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Arte al confine

  • Pubblicato il: 17/05/2016 - 19:25
Autore/i: 
Rubrica: 
LA PAROLA AGLI ARTISTI
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

Negli stravolgimenti geopolitici di un mondo alla deriva, in cui – anche nei cosiddetti Paesi emergenti (e viene da domandarsi rispetto a chi e che cosa) – vengono violati i diritti umani basilari, l’arte non può restare a guardare. «Esserci» vuol dire «resistere» e la giovane artista Fatma Bucak, nell’esplorare confini, conflitti e poteri, denuncia e ci offre - invitandoci a guardare attraverso un’estetica intrisa di poesia e sacralità - le urgenze del presente. Un invito a cui non è possibile sottrarsi

 
 
 16 maggio 2016, Istanbul/Roma

La performance rimane la modalità espressiva da te prediletta. Perché? Cosa ti dà e cosa restituisce al pubblico?
Lavoro spesso attraverso il video, la fotografia e ultimamente anche attraverso il suono ma la performance rimane il linguaggio più usato nei miei lavori. La mia ricerca si fonda sul rapporto con la società e con le persone della società, tanto che il rapporto tra me e il pubblico è l’elemento che più mi spinge a riflettere su questa forma espressiva. Le mie performance sono spesso partecipate e radicate negli ambienti in cui lavoro per un dialogo più ampio con il contesto. Per quanto la camera registri, tutto succede solo in un momento e non si ripete. E questo rende tutto più reale, più umano.
Ansia, paure, riverenza e molto altro accompagnano la realizzazione del lavoro che accade in quel momento, davanti o insieme al pubblico. E’ anche l’occasione per evocare gli stessi sentimenti nel pubblico che mi guarda, mi giustifica o mi giudica. E’ un rapporto reciproco, un momento in cui tutte le parti si chiedono: «che aspetto ha oggi il presente dal mio punto di vista?».
A volte il pubblico non rimane dietro la camera, è parte della performance e questo permette di «spostare» i ruoli, da spettatore a performer.
Il lavoro documenta un presente che diventa passato nel momento in cui succede. Riflette sulla realtà da due punti di vista: quello del pubblico e del performer. E’ un luogo in cui creiamo il nostro ordine attraverso uno sforzo di riflessione, rivalutazione del presente e il pubblico è parte di tutto questo processo e presente quanto l’artista.
 
 
 
Il tuo campo d’indagine sono i grandi mutamenti geopolitici del mediterraneo. Raccontaci le tue ultime ricerche
Il mio lavoro si concentra sulla fluidità dell’identità, sul trasferimento e lo sfasamento culturale, sulle politiche di genere, le condizioni concettuali e ideologiche dei confini. Ultimamente affronto questioni come il trauma collettivo in paesi in cui i «confini» sono causati spesso dal trambusto politico.
Le mie opere nascono da un’urgenza, da domande che non è possibile non porsi.
Una delle mie ultime ricerche guarda agli «scomparsi», persone legate alle vicende politiche e misteriosamente sparite. Sto cominciando dal Kurdistan e dalla Turchia, a partire dagli anni ‘80. E’ la necessità di prestare attenzione alle «ombre della memoria».
Un lavoro difficile, a volte impossibile, a causa della repressione dei governi, come in Turchia.
Le politiche sull’immigrazione poi sono uno dei temi più urgenti che oggi sta causando molte vittime, spargendo paura tra le persone costrette a lasciare la propria casa - a causa della guerra, della povertà - ma anche nei Paesi che dovrebbero accoglierle, a causa di questa pseudo politica della sicurezza, che restituisce una visione distorta della realtà.
 
