La biblioteca (ben gestita) e lo smartphone
Secondo l’Anagrafe Italiana le biblioteche in Italia, a fine dicembre 2014 sono 13.457. Una risorsa che ha tra i suoi punti di forza la diffusione capillare. Ma l’Istat ci dice che i lettori sono in calo: nel 2013, la quota di persone che hanno letto almeno un libro nell’anno precedente per motivi non scolastici o professionali è scesa, passando dal 46% dell’anno precedente al 43%. Nel 2014, secondo l'AIE (Associazione Italiana Editori) la percentuale di chi legge libri in Italia è ulteriormente scesa al 41,1%. Quasi il 60% degli italiani non legge neppure un libro all'anno. In calo come le risorse, umane e finanziare. Quale futuro per queste istituzioni in una società multiculturale, con una composizione generazionale sempre più anziana, con nuovi processi di consumo e produzione culturale?
Grandi le potenzialità se «scuole, biblioteche, teatri, cinema, editoria e università diventano un ecosistema» e la biblioteca evolve in un luogo di socialità, di formazione sempre, ma di informazione, motore primo dell’inclusione e interculturalità. In un momento delicato di transizione, in cui il futuro di molte realtà di matrice provinciale è a rischio, apriamo un dialogo sul tema con Antonella Agnoli.
Consulente di numerose biblioteche per la progettazione dei servizi e la formazione del personale, è una delle voci più autorevoli sul tema nel panorama europeo. Autrice di pubblicazioni centrali sul nuovo ruolo delle biblioteche nelle politiche culturali del XXI secolo. Le «Piazze del sapere», «Caro Sindaco, parliamo di biblioteche», «la biblioteca che vorrei» sono un must per gli operatori e gli amministratori pubblici. Da alcuni giorni è stata nominata Presidente della Fondazione Federiciana, alla quale fanno capo i servizi bibliotecari del comune di Fano. Dalle prime dichiarazioni, che volgono l’attenzione alle partecipazione culturale attiva della comunità anche per le classi creative, c’è da attendere la traduzione operativa dei messaggi in nuovi modelli, come accadde con l’azione strategica svolta alla biblioteca della San Giovanni di Pesaro, della quale è stata direttore scientifico.
La grande questione dei prossimi anni sarà una sola: la disuguaglianza crescente. Sempre più i frutti dell’attività economica vengono sequestrati da una piccola minoranza, mentre chi aspirava semplicemente a una vita senza scosse si trova rincorrere sicurezze che non esistono più. Questo lo possiamo constatare nelle nostre città, dove la privatizzazione degli spazi pubblici e la riduzione dei servizi a cui i comuni sono costretti da anni tendono a deteriorare il tessuto urbano, a innescare una dinamica di segregazione spaziale, con i centri cittadini trasformati in zone di shopping e le periferie, tranne rari casi, abbandonate a se stesse. Per ridurre la sofferenza sociale occorre agire, coinvolgere la gente, dare prova di fantasia e di volontà politica. Le biblioteche sono parte di questo progetto. Non sono la panacea, ci vorrebbe ben altro, ma da qualche parte dobbiamo pure cominciare.
Prima di tutto, occorre mostrare ai cittadini che la biblioteca è ben più ricca, accogliente, intelligente di qualsiasi smartphone. Si sa che grazie all’iPad non solo possiamo restare in contatto con gli amici 24 ore su 24 ma che la comodità, la facilità d’uso, la buona definizione dello schermo ci permettono di scaricare libri, quindi prima o poi la maggioranza dei ricettari di cucina, dei manuali di giardinaggio, dei romanzi e dei saggi passerà da lì. Potremo andare in vacanza, portandoci in un tasca 1000 libri! Se la biblioteca vuole competere con questi utilissimi gadget deve provare ogni giorno, nel suo funzionamento, che gli ideali di democrazia a cui si ispira sono reali. Se vuole fare da incubatore a processi di inclusione e di coesione sociale, se vuole attivare energie nella comunità, non può essere costruita e gestita «dall’alto» ma deve mettersi all’ascolto dei cittadini.
Un primo punto da sottolineare è il fatto che la lettura ha bisogno di tempo, di attenzione, di spazi protetti, male si adatta alle continue interruzioni che l’iPad ci impone. Dico «impone», perché l’essere sempre connessi significa aver rinunciato a quei momenti di solitudine mentale e di concentrazione che la lettura di un libro richiede. Non siamo mai soli, o forse siamo sempre soli in un luna park sfavillante di luci. È svanita la distinzione fra tempo di lavoro e tempo libero, ormai si lavora sempre: in autobus, a casa, in vacanza. L’ossessione è «risparmiare tempo» eppure non troviamo mai tempo sufficienza per una lettura tranquilla.
