ARTE E SFERA PUBBLICA SECONDO MICHELE DANTINI. QUALE RUOLO SVOLGE LA CRITICA D’ARTE OGGI?
Quale ruolo oggi per la storia dell’arte e per gli studi umanistici? Quale il senso della ricerca e quale il suo valore civile in questo momento storico? Che ruolo gioca la lingua nella divulgazione?
Michele Dantini si interroga da tempo sul ruolo della critica d’arte, oltre la conservazione e oltre i recinti accademici, e sulle condizioni della sua rilevanza. Arte e sfera pubblica è un corposo saggio che ci propone diverse risposte prima di congedarsi con un antidoto alla pedanteria.
Roma. L’accesso all’ultimo lavoro di Michele Dantini dedicato all’arte pubblica è multiplo, apparentemente disposto com’è in una articolazione in tre parti indipendenti nell’intero e in ogni singola porzione: saggi autonomi dedicati all’iconologia delle origini nella quale compaiono in ordine Panofsky, Warburg, Gombrich, Longhi e Baxandall; una sezione di saggi, dedicati a Duchamp, Le Corbousier, Manzoni, arte italiana post bellica e una sezione di chiusura con la presentazione del “fagotto di libri” da portare con sé in caso di naufragio.
Il saggio è solo in superficie amichevolmente accessibile: si tratta, invece di un oggetto sofisticato, architettato com’è in un gioco di scatole e specchi, rimandi, speculazioni che lo innerbano per giungere alla conclusione.
L’autore ci avverte avvedutamente, nell’introduzione, che avrebbe potuto presentare “Arte e Sfera pubblica” come un libro sulla diaspora ebraico-tedesca in relazione al peso che questa ha avuto nello sviluppo degli studi storico artistici, ma che -qui manifestandosi in generosa onestà ci mette nella giusta direzione- all’origine del progetto vi sono “inquietudini rispetto all’angustia di un determinato specialismo oggi corrente”.
Il tema lo allerta da tempo e lo vede impegnato a disseminare in rete contributi quali “La storia dell’arte tra il riccio e la volpe. Mutazioni di una disciplina per l’epoca che viene” (su Roars a dicembre 2014 ove si anticipa, pur con orizzonti più vaghi) che apre così:
“Chi si occupa di storia dell’arte in Italia è colpito dalla separatezza degli studi antiquari. Questi sembrano non avere, quantomeno agli occhi di molti studiosi, implicazioni storiche o scientifiche di ampia portata né responsabilità civili specifiche. Si assume che didattica e conservazione del bene materiale esauriscano l’intero ambito di attività. Ma è appunto così che la storia dell’arte smette di essere una disciplina umanistica”.
L’impresa oggi è quella, impegnativa, “di riformulare i compiti, le tecniche, gli stili, la platea dell’indagine storico-critica”. Di [ri]creare un legame fra la scienza del critico e dello storico dell’arte e il proprio tempo, l’oggi, il senso, la comunità. E di dare vitalità e fertilità agli studi.
L’articolazione del prodotto editoriale è solo una delle prima manifestazioni formali di senso, parte intrinseca dell’esporre dell’autore (che nell’introduzione dice di “dispiegare dadaisticamente” i contenuti, riferendosi solo all’ordine della parte finale).
Tutto il percorso prende parte ad una narrazione il cui tratto di continuità non è il registro linguistico (che viene modulato in mondo differente da sezione a sezione) bensì la ricorsività di alcune parole: arte, logos, mito, risonanza, partecipazione, rilevanza, inattualità, interpretazione, accompagnate dalla danza continua di alcuni binomi: apollineo/dionisiaco (fin dalla dedica), norma/forma, antiquario/nostalgia versus innovazione, idiosincrasia, erudizione/scienza, biografia/autobiografia.
Immagini e parole
La preoccupazione principale per l’autore è la scomparsa di una colta tradizione di studi portatori del connubio fra erudizione e pensiero critico.
Le pagine dedicate ai grandi storici dell’arte (e, verrebbe da dire, seguendolo, tramite la trasformazione dei loro testi nei personaggi di una conversazione, cit. a proposito di Warburg) sono funzionali all’argomentazione.
Sono saggi nei quali l’autore mette in campo un grande equilibrio fra procedimento induttivo, verifica documentaria, erudizione, sotto la lente della storia e della storia della cultura, uniti da capacità di efficacia linguistica; come indica lui stesso prove, analisi, percorsi e riprese.
Tutti elementi sostanziali del suo discorso.
Il percorso di Dantini, da Panofsky a Baxandall è costruito come un climax, che raggiunge il suo apice nel paragrafo (non a caso) dal titolo “Critica e sfera pubblica” ove viene indicata una parola ricorrente nelle interviste a Baxandall: “relevance”, rilevanza, associata al rigetto della storia dell’arte intesa in senso deteriore (definita da Baxandall stesso “roba da Courtauld”).
Panowsky, Warburg, Gombrich, Longhi e Baxandall ci sono presentati in rapporto alle categorie di erudizione, scienza, libertà, verità e scrittura. Con percorsi in fieri e domande aperte.
Non di rado, quando il discorso sembra farsi letterario e biografico, storia di uomini, si ha la sensazione che diventi anche autobiografico per l’autore; è in questi frangenti che c’è l’eco più evidente del potere di generare vita del proposito di Dantini.
Provo a procedere tra le righe.
In riferimento a Longhi, e all’intenzione di creare una frattura in modo che ricerca accademica e critica potessero tornare a sovrapporsi dando vita ad una critica della storia, l’accento si sposta sulla capacità descrittiva e sulla lingua.