Ho lavorato l’estate scorsa sul confine tra il Texas e il Mexico concentrandomi sui migranti messicani e collaborando con dei rifugiati per la realizzazione di alcune performance, tracciando il loro faticoso cammino per attraversare il confine.
Nello specifico, ora sto lavorando a un video che rappresenta la prima barca arrivata in Dikili, in Turchia, riportando più di cento rifugiati dalla Grecia, a ridosso dell’accordo sui rifugiati tra la Turchia e Unione Europea. Alcuni di questi lavori saranno parte della mia nuova personale a Lausanne. Sono stata invitata da Para Site Hong Kong e il prossimo anno, per il loro programma di residenza, vorrei approfondire il periodo post-coloniale e il rapporto tra donna e immigrazione.
 
 
 
Ricorrenti sono le «contaminazioni» tra diverse forme espressive. Come vedi l’ibridazione invece tra discipline differenti e campi separate che attraverso l’arte possono essere messi in comunicazione?
L’incontro tra diversi campi può proporre nuovi modelli per una ricerca sul rapporto tra arte e società. Un confronto dialettico tra discipline differenti fornisce diverse letture e  ci allontana, quindi, anche dal definire l’arte come campo di sperimentazione di un’«altra» società rispetto a quella viviamo.
 
 
 
Quanto l’arte deve essere politica? E quanto può essere «critica» e produrre pensiero critico pur non trattando esplicitamente contenuti politici?
E’ una domanda ricorrente, probabilmente perché legata al fermento politico di oggi, alle guerre che si espandono avvicinandosi sempre di più, alla crisi, all’immigrazione… una lista che potrebbe allungarsi all’infinito.
L’arte e l’artista fanno parte di un tempo e di una società. Essere sensibile a quello che ci circonda è parte dell’uomo. Ci nutriamo dalla società e del tempo legato alla nostra esistenza. Quanto l’arte deve essere politica? E quanto può essere critica?
L’artista, come creativo e attraverso il proprio lavoro, dice sempre qualcosa sull’uomo e le circostanze entro cui opera sono naturalmente presenti nella ricerca che compie. Non è possibile esistere e creare chiudendosi a ciò che ci circonda. L’artista resiste anche attraverso il proprio lavoro e questo può diventare una forma di attivismo.
L’arte è politica perché fa parte dell’uomo e l’uomo non può non essere parte di un mondo che si sostiene attraverso la politica. Questo non vuol dire che l’arte deve contenere esplicitamente elementi politici. Non solo la presenza di questi elementi non è sufficiente a descrivere l’arte come politica, ma il messaggio politico di un’opera non deve essere sempre evidente.
Leggevo un libro l’altro giorno che poneva l’accento su Guernica di Picasso, come manifesto antifascista. Penso che quest’opera, una della più citate nella storia dell’arte, sia l’esempio di una critica sottile, un’opera sulla libertà e la democrazia. 
Poi ci sono altri lavori più espliciti e diretti, che agiscono direttamente sulla società e le sue politiche. Penso a Tania Bruguera, in campo per campagne di solidarietà e a sostegno di cause politiche.
 
L’arte è uno strumento per attivare un pensiero critico nella società, dando forma a una resistenza contro le politiche basate sulla gerarchia e sulle guerre.
Se l’arte non avesse questa forza non avremmo visto l’arresto di artisti, la censura dei loro lavori e la chiusura di istituzioni d’arte in diversi paesi perché ritenuti «pericolosi», come la chiusura di Townhouse al Cairo nel Dicembre 2015.
E’ palese che l’arte oggi riproduca temi politici con un’immediatezza maggiore rispetto a prima. L’arte può causare quel «disordine» poco voluto dai governi, e proprio per questa sua potenza occorre chiedersi con più forza come creare un rapporto ancora più robusto tra arte e società. Oggi più che mai.
 
 
 
Quale è il tuo rapporto con il pubblico? Spesso le persone entrano nei tuoi lavori e la realtà circostante è sempre presente. Quale ruolo svolgono?
I miei lavori sono spesso partecipativi e sono dialoghi radicati negli ambienti in cui mi situo. Attraverso il pubblico è possibile leggere alcuni radicamenti culturali che fanno parte della realtà che indago. Talvolta il pubblico diventa il soggetto della performance, è esaminatore e commentatore insieme. Il pubblico, che diventa il soggetto del lavoro, è anche una ricerca sul «come» rispondere a un’opera d’arte. Per cui sia davanti che dietro la camera, ha un ruolo essenziale.
 