Se è così, le biblioteche dovrebbero essere chiuse, affittate, o volte ad altro uso. Templi di un mondo scomparso in cui il sapere era per pochi e doveva essere organizzato e custodito da specialisti, le biblioteche dovrebbero sparire, o forse essere conservate solo per il loro valore architettonico, se ne hanno. I cittadini se la caverebbero benissimo anche senza.
Al contrario, delle biblioteche abbiamo molto bisogno, soprattutto in questo momento di crisi economica, sociale, culturale, e di aumento delle disuguaglianze. Come si fa un po’ in tutto il mondo, ha senso metterne in cantiere di nuove, o almeno ristrutturare le vecchie, perché la rivoluzione digitale accresce il bisogno di spazi per l’interazione fisica di chi vuole informarsi, studiare, approfondire, fare ordine nel caos di Internet.
Molti sociologi hanno analizzato la «solitudine del cittadino globale», quel senso di incertezza, di spaesamento che viene dal trionfo dell’economia finanziaria e dall’impotenza degli Stati nazionali ad affrontare fenomeni come l’effetto serra, il terrorismo, la delocalizzazione dei posti di lavoro. Mentre ieri i cittadini traevano un senso di sicurezza e di stabilità dalle istituzioni come i sistemi nazionali delle ferrovie, delle poste, delle pensioni, oggi sono proprio i leader politici a dirci che dobbiamo attenderci cambiamenti radicali in ogni momento, che tutto deve cambiare da una settimana all’altra: il nostro lavoro, i nostri diritti, le nostre aspettative.
Molti sottovalutano l’attaccamento popolare alle certezze della vita quotidiana, sia pure la semplice visita del postino. La memoria di istituzioni apparentemente impersonali ma in realtà percepite come produttrici di solidarietà e di certezza permane fortissima anche a secoli di distanza. Quando si cambiano ogni anno le regole del sistema pensionistico, come hanno fatto i governi italiani dal 1995 in poi, si danneggia gravemente il legame sociale perché si colpiscono le aree di certezza e di stabilità nella vita quotidiana [Agnoli 2014].
Quando si deplora il senso del provvisorio o l’incapacità di fare progetti dei giovani, non si comprende che è stata proprio l’insistenza delle élite e dei mass media sulla «flessibilità» a togliere loro quel minimo di stabilità necessaria a fare progetti per il futuro, una stabilità che derivava dal funzionamento regolare e durevole delle istituzioni. Il rapporto del Censis 2013 definiva la nostra società «sciapa e infelice»: l’85% degli italiani si dice preoccupato, il 71,2% indignato e il 13% arriva a definirsi disperato.
La biblioteca che sappia coinvolgere i cittadini rassicura perché è una piccola prova che teniamo conto degli interessi delle generazioni future in un momento in cui la disoccupazione giovanile è diventata una condizione di massa e permanente. Essa è il simbolo visibile che non tutto ciò che produciamo appartiene alla cultura «usa e getta» ma che abbiamo una memoria, e questa sarebbe già una ragione sufficiente per mantenerla aperta. La biblioteca dimostra che esiste un passato comprensibile e dotato di senso in un mondo schiacciato sul presente. È una «casa della conoscenza» che promette di darci la possibilità di ricostruire il mondo in cui viviamo in copia conforme, dovesse un giorno finire distrutto da una catastrofe ecologica o nucleare.
La biblioteca, al contrario di Google, ci garantisce che la realtà confusa, mutevole, angosciante del mondo esterno è, in qualche modo, sotto controllo. È un investimento sul futuro, non sul passato. Questo senso di stabilità è percepito anche dal comune utente, dobbiamo quindi valorizzare questa forza tranquilla della biblioteca e trasformarla in ciò che i sociologi come Robert Putnam chiamano «capitale sociale»: quell’insieme di pratiche positive che uniscono una comunità e rendono migliore la vita sociale di ciascuno [Agnoli 2009].
