VIAGGIO NEL PAESE DELL'INEDUCAZIONE DI GENERE (DOVE QUALCOSA POTREBBE CAMBIARE)
L’ONU insiste. Carenze gravi nella prevenzione della violenza e della discriminazione contro le donne. Va inserita nel nostro sistema formativo l’educazione a diritti, parità e relazione tra generi. Manca un’azione sistematica di contrasto culturale ai fenomeni discriminatori, un’efficiente giurisprudenza, un’efficacia dei servizi di protezione e assistenza. Le famiglie, luoghi di maggior violenza e incubatori di quella di domani, sono sole. I minori che subiscono abusi o vi assistono sono a rischio di reiterarne i modelli. Oltre 1600 figli di vittime di femminicidio, lasciati soli, approdano ora all’aiuto di Stato: ma i bambini, per la società e per la legge, godono di diritti ridotti. I giovani han voglia di formazione ad hoc ma cala la percezione della gravità del fenomeno femminicida. Intanto gli uomini – nodo del problema – restano nell’ombra di un ipocrita silenzio sociale.
Se violenze e atteggiamenti discriminatori contro le donne sono fatti culturali non significa che il loro verificarsi sia legato al livello d’istruzione: chi li subisce ha ogni tipo di preparazione (Istat 2014) e anche chi li agisce: aspettiamo che finalmente i riflettori si accendano sugli uomini per comprendere appieno il fenomeno. L’esigenza di un intervento educativo e culturale che penetri tra le nuove generazioni viene dal fatto che è l’intera società ad aver bisogno di un’azione di persuasione e contrasto culturale alle violenze di genere: la scuola, la formazione, sono pervasive, trasversali a tutti i settori professionali ed ambienti sociali, come il fenomeno stesso.
Il rapporto violento uomo-donna (che ha il suo analogo omosessuale) è un fatto culturale spesso legato alla condizione della coppia. Cardine della società, forma di relazione assoluta, extra-territoriale, la coppia sfugge al controllo, ma resta intrappolata fra rigidità e legami sfibrati della comunità organizzata. Nel riparo oppressivo della coppia riverberano aspettative frustrate e identità represse e la donna, mai abbastanza resiliente, è ridotta a oggetto di potere dell’uomo: ne catalizza ogni tensione, fino al punto di rottura, dove i figli, tra i frammenti di doppie solitudini implose, sono i più esposti alle conseguenze. Se per l’OMS l’educazione è un fattore ambientale determinante l’insorgere o meno di discriminazioni, tanto più lo è in chiave preventiva: L’ONU (CEDAW) chiede interventi chiave a livello di cultura diffusa di un rapporto equilibrato fra generi, e l’integrazione – a ogni livello – nel sistema educativo (2011, §§ 15, 23, 27) e nei percorsi specifici di ogni categoria di interesse pubblico (sanità, giustizia, istruzione etc.) di un’azione formativa contro le discriminazioni e le violenze di genere. Soluzioni occasionali e promesse (2015/§ 95), non sono più sufficienti: in modo inequivocabile (2017, §§ 5, 6) ci è stato fatto capire – con critiche a tutto campo su ritardi o carenze e dubbi su azioni di governo e risultati ottenuti – che si devono riformare programmi e approcci e che non si fa abbastanza. Ne percepiamo la gravità?
Parlarne troppo per non parlarne proprio.
Le cronache di femminicidi e violenze sulle donne fanno uscire da sotto il tappeto delle tv e dei social network le scorie di una collettività sempre più in grado di produrre stimoli informi e sempre meno di riconoscersi e agire su di sé. Riemerge (anche tra donne) la visione androcentrica del se l’è cercata, qualcosa ha fatto, doveva reagire o lo scaricabarile morale del nessuno fa nulla, e lo Stato?
La compulsiva ricerca, da parte di ognuno, di consenso e ruoli nella rappresentazione collettiva, fa sì che l’empatia con la vittima risulti vincolata, e inversamente proporzionale, alla durata delle dirette TV e al numero d’insulti e pollici alzati in rete.
La premasticazione narrativa della violenza esercitata dai media, la rende questione non più di vita o di morte ma di digeribilità: l’agiografia noir, il racconto concentrato solo sulla coppia, è il packaging che la tragedia richiede per essere presentata a un pubblico che vuole ignorare la propria corresponsabilità di spettatore passivo degli abusi. Ne fa un fatto privato. La sovraesposizione delle relazioni intime nella comunicazione di massa è l’esercizio di un potere narrativo: il potere di non dire, di sedare il dibattito pubblico, fare tanta luce su un caso e impacchettarne la scomoda ordinarietà con tante narrazioni, da cancellarlo e rendere invisibile il ruolo che ognuno di noi vi gioca. Serve, ma come, parlare di violenza sulle donne?