 
 
L’arte, oscillando tra libertà e responsabilità ha potenzialmente un grandissimo potere di trasformazione, denunciando le urgenze del presente e attivando microcambiamenti. Un potere che spesso i grandi sistemi mondiali inglobano e manovrano. Secondo te, come può l’arte mantenere la sua indipendenza sfuggendo al dominio da parte del mercato?
Le espressioni artistiche hanno grande peso all’interno della nostra società. Magari l’arte non ha forza, da sola, di cambiare l’umanità ma è uno degli elementi essenziali perché questo succeda. L’esponenziale crescita economica di un lavoro spesso non corrisponde alla crescita nel significato culturale dello stesso e quest’ultimo può essere percepito sia oggetto d’investimento che nella sua funzione sociale. Una differenza visibile nel continuo calo di attendibilità dell’arte causata a cui concorrono artisti, biennali, collezionisti, curatori, critici d’arte…
 
Leggevo recentemente un articolo sul futuro dell’arte. Cominciava con questa frase: «Il futuro dell’arte si discute a Doha, in Qatar».
La penisola affacciata sul Golfo è un emirato, nella geografia mondiale una delle regioni più corrotte e problematiche nelle questioni sui diritti umani. Una scelta che non sorprende se si legge il futuro dell’arte solo attraverso i sistemi economici. Quindi la mia domanda è: «per chi discutono il futuro dell’arte?».
Si deve seriamente cominciare proprio da quel rapporto sempre più debole tra l’arte e la società. L’artista e le istituzioni pubbliche come i musei hanno un grande compito: ricordare che l’arte è cultura.
 
 
 
Nella nostra indagine una domanda ricorrente, che stiamo facendo ad artisti, curatori, critici per restituire una visione eterogenea sul ruolo dell’arte oggi, è a cosa «serve» l’arte oggi?», quale responsabilità hanno l’arte e gli artisti nei confronti della realtà?
E’ una domanda molto difficile ma nello stesso tempo incapsula tutte le risposte.
Cos’è l’arte, tutto?
A cosa serve l’arte è una domanda pragmatica che a volte la carica di responsabilità che non le spettano. L’arte è una necessità primaria specialmente in tempi di grande stravolgimento, con la crescita costante di infelicità, insoddisfazione e delusione.
Ovviamente il valore e la strumentalizzazione capitalista è sempre in agguato ma a me preme sottolineare il suo significato culturale, che ha sia una funzione sociale, sia intima, privata.
L’artista esiste attraverso la sua creazione. Il significato della nostra azione è il nostro lavoro. Il potere dell’influenza dell’arte non è negabile. Ne abbiamo visti e vediamo molti esempi. Senza doversi caricare di compiti risolutivi, l’arte e l’artista devono avere la responsabilità di non chiudersi alle contingenze.
Non ha l’obbligo di rispondere a grandi promesse o caricarsi di grandi cambiamenti, ha però l’obbligo di essere «presente», con gli occhi aperti.
 
L’arte e l’artista oggi sono assaliti da più parti. Pensiamo agli attacchi dell’Isis, agli arresti di alcuni artisti, alla chiusura di istituzioni culturali…  Proprio perché l’arte ha un grande peso nella società  è «responsabile» del suo tempo e di quanto accade.
L’artista può opporsi criticamente di fronte allo stato attuale delle cose, delle condizioni umane, può aprire nuove discussioni e può essere attivo nella società attraverso il proprio lavoro che deve essere sostenuto però da altri elementi per rafforzare il pensiero critico, come le ricerche di critici, curatori, istituzioni.
Non posso avere una formula però posso continuare «esserci», attraverso il mio lavoro, essere una voce e talvolta essere la voce di chi non ce l’ha.
 
