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“Getting art out of museums to get people into museums”

  • Pubblicato il: 18/07/2017 - 18:36
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Patrizia Asproni

Patrizia Asproni, Presidente del Museo Marino Marini, ha avviato un ciclo di confronti serrati, aperti al pubblico, “Director’s Cut”, con i direttori dei grandi musei nazionali in evoluzione. Confermata per il “museo agorà”, la tendenza, emersa anche in  ambito internazionale,  di “uscire dalle proprie mura” per incontrare il pubblico, il territorio nella quotidianità. Un “portare fuori l’arte”, alla gente, dall’Italia a Londra, a Hong Kong, a Sidney, passando per New York, questa tendenza all’apertura si sviluppa non senza contraddizioni. Prosegue la rincorsa al “gigantismo” per molti musei che stanno ampliando le loro superfici senza tenere a fuoco la loro specificità con il risultato di scarsa sostenibilità, difficoltà di gestione dei palinsesti e difficoltà nell’innovare la programmazione.
 
 
 
Si moltiplicano le esperienze internazionali di musei che superano, letteralmente, i confini tracciati dal loro perimetro per incontrare città e visitatori di contenuti, divenendo, in alcuni casi, essi stessi superficie artistica. Un esempio è il lavoro di Daniel Buren al Madre di Napoli: l’artista ha inscritto la sua opera nell’ingresso dell’edificio. Come ha recentemente raccontato il Direttore Andrea Viliani durante uno degli incontriDirector’s Cut” al Marino Marini di Firenze, Axer/Désaxer è un’installazione site-specific che interviene sulla prospettiva visiva del museo, facendo idealmente ruotare l’edificio, con un gioco di superfici colorate, righe e specchi e creando così l’impressione che i visitatori vengano abbracciati dalla struttura al loro arrivo.
L’obiettivo materiale della sua realizzazione è di superare la divisione percepita tra “in” e “out”, in modo che l’attenzione delle persone che attraversano strade e vicoli circostanti sia catturata e le induca a oltrepassare quell’intercapedine immateriale che inibisce la naturale osmosi tra interno ed esterno, determinando a volte una sorta di resistenza in chi non è già intenzionato alla visita. Quello immateriale è di sollecitare il sentimento di appartenenza che ogni persona dovrebbe sentire verso i musei e il loro patrimonio, attraverso l’affermazione del  legame tra l’artista, l’opera e il luogo in cui è concepita.
 
In verità accade sempre più spesso che i musei escano dalle loro sale per uscire nelle piazze, sui palazzi, e raccontare il loro contenuto e, ancora meglio, la loro identità in relazione con il pubblico e il territorio in cui insistono, come nel caso dell’opera di Buren.
Una tendenza che ha preso il volo in ambito internazionale, come testimonia l’iniziativa statunitense “Art Everywhere U.S.”, il cui obiettivo ha ben sintetizzato John Kelly nei titoli del Washington Post: “getting art out of museums to get people into museums.”
Cinquantotto opere d’arte made in USA provenienti da cinque musei nazionali sono state selezionate per essere riprodotte, in giro per gli States su migliaia di superfici, tra fermate degli autobus e cartelloni di tipo pubblicitario per alcuni mesi.
 
Esempi del genere sono numerosissimi. A Manhattan, il Museo Ebraico ha celebrato la Giornata della Memoria di quest’anno commissionando la realizzazione, sui tre livelli della facciata dell’edificio, di 30 ritratti di sopravvissuti all’Olocausto. Il progetto fotografico è significativamente intitolato “Eyewitness”.
 
Sull’altro emisfero, a Sidney, la più che decuplicazione dei visitatori è attribuita dagli organizzatori alle spettacolari creazioni di luce realizzate in occasione del Vivid Festival, creato per stimolare il turismo fuori stagione (2,3 milioni di persone lo scorso anno).
 
