne ha ordinato la censura – non andava proprio giù che ai piedi di un maestoso San Basilio, che rompe simbolicamente un lucchetto, ci fossero poliziotti dalle fattezze ovine e suine, di chiaro richiamo orwelliano.
Poco male, immediatamente l’opera è stata corretta, «ripulita» nella parte inferiore e presidiata da una volante della polizia. Non si sa mai.

 
Retake
L’esperienza di Blu e di San Basilio, la pulizia e il decoro, rimandano anche ad alcune pratiche della società civile che si fanno sempre più frequenti, in Capitale e non solo.
Tra queste, Retake Roma, un movimento no profit che mira a ripulire Roma dal vandalismo di scritte sui muri, adesivi e sporcizia che devastano la città eterna. «Mentre alcuni graffiti, se effettuati con l’autorizzazione del proprietario del relativo spazio, possono essere ritenuti vere e proprie forme di arte, invece degradare edifici privati o spazi pubblici attraverso tag o disegni è puro vandalismo e come tale punibile legalmente. Retake Roma organizza eventi di ‘clean up’ nei diversi quartieri della capitale, in cui gli stessi cittadini contribuiscono attivamente al decoro dello spazio dove vivono. Parallelamente promuove convenzioni tra giovani artisti e soggetti privati (proprietari di esercizi commerciali, condomini…) per la realizzazione di murales autorizzati», questa in sintesi la loro mission.

Se da un lato, questa cittadinanza così attiva e partecipante, quasi legislatrice, parrebbe essere la soluzione «and they lived happily ever after» (e vissero tutti felici e contenti), un senso di disagio mi fa fortemente diffidare di questa risolutezza «giustiziera», della negazione del conflitto e «dell’ombra», che pure è parte della realtà, che contrappone al degrado – di scritte sui muri e accampamenti abusivi – una pulizia, una bonifica.
Ricorda la domestica di Banksy, sui muri di Londra, che nasconde la polvere sotto il tappeto.


 
Street Art e Gentrificazione
A proposito di Banksy.
«My brother and me were born here and have lived here all our lives, but these days so many yuppies and students are moving here that neither of us can afford to buy a house where we grew up anymore. Your graffities are undoubtably part of what makes these [people] think our area is cool. You’re obviously not from around here, and after you’ve driven up the house prices you’ll just move on. Do us a favor and go do your stuff somewhere else[1]».
E’ un estratto della lettera che Banksy - tra i più noti e amati street artist al mondo - ha ricevuto da un residente di un quartiere in cui ha lavorato.

Tra i nodi irrisolti della street art (e dell’arte pubblica in generale) vi è infatti quel processo di gentrificazione che accompagna spesso l’intervento di artisti in zone solitamente considerate marginali e soprattutto le grandi operazioni di rigenerazione urbana, che non serbano un posto per gli oppressi, gli esclusi, per coloro che – dopo la bonifica – non possono più permettersi di abitare un quartiere che – rimesso a nuovo – viene consegnato nelle mani di una speculazione edilizia che si appropria del potenziale trasformativo dell’arte, strumentalizzandolo e inglobandolo nel mercato.

Se le discipline (l’arte e l’urbanistica in questo caso) – ancorate a sé stesse per difendere l’ortodossia di campi separati – stentano a guardarsi e a riconoscersi come soggetti epistemici compenetranti – dove lo scambio di conoscenza è scambio di potere (conoscitivo, s’intende) – il capitale ci vede benissimo e, ancora una volta, arriva prima della consapevolezza, prima del ri-conoscimento di come l’arte nei territori – con i suoi linguaggi sensibili – più che rigenerare sia – come evoca la poesia di Mariangela Gualtieri – un invito a coltivarsi, a riconoscere le proprie vocazioni per costruire nuove (non scritte) narrazioni e rappresentazioni della realtà.

 
Cambiamento Vs trasformazione
Sebbene la trattazione del tema riscontra qui un certo grado di approssimazione, ciò che preme sottolineare è come la retorica della bellezza, della rigenerazione, del rammendo delle periferie, del miglioramento, del cambiamento cela non poche contraddizioni. Scomode ma da considerare.

Ieri borgate, oggi periferie, è ancora Pasolini a saperne cogliere l’essenza, sempre attuale.
«In realtà, il mondo non migliora mai. L'idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse (includo in questa classificazione anche i comunisti quando parlano di “speranza”). Dunque, uno dei modi per essere utili al mondo è dire chiaro e tondo che il mondo non migliorerà mai, e che i suoi miglioramenti sono metastorici, avvengono nel momento in cui qualcuno afferma una cosa reale o compie un atto di coraggio intellettuale o civile. Solo una somma (impossibile) di tali parole o tali atti effettuerebbe un miglioramento concreto del mondo. E sarebbe il paradiso e la morte.
Il mondo può peggiorare, invece, questo sì. E per questo che bisogna lottare continuamente».
(Pier Paolo Pasolini, Quasi un testamento, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit., già in “Gente”, 17 novembre 1975).
 
E se il mondo non cambia spesso, ciò che possiamo fare però è trasformare – nell’accezione Batesoniana di codificare – la percezione che abbiamo di esso, creando connessioni, nuovi significati, ribaltando il senso. E qui l’arte – quando eccede – e le razionalità sensibili giocano un ruolo fondamentale, potenziale.
 
 
Essere in potenza
L’urbano muta e nella sua fluidità il periferico è uno stato d’animo prima che una ubicazione spaziale.
E se la città, nella sua complessità e precarietà, è il caleidoscopio attraverso cui guardare alle realtà, abbiamo sempre più bisogno di sperimentare nuove forme di narrazione e rappresentazione, nuove visioni.
 
L'arte da Lascaux ci precede, ha attraversato territori passando per castelli, corti papali, palazzi signorili, ville private, gallerie e musei, per uscire fuori di sé e tornare ad abitare lo spazio pubblico, oscillando sempre tra autonomia ed eteronomia, tra libertà e responsabilità, talvolta sfuggendo a facili stereotipi e categorizzazioni, talvolta facendosi strumentalizzare da esse, ma sempre evocando un potenziale, un'eccedenza, una «promessa» di cambiamento, un essere in potenza capace di generare - o rifiutare - immaginari.
 
«Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell'uomo. […] la scelta estetica è una faccenda strettamente individuale e l’esperienza estetica è sempre un’esperienza privata. Ogni nuova realtà estetica rende ancora più privata l’esperienza individuale; e questo tipo di privatezza, che assume a volte la forma del gusto (letterario o d’altro genere), può già di per sé costituire, se non una garanzia, almeno un mezzo di difesa contro l’asservimento». (Josif Brodskij[2] nel discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Nobel nel 1987).
 
 
© Riproduzione riservata
 

 
[1] Mio fratello e io siamo nati e vissuti qui per tutta la vita, ma oggi tanti yuppies e studenti transitano, tanto che nessuno di noi può permettersi di comprare più una casa qui, dove siamo cresciuti. I tuoi graffiti sono indubbiamente parte di ciò che fa pensare a queste persone che la nostra zona è cool. Tu non sei di queste parti, e dopo aver fatto lievitare i prezzi delle case, ti basta andare via. Facci un favore, va a fare le tue cose da qualche altra parte. (Trad. mia, non letterale).
[2] I. Brodskij, Dall’esilio, Milano 1988, pp. 42-62