Tra il 2014 e il 2015 ho lavorato al Cairo. Volevo poter definire la paura legata al caos politico in un paese in cui le parole (quelle che denunciano) sono proibite. Per ragioni di sicurezza il mio arrivo è stato spostato tre volte. Quando finalmente sono arrivata, mi hanno accolto gli sguardi minacciosi della polizia.
Mi sono confrontata con le paure mai nominate degli altri residenti e quest’urgenza è stata la spinta, per me e per i partecipanti Egiziani, per sperimentare nuove forme di comunicazione, di parole di libertà. Era l’unico modo di aprire alle critiche.
 
 
 
Ti sei formata a Torino, per me città d’adozione.
Come ha influito la città e il fermento (quel che è rimasto) torinese nella tua ricerca? Quale differenza con quanto stai sperimentando fuori dall’Italia, in Turchia?
Ho studiato in Italia e ho vissuto a Torino, anche per me città d’adozione.
Ovviamente nulla è stato molto facile nei primi tempi. L’identità dell’altro era già presente in me, sono Kurda in Turchia, ma in Italia ho scoperto un doppio nazionalismo che non aveva solo i confini del paese ma anche quello dell’Europa. Quindi essere straniero e extracomunitario erano per me due modi di definirsi come «l’altro». Il concetto e il vissuto dell’identità è diventato sempre più presente nel mio quotidiano e poi nel mio lavoro. Ho vissuto un periodo di studio molto importante all’Accademia Albertina con alcuni docenti, come Franco Fanelli. Dopo gli studi allo IED ho compiuto a Londra il mio master al Royal College of Art. Vivo a Londra ma in questo momento ho scelto di essere in Turchia per essere testimone - da vicino - di quanto accade in questa parte del mondo. Una parte del paese vive nell’inganno di una democrazia che non esiste, una democrazia in cui gli oppositori del governo ogni giorno vengono arrestati, inclusi politici, giornalisti, ricercatori.
I conflitti sul confine, la guerra in Kurdistan in Turchia e in Syria ci obbligano a vedere le immagini e le scene quotidiane di non umanità: l’immigrazione e gli sporchi patti politici che decidono la vita dei molti che fuggono dalle guerre e dalla povertà. Questa è la differenza geografica che sto «sperimentando» decidendo di essere presente in Turchia, qui e ora. Questo influenza sia la mia vita che il mio lavoro d’artista. Con la mia presenza e il mio lavoro non posso essere indifferente a tutto questo. E’ impossibile.
 

 
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Foto: © Fatma Bucack, Salt Lake light test

Fatma Bucak (1984) Born in Iskenderun, on the Turkey-Syria border, Fatma Bucak studied Philosophy in Istanbul University and History of Art and Etching in Italy at the Albertina Academy of Fine Arts, before completing an MA in Photography at the Royal College of Art, London. Her works in performance, photography, sound, and video center on political identity, religious mythology, and landscape as a space of historical renegotiation.
She has had solo exhibitions at Pori Art Museum (Finland), Castello di Rivoli Museum of Contemporary Art (Turin), ARTER (Istanbul), Artpace (San Antonio), Alberto Peola Contemporary Art Gallery (Turin), and The Ryder Project (London). Her work has also been exhibited at the 54th Venice Biennale, The Jewish Museum (New York), International Festival of Non-fiction Film, MoMA (New York), SALT (Istanbul), ICA (London), Spike Island (Bristol), Contemporary Art Platform Gallery Space (Kuwait), Manifesta 9 – Parallel event (Genk), La Permanente Museum (Milan), Fondazione Fotografia (Modena), and Art in General (New York), among others. In 2013 she was the winner of the 13th Illy Present Future Prize, and was selected for the Bloomberg New Contemporaries in the same year. She was artist-in-residence at Townhouse, Cairo in 2014 and went on to win the Academy Now London award. She received the Arter – Koc Foundation Contemporary Art Grant and UniCredit Project Grant in 2011.