Il corpus delle donne
Un termometro di ciò che è consentito in una collettività, è la normativa. Come siamo arrivati a oggi? Nel 1979 andava in onda il Processo per Stupro: lo stupro era tra i reati contro la moralità pubblica e il buon costume, non ancora contro la libertà personale. Sullo sfondo: la raccolta di 300.000 firme per una legge di iniziativa popolare, il dibattito sull’aborto e l’onda femminista.
L’evoluzione culturale-penale della legge del 1996 è stata influenzata dall’attività ONU sulla parità di diritti e i diritti umani della donna: la Conferenza di Vienna, la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne (1993), la Conferenza mondiale sulle Donne di Beijing (1995).
E’ il lavoro delle parlamentari, però, dopo vent’anni di passività maschile, a permettere di arrivare alla nuova formulazione: che lascia alle aule dei tribunali molto da decidere (su atto sessuale, onere della prova, consensualità, etc.). Dai verdetti, nel tempo, emergono sviluppi e reticenze culturali.
Con la legge sullo stalking (2009), la Convenzione di Istanbul (2011), l’ampliarsi dell’azione UE, si accelera l’integrazione, forse superficiale e troppo penalistica, della normativa contro la violenza di genere (L.93/2013), in risposta a un’opinione pubblica scossa dal racconto femminicida: il risultato è però non molto palpabile. L’anno successivo la nuova analisi europea dei dati sul fenomeno delinea la sua diffusione, profila le diverse culture della violenza e l’urgenza di una risposta istituzionale e pubblica profonda.
Tutto nella norma?
Il diritto si affina con la giurisprudenza, ma solo la sensibilità culturale entra tra le sue pieghe e porta la società a sancire le norme. Un’inconsueta condanna per stupro, per un condom tolto senza accordo, ha rimesso al centro la questione culturale del consenso fra partner. Doversi muovere tra evidenze di abuso o consenso invita a prevenire gli abusi investendo nel cambiamento sociale: anche affidarsi ai servizi anti-violenza è più facile per le vittime se ci si muove in una proattività e sensibilità collettiva.
Tra le reti locali pubblico-private di sostegno e influenza c’è la Valigia di Caterina, che vede cooperare Comune di Vicenza, Lions, Donna chiama Donna (Centro Antiviolenza), Diocesi (Migrantes), Donne Medico, Ordine degli Avvocati, Fondazione Belisario: Caterina Evangelisti Fronzaroli, avvocatessa, Presidente di AIAF Veneto (Ass. Italiana Avvocati per la Famiglia e i Minori) e promotrice del Centro Antiviolenza, da poco scomparsa, ne ha ispirato il nome. La valigia è dedicata a donne in grave pericolo e difficoltà e prevede l’aiuto a tutto campo, economico, abitativo, legale e psicologico, supervisionando da subito il percorso delle vittime.
Se il welfare pubblico non riesce a coordinarsi con gli attori sociali o a promuoverne la collaborazione con una visione chiara sulle strategie, è perché la ferita della discriminazione attraversa le istituzioni, da cui dipende la percezione culturale del problema (che poi è un problema degli uomini). Il Paese è frantumato fra tavoli di lavoro in stop motion, stimoli ad approcci Scotland, iniziative fai-da-te di vittime e congiunti (la Fondazione Eligia Giulia Ardita, nata dai beni d’una madre incinta uccisa dal marito, p.e.), coordinamenti locali fra parti dello Stato, fallite generalizzazione di approcci (il Codice Rosa Bianca resta solo toscano, e i percorsi rosa nazionali non spingeranno la donna all’immediata denuncia), iconizzazione anti-vittimistica (WeWorld Festival) e promozione di modelli positivi (Fondazione Belisario), uso dell’alta visibilità dei promotori (Fondazione Doppia Difesa, Avv. Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker) per il lancio di proposte di legge. Questo caso, della proposta di legge, è emblematica: intende punire chi causa rilevanti modificazioni dell’equilibrio psichico del minore (comportamenti suppostamente lesivi dell’immagine di un genitore attuati dall’altro, in fase di separazione, con ricadute sulla psiche della prole) ma non si regola il far west in cui agiscono i periti chiamati a determinare la patologia del minore (visto come soggetto passivo e inascoltato). Oltre alla discutibilità scientifica in sé – vedi sotto – il problema è che, un testimonial che in prima serata avvalla patologie non riconosciute e postulate da altre e aggrava il delirio penalistico a danno del minore (e della madre), è la dimostrazione che il mainstream televisivo può generare mostri.
