Co-innoviamo tutto! Sharing economy e nuove pratiche sociali
Sharing economy, crowdfunding, crowdsourcing, coworking, start-up; ma anche collaborazione e condivisione; e, ancora, welfare innovativo o nuovo mutualismo. A quale modello di Stato facciamo riferimento quando immaginiamo queste pratiche? Quali relazioni tra cittadini e istituzioni? Quali reciproci diritti e doveri?
Una serie di parole costella riflessioni e interventi sui social network, su blog e periodici on line e, sempre più spesso, anche su testate giornalistiche tradizionali e programmi di amministrazioni locali e non.
Sharing economy, crowdfunding, crowdsourcing, coworking, start-up; ma anche collaborazione e condivisione; e, ancora, welfare innovativo o nuovo mutualismo. Una serie di termini che, sostanzialmente, vengono racchiusi anche sotto la definizione ombrello di “innovazione sociale” o “innovazione culturale” a seconda degli ambiti in cui si concentrano. Due definizioni, queste ultime, ancora incerte, evanescenti, non esattamente condivise tra tutti gli attori. Ciò nonostante il “rumore” intorno a questi fenomeni è forte, l’interesse sembra diffuso e i temi e le pratiche che ciascuno di questi termini racchiude vengono presentati come la chiave di volta per un’economia più sostenibile, condivisa e capace di coniugare le esigenze della collettività e del sociale.
Complessivamente, benché non tutti i termini siano effettivamente interrelati tra loro, quando li si utilizza si richiamano due o tre ambiti di interesse: uno relativo a nuove forme di economia, di lavoro, di impresa o di finanziamento di progetti; uno alle nuove forme di coinvolgimento dei cittadini nelle politiche delle amministrazioni e nella gestione dei beni comuni; e uno, infine, legato alle nuove forme di welfare e di mutualismo “innovativo” parallele a quelle pubbliche.
In generale coloro che, a diverso titolo si occupano del tema – studiosi, promotori, sperimentatori – mostrano grande entusiasmo e una tendenza all’enfatizzazione positiva di queste esperienze e alla portata di cambiamento che dovrebbero determinare.
Quelle che vengono messe in luce sono le ricadute positive in termini di coesione sociale, di politiche di attivazione della cittadinanza e di inclusione; di nuovo protagonismo dei singoli e dei cittadini di potenziale rinnovamento delle istituzioni e delle pratiche di governance; così come di nuove forme di economia – che si immagina più equa, più sociale, meno basata sul possesso e più sulla condivisione; e, infine, capace di sperimentazioni di forme di welfare innovativo o di mutualismo solidale.
È possibile che queste pratiche e questi strumenti offrano nuove modalità di interazione in diversi ambiti e soluzioni innovative e che alcuni aspetti possano essere considerati positivi tout court. Ma di fronte a una potenza narrativa (o storytelling, per usare un termine oggi di gran moda) così intensa e ai toni fortemente retorici che accompagnano ciascun intervento intorno a questo tema si fa forte il desiderio di andare a guardare da vicino, di individuare le caratteristiche dei diversi strumenti, di esaminare – davvero – in cosa sono nuovi e in cosa lo sono molto meno.
Un’esigenza ancora più impellente nel considerare che tutti i termini in questione sono accomunati dal richiamare potentemente un universo semantico accettabile, desiderabile, buono, tanto buono da mettere in ombra le criticità che portano con sé e da indebolire l’esigenza di un’analisi articolata sulle ricadute effettive, sulle economie prodotte, sul rilievo sull’economia in generale; sulle eventuali criticità, in termini di erosione di diritti nell’ambito del lavoro o della cittadinanza.
Ci sono almeno tre ambiti su cui vale la pena di interrogarsi e di aprire una riflessione che sia analitica e onesta e che qui possiamo solo cominciare ad accennare.
Uno riguarda le implicazioni che la sharing economy – intesa nella sua accezione “commerciale”, ovvero sul modello di Uber e Airbnb per citare i casi più noti e rilevanti – ha sulle politiche del lavoro, sui diritti dei lavoratori e sulle norme fiscali. Ci si dovrebbe domandare se davvero valga la pena di includere queste esperienze tra gli esempi di condivisione; esplorare cosa portano davvero di “nuovo” e domandarsi se possiamo così apertamente trascurare alcuni effetti potentemente negativi che determinano e continuare a continuare a costruire una retorica positiva intorno a questi incuranti delle ambiguità e degli esiti.
