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Come gestiremo la cultura?

  • Pubblicato il: 12/10/2012 - 13:37
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Alessandro Hinna
Alessandro Hinna

E’ da più parti ormai evidenziato come il generale slittamento istituzionale delle attività di policy verso Regioni ed Enti locali – sommato alle varie forme di coinvolgimento della comunità e, quindi, alla nuova organizzazione degli attori – rappresenti una risposta adattiva della Pubblica amministrazione (centrale e locale) di fronte alla restrizione delle risorse economiche disponibili e all’esigenza di meglio articolare la produzione e l’offerta di beni pubblici.
Questa sembrerebbe la motivazione essenziale della particolare contaminazione di pubblico e privato tipica di molti enti che intervengono in ambiti propri del non profit, spiegando quel particolare favore che il legislatore italiano ha voluto riconoscere al mondo delle fondazioni sin dai primi anni Novanta, andando a comporre un quadro giuridico particolarmente ricco e complesso, arrivando ad ampliare lo spettro semantico del sostantivo fondazione.
Ne sono derivate istituzioni dalle caratteristiche assolutamente peculiari, di elevata complessità organizzativa, difficilmente riscontrabili in contesti istituzionali diversi da quello italiano e solo in parte rintracciabili nella letteratura specialistica dedicata all’analisi tanto delle aziende non profit in senso stretto, quanto delle aziende pubbliche tout court.
Il dato, così rilevato, motiva oggi un «bilancio» e, quindi, un’approfondita analisi delle opportunità e degli spazi applicativi di detto istituto nel campo della conservazione e gestione di beni e attività culturali. In questo settore, infatti, forse più che in ogni altro, il ricorso a fondazioni sembra arricchirsi di significati fino allo scorso decennio né dichiarati né immaginati. Per la verità, la costituzione di fondazioni di partecipazione per la gestione dei beni e attività culturali ha da subito assunto una valenza di per sé innovativa, anche quando gli obiettivi di efficienza ed efficacia attesi non sembravano ancora essere raggiunti. Probabilmente, la dominanza di una élite professionale di matrice giuridico/amministrativa, validato da un più generale processo di riforma della organizzazione degli enti locali, ha giocato un ruolo decisivo nella costituzione di pressioni isomorfiche e nel definire le innovazioni normative non come presupposto, ma come (già) testimonianza di rinnovamento organizzativo, con graduale arricchimento di elementi simbolici capaci di influenzare gli operatori del settore.
Si spiega così il timore, da molti ormai avvertito, di una «moda fondazionale» che ha affidato alla scelta della forma giuridica istituzionale la possibilità di innovare le modalità di gestione dei beni e delle attività culturali, spesso ignorando della necessità di intervenire su aspetti più propriamente strategici e gestionali.

Ri-partiamo dall’idea di Patrimonio culturale come bene «comune»
Ciò detto, evidentemente, non si vuole certo escludere o accantonare la possibilità di un potenziale spazio applicativo dell’istituto fondazionale per un innovazione delle modalità di gestione dei beni e delle attività culturali, ma piuttosto evidenziare come la fattibilità di quest’ultima ipotesi sia strettamente legata ad un principio di generale di coerenza tra (a) progetto istituzionale, (b) configurazione organizzativa della gestione dei beni e delle attività o servizi e (c) meccanismi istituzionali preposti all’equilibrio dinamico dei rapporti tra i soggetti a vario titolo coinvolti. Non è, quindi, con la «corsa agli statuti» che reali processi di innovazione potranno essere avviati e sostenuti. Piuttosto, così facendo, si corre il rischio di costringere le possibilità (reali) di innovazione delle modalità di gestione in un sistema di regole e consuetudini che potrebbero mortificare (anziché supportare) i necessari percorsi di partecipazione, dialogo e relazione, tra soggetti pubblici e privati nella gestione di un bene, il patrimonio culturale, che prima che pubblico vorremmo qui ri-chiamare «comune».
Proprio in una logica di un «patrimonio cultuale come bene comune» (e, quindi, di un patrimonio che di per sé non è né “del pubblico”, né «del privato» ma, appunto, di “tutti” ) dovrebbero essere quindi pensate le nuove forme di equilibrio e collaborazione tra soggetti pubblici e privati, inaugurando prassi e metodi gestionali non più appartenenti né alla logica pubblicistica tipica della delega gestionale allo Stato, né a quella privatistica strettamente orientata alla congrua remunerazione del capitale investito.
In questo quadro, e dovendo per necessità schematizzare, crediamo possano definirsi spazi di innovazione del partenariato pubblico-privato, sia di natura istituzionale sia di natura convenzionale, offrendo nuova forza e vigore alla dimensione, appunto, della «partecipazione». Una dimensione, questa, la cui necessità di rinnovamento è testimoniata, per ora con esiti incerti e premesse non del tutto condivisibili, da esperienze come quelle del Teatro Valle a Roma o, ancora, il caso Macao a Milano.