Una vera condivisione pubblica avviene solo abilitando pratiche locali condivise e lo Stato deve intervenire e tracciare i margini entro cui muoversi, assumendosi la responsabilità del proprio funzionamento e della mediazione attiva dei conflitti etici e culturali.
Le realtà da molto tempo nell’ambito, radicate localmente, lavorano in profondità su fronti più delicati. Con l’introduzione di percorsi laboratoriali artistici, assimilabili nell’esito all’arte irregolare, donne con doppia diagnosi (problemi psichici legati a dipendenze e abusi/matrattamenti/violenze) trovano un ambito di espressione a lungo negato, in contesti terapeutici e di abitazione protetta.
Sarà aperta l’8 marzo una mostra, a Palazzo Barolo a Torino e non solo, grazie al percorso dedicato alle arti irregolari varato due anni dall’Opera Barolo con l’Assessorato alle politiche sociali della Città, attraverso InGenio, il suo braccio operativo: percorso che restituisce la ricchezza del territorio in termini di relazioni e progettualità tra mondi culturali e socio-assistenziali, affrontando temi complessi per mezzo dei linguaggi delle arti e condividendoli con pubblici ampi.
Un convegno internazionale sulle “riparazioni dagli abusi” sarà accompagnato dalla mostra “sei case fantastiche”, alla quale gli ospiti e operatori delle comunità di recupero Fragole Celesti e Fermata d’Autobus hanno lavorato a lungo, in un laboratorio con l’artista Paola Risoli: un percorso espressivo nella fase di aiuto di una donna che, nella sua restituzione pubblica, assume la massima dignità del suo valore preventivo. Questo è il potenziale della condivisione artistica. E’, infatti, la carenza di mezzi e spazi espressivi e sociali diffusi che fa giungere ai livelli di radicamento le patologie maturate nei contesti di violenza: la sottrazione relazionale ed espressiva sono parallele.
Chi (non) chiede aiuto.
Ma a chi si dovrebbe arrivare e tendere una mano? Chi chiama il numero antiviolenza e antistalking 1522 non è un campione statistico, ma direttamente legato al tema, utile a comprendere il contesto: chi chiama confida violenze risalenti a mesi e anni prima, consumatesi in casa, spesso su donne con figli, di cui più della metà minori, spettatori delle violenze (o anche vittime), che riportano disturbi. Le spinge a chiamare l’aggravarsi delle violenze, fisiche e psicologiche. In genere o non si esprime il motivo della mancata denuncia, o si dice di non volere compromettere la famiglia. C’è paura.
I dati Istat 2014 mostrano crescente consapevolezza dell’esistenza dei servizi territoriali, l’aumento di denunce sporte, ma i valori sono bassi: i servizi non arrivano a chi è incastrato nel rapporto violento. Diminuiscono in assoluto i casi di violenza, più donne ne parlano a chi è vicino: ma l’aggravarsi delle conseguenze di violenza fisica, la più alta percezione di pericolo di vita, indicano l’aumento della pressione sociale sulla coppia. Il quadro più sottovalutato, e più rilevante, emerso dai dati Istat è quello sull’apprendimento violento: un dato epidemiologico sulla diffusione culturale della violenza (subita e assistita) nei contesti familiari:
“Le donne subiscono violenze sessuali anche nell’infanzia: il 10,6% ha dichiarato di aver subìto qualche forma di violenza sessuale prima dei 16 anni. […] La trasmissione intergenerazionale del fenomeno è ben testimoniata dalla relazione esplicita tra vittimizzazione vissuta e/o assistita da piccoli e comportamento violento: il partner è più spesso violento con le proprie compagne se ha subìto violenza fisica dai genitori (se dalla madre, la violenza da partner attuale aumenta dal 5,2 al 35,9%), o se ha assistito alla violenza del padre sulla propria madre (dal 5,2 al 22%). Tra le donne vittime di violenze sessuali prima dei 16 anni, l’incidenza di violenza fisica o sessuale da adulte raggiunge il 58,5% (contro il 31,5% valore medio), 64,2% tra le donne picchiate da bambine dal padre e 64,8% se dalla madre.” [Istat 2014]
La rappresentazione della donna vittima del rapporto violento, la scarsità di testimonianza pubblica da parte di chi ne è coinvolto, sui suoi motivi e meccanismi profondi, l’ombra in cui resta l’uomo (anche nella fase della raccolta dati) segnano la stagnazione narrativa in cui si fa macerare il fenomeno, senza mai affrontarlo.