A Torino, disegnare con la luce è un sogno collettivo alla base del successo, dal 1998, di Luci d’artista: l’appuntamento natalizio con installazioni artistiche ad alto impatto scenografico, dense di messaggi - oggi in led in difesa dell’ambiente -  è diventato irrinunciabile per la comunità e ispirazione per esperienze simili.
Sempre nella  città conosciuta come la culla dell’arte povera, il Dipartimento Educazione del primo museo italiano  d’arte contemporanea, il Castello di Rivoli, da trent’anni si apre per lavorare nella “pancia” della città ed educare attraverso l’arte: nelle scuole, nelle piazze e più recentemente negli ospedali, come racconta la trasformazione del  S. Anna, il più antico e grande ospedale ostetrico d’Europa, che ha cambiato volto grazie a quel “Cantiere dell’Arte” fatto di azioni di pittura collettiva, animate dalle idee e dai linguaggi dei creativi, che hanno mobilitato migliaia di persone per “prendersi cura della cura”.
 
Dal punto di vista di chi è abituato a pensare il museo come contenitore di opere d’arte, tutto questo può suonare inusuale; la forma mentis per la quale esso è intrinsecamente vincolato al patrimonio che custodisce e che – quasi per mandato – separa dall’esterno, può lasciare freddi di fronte alla possibilità che la valorizzazione avvenga al di fuori delle sue mura.
Ma se si assume, come abbiamo fatto più volte, che il museo nelle città debba assurgere a nuova agorà e luogo deputato allo scambio di energie, conoscenze ed esperienze all’interno delle comunità, ecco che queste operazioni risultano pienamente coerenti con l’obiettivo.
Ad un ulteriore livello di astrazione, progetti come quelli citati sono vettori di un’idea di cultura rinnovata: non più elitaria, riservata alle sensibilità già sviluppate e fisicamente “nascosta”, ma dirompente, democratica e, giocoforza, più inclusiva, supportata come può e deve essere dal mutamento dei linguaggi e dal rovesciamento dei paradigmi di comunicazione.
 
Nell’epoca in cui ogni cosa viene fermata e consumata in “formato immagine”, l’istituzione culturale vive una volta di più la sfida di affermarsi contemporaneamente come luogo/oggetto/strumento di uso quotidiano e ambiente da scoprire, come messaggio ricorrente e familiare e promessa da mantenere. Proprio come un marchio.
Mentre crea e consolida la sua identità, concorre alla missione di un nuovo posizionamento della cultura, in grado di raggiungere, mutando codici e adottando nuove modalità di coinvolgimento,  un pubblico sempre più ampio. Ridefinisce il proprio ruolo nelle città, contribuendo allo stesso tempo a ridisegnarne l’aspetto e la relazione con i suoi abitanti e visitatori. Nel mondo delle app, della augmented reality e delle connessioni alla portata di tutti, diffondere l'arte oltre le mura dei musei significa liberare senso e bellezza e soprattutto superare - anche e soprattutto attraverso questi strumenti - la separazione fisica per abbattere quella culturale.
Complice, in tutto ciò, una generazione di artisti contemporanei che da un lato vivono a loro volta se stessi e la propria opera come veri e propri brand, dall’altro includono i mezzi di comunicazione nel loro messaggio producendo, più ancora che oggetti, relazioni artistiche con il pubblico, e rendendosi protagonisti di una nuova narrazione collettiva ad alto tasso di engagement.
Più relazione e dunque più arte, più cultura, per più persone.
 
Da Londra, a Hong Kong, a Sidney, passando per New York, questa tendenza all’apertura non avviene però sempre senza contraddizioni.
Molti musei, infatti, stanno ingrandendo le loro superfici senza tenere a fuoco la loro specificità e creando identità gigantesche che possono presentare non pochi problemi: scarsa sostenibilità, difficoltà di gestione dei palinsesti e difficoltà nell’innovare la programmazione.
Ma non è tutto brand quello che è commerciale, e quelli citati sono casi di chiaro fraintendimento: musei che inglobano le città e le fagocitano, stravolgendole, hanno spesso nel loro DNA più marketing fine a se stesso che cultura.
 
“Portare fuori” l’arte, invece, significa realizzare pienamente la missione del museo in dialogo con il contesto in cui esso vive; in equilibrio tra conservazione, valorizzazione e produzione; in una logica  di diffusione, nella quale il patrimonio trae nuova vitalità, presente e passato si connettono e gli scenari urbani mutano sotto il segno della sensibilità e della partecipazione culturale.
 
Patrizia Asproni, Presidente Fondazione Marino Marini e Fondazione Industria e Cultura