L’economia arancione. Storie e politiche della creatività
Il valore della creatività nella sfida di strategie e politiche capaci di ridisegnare il sistema culturale e le regole che ne stimolano la crescita. Superare la retorica e sostenere la fertilità creativa nel sistema culturale, nel comparto produttivo, nelle dinamiche sociali.
Che della parola ‘creatività’ ci sia stato un certo abuso compiaciuto ce ne rendiamo conto tutti. Che di questa graduale trasformazione in etichetta quasi deontologica da parte di professionisti, amministratori e studiosi parli, proprio in apertura, un libro sulla creatività fa ben sperare per il futuro del sistema culturale. Nominalista e bizantina, l’Italia ha sempre adottato delle parole per esorcizzare lo spirito del tempo: fenomeni per propria natura plastici ed evolutivi finiscono in una gabbia quando gli si appone il timbro istituzionale (è come quando a Milano istituirono l’assessorato alla moda, rivelando una percezione di fragilità).
Su questo calderone magmatico Gian Paolo Manzella fa luce in modo artigiano e semplice, con un libro snello e denso che percorre le tappe di un fenomeno cruciale e forse per questo corteggiato – e spesso avocato – da troppe parti. Proprio perché la creatività (connettere in modo fertile due cose esistenti in un modo finora inesistente, secondo la più eloquente delle definizioni) può essere uno snodo solido nella catena del valore culturale e nell’accrescimento della qualità della vita, è tempo di esplorarla in modo laico e non pregiudiziale.
Intanto serve un glossario. Sono fin troppe le definizioni di ‘creatività’ nei diversi continenti, a riflettere visioni culturali diverse: dallo sbocco produttivo adottato dall’empirismo anglosassone alla qualità sociale affermata da Walter Santagata in quel Libro Bianco sulla Creatività che proprio Manzella aveva costruito per il MiBAC retto da Francesco Rutelli. Ne emerge comunque che la creatività non combacia necessariamente con quello che definiamo ‘cultura’ (l’ennesima etichetta slabbrata nella vulgata italiana fin troppo autocelebrativa), e che dall’astrazione dell’arte alla funzionalità del design percorre tappe concentriche in una varietà estesa di settori.
Poi si cade inevitabilmente nella necessità di prendere le misure, rispondendo a domande pertinenti ma anche a curiosità morbose che fanno i conti con l’endemico senso di inadeguatezza del quale la cultura soffre nei confronti del resto del mondo. Anche qui Manzella affronta la sfida in modo quasi disarmante, distinguendo con acutezza la creatività come azione specifica da una parte e le tassonomie à la Florida che intasano le caselle di professioni nelle quali la creatività è certamente utile, ma non per questo garantita e uniforme, dall’altra: non ogni studio di architetti è creativo per default. L’autopsia che Manzella offre con il necessario disincanto mette a fuoco la creatività come processo e supera – in leggero anticipo rispetto alla parziale abiura dello stesso Florida – l’ansia classificatoria che riflette i rantoli della weltanschauung manifatturiera seriale.
La creatività è necessaria, sottolinea Manzella in vario modo e con solide basi tecniche, ma non può funzionare come gesto straordinario e isolato; è un processo esteso in un eco-sistema favorevole che la adotti come un enzima, lasciandole trascinare con sé prassi e relazioni, sfide e orientamenti. È definita ‘economia arancione’ giusto per darle un’identità meticcia, come un colore che nasce dall’ibridazione di due colori primarî. E raccoglie il fallout di scambi internazionali che cercano sempre di più contenuti specifici e narrazione del sé; al tempo stesso indica la strada della crescita attraverso investimenti appropriati e capacità di trasformare un sistema che rischia sempre di più la calcificazione autoprotettiva. In modo quasi algido, comprensibilmente, Manzella fa notare come anche negli anni recenti la sfida della creatività si stia perdendo senza ritegno in un sistema culturale adagiato su allori ormai putrefatti e che si ostina a manifestare soddisfazione per l’anabolizzazione della domanda di massa (ignorandone allegramente i costi di congestione e la mancata attivazione di ogni possibile relazione dialogica tra offerta e domanda di cultura).
La creatività ha bisogno di politiche ad hoc, che ne stimolino l’insorgere e l’innestarsi nel sistema culturale, nella società e nell’economia; che ne curino l’infrastruttura materiale, tecnologica e sociale che la fa crescere e diventare adulta; che ne facilitino la mescolanza con attività e comparti non specificamente culturali ma pronti a raccogliere la visione creativa che il paradigma manifatturiero ha lungamente snobbato. Per quanto la creatività si possa trovare formalmente nella cassetta degli attrezzi di quasi tutti i politici e decisori pubblici, per poterne fertilizzare il valore attraverso un credibile ed esteso impatto sull’economia del territorio è necessario trasformare (creativamente, appunto) gli approcci e gli strumenti della politica, con la consapevolezza che la catena del valore è inestricabilmente connessa al territorio, alle sue infrastrutture e ai processi che vi si sviluppano.
Non basta la riabilitazione materiale di luoghi negletti, confidando nello scatenarsi di reazioni automatiche; è necessario costruire un reticolo di relazioni, scambi, ibridazioni e sinergie anche superando la consueta cesura binaria tra pubblico e privato, tra cultura convenzionale ed emergente, tra comunità residente e visitatori esterni: la mera somma di luoghi privi di una spina dorsale che li connetta in modo sostenibile finisce per consolidare l’isolamento della cultura dal tessuto urbano, la fiumana poco bio-degradabile dei turisti di massa, la tentazione di indulgere in eventi blockbuster pur di uscire sui giornali per meriti muscolari. Così la cultura si atrofizza e la creatività si tiene a distanza.
Costruttivo e in definitiva ottimista, Gian Paolo Manzella indica gli orizzonti credibili perché la creatività occupi davvero quella posizione nodale che permetterebbe al sistema culturale di arricchirsi coerentemente con lo spirito del tempo, al comparto produttivo di crescere anticipando i desideri di una società complessa, alla comunità urbana di veder aumentare la qualità della propria vita. E segnala, con fermezza gentile ma un po’ preoccupata, che l’opportunità comporta una responsabilità e che il flusso di benefici derivanti dall’innesto della creatività nell’eco-sistema economico e sociale è tutt’altro che garantito, ma va costruito con delicatezza e coraggio da una strambata strategica e politica che tuttora appare lontana e poco convincente al decisore pubblico e – paradossalmente – a una quota notevole di professionisti della cultura che preferiscono una comoda sopravvivenza alla faticosa ma fertile autonomia progettuale. È una questione culturale che non deve essere più rinviata ed elusa.
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Gian Paolo Manzella, L’economia arancione. Storie e politiche della creatività, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017