Ma se oggi le biblioteche vogliono sopravvivere devono prendere atto delle continue trasformazioni socioculturali, devono essere concepite per pubblici molto diversi (immigrati, pensionati, casalinghe, disoccupati), devono offrire materiali assai differenti (non solo libri ma anche musica e film). Biblioteche dove c’è un impiego intensivo di nuove tecnologie e dove troviamo spazi per lo studio ma soprattutto per la convivialità. Ci si va non solo per prendere a prestito un libro o un film ma anche per incontrare gli amici o scambiare quattro chiacchiere con uno sconosciuto in uno spazio fruibile gratuitamente e lontano dalle pressioni commerciali: sono le nuove piazze del sapere.
Soprattutto, la biblioteca come luogo di eguaglianza perché la nostra società dei consumi odia i poveri e sfoga i propri sensi di colpa cercando di cancellarli dalla propria vista. La biblioteca può – deve – essere un luogo di uguaglianza attraverso la resistenza alla segregazione urbana e all’emarginazione di chi è stato espulso dal mercato del lavoro. Deve offrire una seconda chance a chi è in difficoltà.
La Bpi del Centre Pompidou a Parigi fa un vanto di questo suo ruolo, autodefinendosi «un luogo di resistenza alla stigmatizzazione sociale» [Paugam-Giorgetti 2013]. I due autori scrivono: «Per delle persone in difficoltà, entrare ed essere accettati in una biblioteca pubblica è il segnale che non sono identificate come appartenenti a una categoria specifica. Mentre molte di loro fanno l’esperienza dell’inferiorità del loro status quando si indirizzano ai servizi sociali, dove sono immediatamente catalogate come ‘poveri’ [...] alla Bpi possono liberamente entrare, accomodarsi e fondersi progressivamente nell’anonimato dei lettori» [ibidem].
La possibilità di utilizzare la biblioteca come luogo di accesso a Internet per cercare lavoro, pagare le tasse o chiedere un sussidio è essenziale per le persone più vulnerabili, per chi non sa o non può fare altrimenti: immigrati, sfrattati, disoccupati vittime della crisi. Non è un caso che siano italiani, greci e spagnoli a usare di più la biblioteca per questi motivi. Potrebbero essere molti di più se le biblioteche aumentassero il loro impegno nei corsi di formazione all’uso del computer e delle risorse della Rete.
Non c’è però solo l’assistenza, al contrario: la biblioteca è una risorsa straordinaria per le classi creative. Nel mondo in cui viviamo, l’economia della cultura non solo conta ma è uno dei pochi settori in cui l’Italia avrebbe qualche chance di competere: già oggi dà lavoro a 1,5 milioni di persone. Il design, la moda, la gastronomia sono beni simbolici oppure no? E se sono beni simbolici, come possono essere costruiti se non attraverso processi culturali? E questi processi culturali nascono sugli alberi o sono il frutto di un ambiente che li stimola, di un ecosistema? La biblioteca è uno snodo, oggi molto sottoutilizzato, di questo ecosistema.
Molti economisti hanno lavorato sulla questione. Oggi i social network che costituisco una base per esperienze e relazioni formidabili, sono anche le piattaforme più efficaci e propulsive per i flussi di comunicazione tra gli individui. Potenzialmente questi flussi si possono manifestare anche come forme di apprendimento collettivo.
Dobbiamo guardare a scuole, biblioteche, teatri, cinema, editoria e università come a un ecosistema in cui ogni parte interagisce con tutte le altre, uno strumento di apprendimento collettivo che non solo migliora la qualità della vita e la buona salute democratica del paese, ma accresce anche il sapere localizzato come fattore di competitività territoriale.
Essere il paese di Leonardo e Michelangelo non basta: occorre creare nel mondo la percezione che oggi siamo in grado di creare scarpe più belle, vini più buoni, lampade più eleganti. E questi prodotti di consumo non nascono per caso: nascono attingendo all’immenso serbatoio di bellezza che ci circonda e lavorando con le tecnologie disponibili per valorizzarlo.
Occorre lavorare su tutte le articolazioni del sistema scuola-cultura-formazione-ricerca e, in quest’ambito, non considerare le biblioteche rinnovate un costo ma un investimento fondamentale per la crescita democratica, economica e per contribuire a processi di inclusione e coesione sociale.
© Riproduzione riservata
Antonella Agnoli
Bibliografia:
Agnoli, A. [2009], Le piazze del sapere, Laterza, Roma-Bari
Agnoli, A. [2014], La biblioteca che vorrei, Editrice Bibliografica, Milano
CENSIS [2013], I valori degli italiani nel 2013, Censis, Roma
Paugam, S., Giorgetti C. [2013], Des pauvres à la bibliothèque, Puf, Paris.