I minori sono i più esposti, sotto ogni punto di vista: a partire dal rischio di sottovalutazione del tema. Ultimi studi SWG sottolineano la crescente anestesia sociale sul femminicidio fra i giovanissimi: ci si abitua alla violenza. Già l’indagine sulla prostituzione minorile condotta dalla Commissione Infanzia e Adolescenza (basata in parte su dati frammentari o non attuali) dà il quadro d’abbandono dei minori: al progressivo aumento degli abusi in categorie deboli, per l’ampliarsi delle fasce di povertà tra italiani e stranieri (in crescita la prostituzione maschile), s’affianca l’aumento esponenziale della prostituzione volontaria. Con il sexting e gli abusi commessi fra coetanei questi sono segni di un cambio di valori e di visione del corpo che può allarmare. Dallo studio InDifesa di Terres des Hommes emerge che i minori chiedono percorsi educativi sul tema, anche con e riguardo l’uso di ICT.
Il Dipartimento Pari Opportunità/PCM finanzia progetti educativi in 90 scuole: ma l’integrazione del tema nell’offerta nei contesti formativi nazionali (prevista da Buona Scuola, ONU e Convenzioni UE di Lanzarote, Istanbul, etc.) latita. La Camera dei Deputati [dossier] ha fatto emergere una bozza di testo. In Senato il ddl N. 1680, a firma Fedeli, ora Ministro dell’Istruzione, è da anni in attesa di esame.
Cabina di Regia e Osservatorio del DPO, previsti nel Piano d’azione straordinario, seguìto alla legge del 2013, sono in perenne fase di avviamento.
Il Governo stanzia 18 mln nel nuovo biennio, ne sblocca 13 per quello passato: ma non hanno nulla a che fare con l’esigenza strutturale relativa all’integrazione dell’educazione pubblica, e per generare un effetto sul piano culturale manca una regia definita, strategie chiare, l’adozione di un rapporto bottom-up e di rete fra i soggetti coinvolti dal Piano e la revisione del ruolo delle Regioni e delle realtà legate in vario modo allo Stato. Il MIUR ha annunciato l’avvio di tavoli di lavoro per quest’integrazione da due anni quasi, ma si sottrae e non dà risposte a domande sull’argomento.
Alla formazione nella sanità pubblica era dedicata parte dei 50 mln annunciati dal Ministro della Salute Lorenzin due anni fa, per l’assistenza psicologica alle donne vittime di violenza, svaniti nel nulla. Come afferma Oria Gargano, Presidente di Be Free (il cui approccio è totalmente diverso da quello di Codice Rosa Bianca di Grosseto, dove la donna che arriva in ospedale è una fra varie categorie “deboli”, ed è messa subito a contatto con le Forze dell’Ordine) “la formazione e la preparazione del personale serve a prendere coscienza della complessità dei casi e a gestire le relazioni che ci sono dietro”. Così si fa al San Camillo di Roma da anni, dove l’azione di BeFree è riconosciuta da un protocollo aziendale e dal punto di vista formativo validata in termini di E.C.S.
Il sostegno di WeWorld che garantisce continuità (SOStegno donna) al servizio, fa avanzare un lavoro di ricerca in rete di livello nazionale, anche nello studio delle buone pratiche possibili nel settore: il 1 marzo alla Camera dei Deputati, all’inizio della campagna #TimeOut, ha presentato una nuova ricerca. Un’analisi SROI rivela come l’investimento di 1 euro produrrebbe con investimenti a regime un risparmio di 9 (calcolando le sole donne senza parlare della parte più considerevole che è la ricaduta sociale e immateriale sul resto della comunità). La ricerca Quanto costa il silenzio? apriva domande, oggi si delineano i possibili interventi. “Per ottenere i ricavi sociali attesi, allo Stato si richiede uno sforzo iniziale maggiore, è vero, ma stiamo comunque parlando solo dello 0,0052% del PIL nazionale”, dichiara Valeria Emmi, Coordinatrice Programmi per i Diritti delle Donne WeWorld Onlus e curatrice dell’indagine. La formazione professionale evidenzia tra i ritorni più alti. Calcoli e ipotesi relative alla istruzione pubblica (Art.14) di ogni ordine e grado, per allievi (12h/anno) e per parte degli insegnanti (48h/anno, una tantum), è invece solo sufficiente a delineare i costi di un intervento di sistema, che andrebbe formulato sulla base di azioni chiare e sforzi più consistenti. E ben altri costi, forse. Perché la partecipazione e gestione del consenso e del conflitto su temi delicati – in fase di avviamento – costa: e non solo alla PA.