Per “ambiguità” ed “esiti” mi riferisco a questioni che sono state già messe in luce da altri: il primo termine riguarda proprio la definizione, ovvero se abbia senso considerare “condivisione” l’affitto a pagamento di una stanza o di un passaggio in auto. C’è una abissale differenza tra affittare la stanza e offrire ospitalità – cose tra l’altro, entrambe, che si fanno da decenni e che si ri-connotano oggi perché potenziate da una piattaforma on line – ovvero c’è una differenza tra Airbnb e il couchsurfing e c’è differenza anche tra Uber e Blabla car. Mentre i secondi corrispondono sul serio a una nuova forma di condivisione i primi non solo non vi corrispondono ma provocano una quantità di problematiche in termini di sfruttamento del lavoro, di evasione delle tasse, di concorrenza con i soggetti del mercato tradizionale dei quali, che ci piaccia o meno, è necessario occuparsi.
Il secondo ambito è quello legato alle applicazioni della sharing economy nelle politiche pubbliche e, in particolare, nel coinvolgimento dei cittadini nella gestione dei beni comuni, nel finanziamento di opere e progetti pubblici tramite crowdfunding, ma anche nell’ambito del mutualismo e del welfare. Si tratta di ambiti in cui la sperimentazione è ancora più embrionale e le analisi critiche ancora sostanzialmente assenti. Ma una riflessione sugli impatti di queste pratiche nell’ambito della cittadinanza e dei diritti e su come di conseguenza muta – anche a livello di premesse teoriche – la relazione tra istituzioni e cittadini in termini di diritti e doveri mi pare necessaria. Basti pensare all’opportunità di definire a che condizioni è accettabile chiedere ai cittadini di finanziare con una donazione il restauro di un bene pubblico o il finanziamento di una politica sociale; di interrogarsi su quali conseguenze ha sul mercato del lavoro una progressiva sostituzione di lavoro pagato con lavoro volontario nella manutenzione e nella gestione dei beni comuni. Non solo, più in generale: a quale modello di Stato facciamo riferimento quando immaginiamo queste pratiche? Quali relazioni tra cittadini e istituzioni? Quali reciproci diritti e doveri?
A me pare, infatti, che tutte queste pratiche – e anche il coinvolgimento attivo dei cittadini pensato in questi termini – suggeriscano più una progressiva sostituzione delle istituzioni con interventi volontari. Un tempo la mobilitazione spontanea di cittadini faceva da pungolo alle istituzioni per introdurre e universalizzare nuovi diritti e forme di welfare. Oggi si sostituisce con un intervento di individui che sollevano le istituzioni da compiti che prima avevano.
Questi primi due punti suggeriscono a mio parere l’esigenza, da un canto, di separare pratiche più propriamente commerciali da quelle completamente volontarie e dall’altro di chiarirsi scopi e termini delle pratiche collaborative per evitare effetti secondari non solo non desiderati ma, addirittura, antitetici a quelli dichiarati.
È innegabile, infine, che i riferimenti all’innovazione siano ricorrenti dentro le strategie europee e a cascata dentro le strategie di tutte le istituzioni nazionali, delle fondazioni e delle associazioni di categoria più dinamiche; ma quanto spazio reale hanno questi obiettivi in termini di “investimento” reale di risorse e di politiche dedicate?
L’austerità, la crisi economica, la distribuzione sempre più diseguale dei redditi e delle ricchezze, le politiche monetarie e finanziarie sono argomenti che nel campo degli innovatori, nel migliore dei casi, vengono considerati dati indiscutibili.
A questi temi ci si riferisce – al meglio – solo nelle premesse proponendo strumenti “collaborativi” per mettere le toppe ai danni provocati dalle politiche economiche e sociali vigenti. A questi temi l’innovazione si lega solo come strumento non conflittuale volto a sperimentare alternative di impresa o economiche e soluzioni nuove a politiche pubbliche e di welfare fortemente sotto finanziate.
Piuttosto che ridiscutere le premesse politico-economiche, queste pratiche suggeriscono, infatti, di intervenire con soluzioni collaterali volte a sperimentare imprese dai connotati più equi; strumenti per il coinvolgimento dei cittadini per coprire le necessità che le amministrazioni a causa dei tagli non possono più offrire; forme di welfare innovativo e mutualismo da affiancare a quello statale ormai in affanno.
Così facendo, però gli innovatori non solo si rintuzzano in un angolino un sempre più inutile Stato – che dovrebbe rimandare, questo sì, ad una dimensione collettiva, collaborativa e universalistica – ma rischiano anche di costringersi in una dimensione residuale nella quale sperimentare le proprie pratiche. Infatti, mentre questi innovano, le politiche mainstream vanno avanti per la loro strada e gli innovatori finiscono addirittura per contribuire al solido mantenimento in vita del “pensiero unico” mediante la produzione di retoriche che non lo scalfiscono mentre, al contempo, li illudono di star immaginando “mondi”.
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