Dantini scrive “La prosa più duttile e multiforme, spezzata di francesismi, arcaismi e locuzioni vernacole, corrisponde al richiamo panico dell’opera domiciliandolo nel linguaggio comune”. E continua “un simile prodigio riesce solo al termine di uno scrupoloso itinerario di studio e conoscenza sul presupposto di una responsabilità storico-filologica”.
Parliamo davvero solo di Longhi? Con tutta probabilità non solo di lui.
In un passo poco lontano, tramite Gianfranco Contini, si sottolinea la pedagogia della forma, lo studio della storia dell’arte che concorre a stimolare l’autonomia di valori; è qui che il tema diventa uno: per colmare la distanza fra linguaggio visivo e linguaggio verbale l’interprete deve cercare convergenza fra storia, scienza e libertà; solo il gusto visivo protegge dalla trasmissione di pregiudizi; ma si procede oltre. Acquisire tale strumento garantisce a ciascuna generazione di individuare la propria legge morale e di cercare autonomamente (qui il rimando alla libertà?) un accordo fra sé e il mondo; e ancora “L’arte figurativa è più vicina della letteratura ad un’esperienza prima e inesplicabile della vita intesa come dono e felicità dell’esistere”; insomma lo studio della storia dell’arte è terapeutico perché sottrae alla convinzione disperante che tutto sia vano o predeterminato.
Siamo ad uno dei passi più intensi dei saggi: Dantini rileva come nello scritto di Longhi faccia capolino un’espressione non scientifica, ma personale, un “sento profondamente”; è qui che lo storico dell’arte/critico, come l’artista, sa di lanciare una suggestione, una scossa al lettore, che poi, dovrà da solo compiere uno “sbalzo”, dopo l’iniziazione.
Suggestione potente è che quel “sento profondamente” fosse partecipato dall’autore.
Lo storico dell’arte è chiamato: se “ogni opera d’arte richiede che le si risponda”, il mandato è colmare la distanza fra linguaggio visivo e verbale; è in virtù di un “sentire” che è necessità, che riesce a farlo metaforicamente, e non solo.
Già in esordio, riguardo a Panofsky, l’autore introduce uno dei topoi dello studio: il rapporto fra opera d’arte e interpretazione, strumenti linguistici, letteratura e - sempre - tempo e storia. Nell’esaminare il padre dell’iconologia, l’autore lo segue attraverso le vicende della sua esistenza, esilio compreso, e pone l’accento su quanto sia difficile separare uomo da studioso connotando e agganciando la lettura ai fatti della storia alla separazione dell’iconologo fra storia dell’arte antica e storia dell’arte moderna dopo Weimar.
Si tratta “di oltrepassare il limite specialistico per ricondurre l’arte all’utilità per la vita” e di farlo “ nel modo più avveduto e scientificamente attendibile”.
E’ per voce di Panofsky stesso, nel necrologio scritto per Warburg nel 1929, che ci si avvicina ad una motivazione: si riferisce che Warburg avesse l’ostinazione di “cercare nell’arte l’espressione simbolica dell’eccitazione culturale destata dalla passione” e ancora (Warburg) “era sorretto dalla volontà, meglio dalla necessità, di considerare le vicende della cultura alla stregua di una storia delle passioni umane che rimangono identiche in uno strato dell’esistenza”.
E’ questa stessa “necessità”, primariamente di senso, che muove anche Dantini.
Non è casuale quindi che Sciami, migrazioni, morfologie dia spazio a una testimonianza-prova di lettura, una sollecitazione per sé e per il lettore proprio su Duchamp, Manzoni, Le Courbusier che vengono rigorosamente e scientificamente messi in relazione alla eredità culturale della quale sono partecipi, pur rappresentando per alcuni versi degli emblemi del dilemma fra scisma e appartenenza.
In ultimo A mo’ di appendice: dieci libri colti contro la pedanteria: il senso della sezione è trovare risposta a “In che modo coabitano erudizione e pensiero critico?” e, più a fondo, alla domanda cruciale del volume: quale può essere l’agenda politico culturale quando il tema sia la trasmissione culturale?
L’autore utilizza qui, ancora, un logos-guida “ho scelto ciò che mi è sembrato essere significativo”, o, come direbbe Baxandall, “relevant”.
Per l’eredità della parola scritta, come per le opere d’arte visiva, l’autore segnala il continuo cambiamento, il fraintendimento, la dimenticanza.
La selezione dei titoli e degli scrittori contiene un altro messaggio: sono testimoni di tentativi di rappresentazione del proprio tempo e di interpretazione di una propria miscela fra solitudine e partecipazione.
Nel corso della lettura in (almeno) due momenti ci si scopre a domandarsi di chi si stia parlando, se dell’autore o dei protagonisti dei suoi studi. Si propende per credere che la risposta sia: di entrambi. Il primo momento è in riferimento ad una metafora longhiana su Piero ove Dantini scrive: “Potremo mai negare l’applauso? L’iridescente cascata metaforica scroscia senza mai esondare”.
Il secondo, preso dall’Obituary of Julius Schlosser scritto da Gombrich: “Le sue conoscenze e i suoi interessi erano troppo numerosi per appagarsi di una qualsiasi specializzazione, la sua visuale troppo vasta, il suo orizzonte troppo esteso” [per essere assorbibile in una specializzazione].
Ogni capitolo è preceduto da epigrafi che costituiscono un ulteriore percorso nel percorso.
La vitalità e la restituzione di senso che ho ricevuto in dono dalla lettura mi suggeriscono di segnalarvene una: “Marchel Duchamp continua ad impartirci lezioni d’amore” - Francis Picabia Ecco, non solo lui. E “Domani chi sa”. Per ricominciare.
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Michele Dantini, Arte e sfera pubblica. Il ruolo critico delle discipline umanistiche, Donzelli, 2016.