BeFree è in rete con Non una di meno, Io Decido, DIRE, UDI e siede ai tavoli di lavoro per redigere un Piano Antiviolenza civico, dopo la nascita, a novembre, del movimento di donne, che per l’8 marzo mira al primo sciopero generale di genere. Dice Gargano “Per dare un’idea dell’arretratezza rispetto al resto dell’Europa: nei form da compilare per i report all’EIGE, in cui sono stata impegnata dal 2008 al 2016, si chiedeva d’indicare i codici ISBN dei libri di testo su cui le Forze dell’Ordine si formano per agire in contesti di violenza di genere.” Codici irreperibili.
Sempre a Torino, è nato però un progetto nazionale che sta cambiando la cultura d’ascolto della donna: il Club di servizio femminile Soroptimist Internazional della città ha ideato Una stanza tutta per sé – prendendo a prestito il titolo dell’opera di Virginia Woolf: è la realizzazione di sale di ascolto presso le stazioni di pubblica sicurezza dei Carabinieri. Luoghi di accoglienza e audizione dedicati nei quali le donne possano trovare il coraggio di denunciare, attrezzati di arredamento caldo, supporti tecnologici e l’ausilio di personale preparato, al fine di ridurre ansie e insicurezze, anche nella verbalizzazione. Il progetto di contrasto alla violenza di genere è oggi nazionale, grazie a un protocollo d’intesa siglato in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri. Un capitolo importante del lungo percorso di avvicinamento fra Forze dell’Ordine e esigenze delle donne.
Il glass wall degli orfani di femminicidio e l’invisibilità dei bambini.
Il muro di cristallo in procinto di frantumarsi è quello degli orfani di vittime di femminicidio. La legge italiana ha escluso gli autori congiunti della vittima dal diritto alla reversibilità in seguito alla proposta nata dal caso Mele (L. 125/2011) e, sempre a partire da una bozza stesa dall’Avv. Anna Maria Busia, è ora stata emendata arricchita e approvata dalla Camera la proposta che l’integra e prevede finalmente l’esclusione dall’eredità dei congiunti colpevoli del reato, misure a sostegno dei figli delle vittime, e in più altri aspetti di aggravio delle pene (ergastolo), affido del minore a familiari fino al terzo grado e un accesso a un fondo di garanzia. “E’ stata in discussione alla Camera, integrata da alcuni emendamenti e attende di essere trasformata in legge: è stata sostenuta in modo unanime da partiti di governo, M5S, centro-destra”. La Presidenza della Camera ha ricevuto da poco l’Avv. Emanuele Tringali (legale di Nancy Mensa e fratelli) estensore di un’altra proposta sul tema “Questi 1600 orfani di femminicidio, rimasti senza risorse e assistenza dello Stato, neppure psicologica, sono come i rifugiati che accogliamo a braccia aperte: in stato di necessità. Sono i nostri naufraghi.” La povertà che costringe a coabitare, le udienze di separazione che chiedono mesi di attesa, l’allontanamento dell’uomo, difficile da ottenere, come la protezione, il sostegno, l’aiuto nel trovare soluzioni non conflittuali: il codice penale arriva troppo tardi e in questo frangente è sempre più forte l’impegno del gruppo interparlamentare delle donne. E proprio in questi giorni Strasburgo condanna le nostre mancanze.
In questi giorni all’ultimo piano del Grattacielo Pirelli, il convegno Quando il figlicidio è femminicidio ha aperto i lavori nell’ottavo anniversario della morte di Federico Barakat, ucciso dal padre durante l’incontro presso i servizi sociali di competenza dell’ASL: ambito protetto che non ha impedito al padre violento e affetto da disturbo bipolare, di uccidere il figlio e uccidersi poco dopo. Contro i servizi, i suoi responsabili e gli assistenti sociali, la madre ha sporto denuncia per mancata tutela dell’incolumità del figlio. Antonella Penati non ha ottenuto ancora giustizia e ricorre a Strasburgo contro lo Stato italiano, per aver imposto a suo figlio gli incontri, senza tutela, in nome di una bigenitorialità non più diritto della persona minore ma obbligo imposto dallo Stato e da un genitore. “Ciò spesso accade in presenza di giudici a cui manca una competenza specifica su questi tipi di situazioni, propensi a confondere diritti del genitore e dei figli, violenza e conflitto: incapaci di accogliere o respingere con criterio le valutazioni di un CTU o di parte. Ci vuole una formazione specifica .” così dice Fabio Roia, Presidente di Sezione del Tribunale di Milano.
La Penati ha fondato Federico nel Cuore e dato vita con tanti altri a Fight4ChildProtection, che lotta per attestare il diritto del minore ad essere ascoltato in giudizio, permanere in ambiti familiari in caso di separazione dai genitori, godere di un sistema controllato e normato di tutela. Se il rischio che i tecnici diventino giudici fantasma è altissimo, lo è anche quello che gli assistenti sociali controllino equilibri di relazioni che dovrebbero assistere. Si continua poi a promuovere in ambiti pubblici la PAS, la inesistente Sindrome da Alienazione Parentale di quel Richard Gardner che già descrisse la lotta alla pedofilia come un’isteria collettiva assimilabile a una nuova Inquisizione: bandita, da stati, istituzioni e ordini professionali, a livello internazionale, in Italia entra ancora nelle sentenze di tribunale, sebbene mai riconosciuta come valida in ambito scientifico: e non c’è difesa. Un’arma con cui si accusa la madre, spesso già oggetto di violenza, di essere ostile e influenzare il figlio che rifiuta il padre o lo accusa di abusi o violenze: e più essa si oppone al partner, più la PAS traduce queste reazioni alle violenze subite, oggetto d’indagine, in prove dell’alienazione attuata a danno del padre e del figlio, proponendo che il minore sia affidato proprio al genitore alienato per compensarne la supposta sindrome.
La Dott.sa Maria Serenella Pignotti, dice “Il bambino è trattato da idiota morale, quando invece è in grado di esprimere la propria volontà, emozioni, sentimenti e quando rifiuta il genitore – se ne avesse bisogno nulla potrebbe l’influenza altrui – è perché, come Federico, sente di esserne minacciato. E in tal caso non può e non deve essergli imposto.” E’ provato che la violenza assistita provoca gravi problemi di sviluppo cognitivo nei bambini ai primi anni di vita e nella costruzione della personalità.
Lo Stato, non intervenendo, non solo si fa complice di un ricatto verso la donna, esposta già più di altre a violenze se in stato di separazione o divorzio (51,4 % contro 31,5%) e anche economicamente: si fa inoltre esecutore di violenza diretta sul bambino, quando pure vi sono strumenti e metodologie adatte e sufficienti per ascoltarlo e si dovrebbe iniziare a pensare, dice l’Avv. Federico Sinicato, a un diritto a una difesa di parte per il minore distinta da quelle dei genitori, per perseguirne gli interessi e iniziare a trattarlo come una persona che può sentire e sapere cosa vuole: non si può affidare tutto alla Cassazione, ai periti in giudizio e ai diritti dei genitori.
Vedere il bambino in nuovo modo è la sfida culturale più grande che ci attende nei prossimi anni. Per questo avvocati e giornalisti si sono uniti nell’iniziativa del Pirellone.
Non serve la cronaca dei delitti, ma uscire di casa, informare, essere presenti, a occhi aperti, agire una collaborazione attiva e vigile fra i cittadini, raccontare il riscatto, i meccanismi intimi della violenza e costruire strumenti, metodi, azioni per il prima e il dopo.
Il primo passo si fa nei luoghi di formazione, garantendo a tutti il diritto a essere formati alle relazioni tra persone di genere diverso e attivando nuove azioni che portino a una consapevolezza culturale diffusa. Se la famiglia ha un problema è essenziale avere persone formate nella scuola per intercettare e gestire i disagi. Lo Stato è da troppo tempo fermo, incastrato fra sterili polemiche gender e passività sul cui altare si sacrificano la prevenzione e le vittime della violenza: violenza che, senza un’azione decisa, resterà la cultura più forte e l’unica di Stato.
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Ph | Amandalynn Jones, Madison (WI), Women’s March, 21 gennaio 2017, Creative Commons, Share Alike 4.0 International
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