Per-corsi di innovazione del partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale
Come noto, si è usuali indicare come pubblico-privato di tipo istituzionale, quelle forme di partenariato ove la cooperazione tra i soggetti avviene nell’ambito di un’entità distinta dotata di personalità giuridica propria. In questo contesto, e nello specifico settore delle fondazioni, riteniamo che la domanda di partecipazione debba trovare risposta in una maggiore compenetrazione di elementi delle fondazioni di partecipazione con quelli propri delle fondazioni di comunità, aumentando le occasioni di dialogo con la comunità locale anche attraverso una pluralità di canali di partecipazione finanziaria e operativa all’istituzione, assumendo quindi in maniera più efficace la funzione di «aiutare dall’alto» i soggetti locali a mobilitare «dal basso» le risorse e le competenze necessarie per una maggiore competitività del territorio. Le nuove fondazioni verrebbero così investite di un ruolo di tipo non tanto gestionale, quanto piuttosto di governance territoriale, innestando nel territorio patrimoni conoscitivi e schemi di relazione ad alta densità di allineamento valoriale. Se pensati, quindi, innanzitutto come centri di governo e coordinamento strategico di forme di rete (anche distrettuali) tra soggetti pubblici e privati, gli istituti fondazionali potrebbero fungere da «community development corporation», espressione di una forma innovativa di soggettività sociale e nuovo strumento della progettualità locale in campo culturale. Attraverso un oculato investimento in capitale reputazionale, esse potranno nel tempo trovare un sempre più forte radicamento nel territorio, potendo (a) così generare maggiori economie di scala e di scopo rispetto ai progetti di investimento, (b) amplificare il circuito di esternalità positive rispetto alla natura dei progetti e delle risorse del contesto; (c) attivare e sostenere forme di progettualità di lungo periodo; (d) favorire meccanismi di auto-sostentamento, replicazione, empowerment e capacity building degli attori presenti sul territorio. Più in generale, la messa in circolo di logiche di azione e pratiche differenziate e risorse integrate (denaro, competenze, capacità), sommata alla creazione di uno spazio privilegiato di agency ed empowerment degli attori, può portare a effetti di «capitalizzazione sociale», creando le condizioni per un sistema di relazione tra cittadini, imprese e istituzioni locali sempre più efficace.
Solo in questi termini, a nostro modo di vedere, si potrà parlare di un sistema capace di favorire, partendo dalle risorse culturali del territorio, la democrazia e lo sviluppo locale dei singoli contesti. La logica, qui richiamata in senso più evocativo che effettuale, è pertanto quella di utilizzare l’istituto fondazionale (anche) per un investimento nella «comunità concreta» di memoria olivettiana, che all’interno di un più complesso e articolato disegno d’ingegneria istituzionale, richiamava la cultura come elemento di coesione sociale e fattore di crescita della competitività economica del territorio.
Passi altrettanto importanti, se non più importanti, potrebbero compiersi nell’ambito del partenariato pubblico – privato basato su legami di natura più semplicemente convenzionale. E’ questo un campo, forse anche per i motivi sopra richiamati, precocemente abbandonato sul piano teorico, politico e pratico ma che, invece, può oggi offrire spunti particolarmente interessanti di sperimentazione. Ciò, tanto più se ci si sposta dai temi di governance territoriale (per cui probabilmente il partenariato istituzionale presenta oggettivi vantaggi comparati) ai temi della efficiente gestione di singoli (o insiemi di) beni, attività o servizi culturali.
Qui, nel campo quindi più squisitamente gestionale, possono infatti ricercarsi gli spazi per un coinvolgimento dei soggetti privati, siano essi profit o non profit oriented, non tanto (o non solo) nella veste di meri finanziatori (caso più tipico della fondazione di partecipazione o del contratto di sponsorizzazione) o di meri operatori (impostazione dominante della maggioranza delle concessione di servizi culturali), bensì come portatori di competenze tecnico professionali altrimenti non accessibili (in quanto non possedute o non acquisibili) al settore pubblico, con conseguente ottimizzazione dell’uso delle risorse a parità di servizio (o miglioramento dei servizi a parità di spesa).
Perché questo accada, però, è necessario «pensare» il partenariato pubblico-privato nella gestione beni, attività o servizi culturali in quanto funzionale alla efficiente allocazione dei rischi di economici e sociali delle gestioni, cercando dove possibile non di stravolgere ma di valorizzare la differenti caratteristiche istituzionali, organizzative, finanziarie e culturali dei soggetti in gioco.
Senza entrare nel dettaglio tecnico, si vuole qui sinteticamente richiamare la opportunità di avviare percorsi di azioni che sono, allo stesso tempo, cooperativi e competitivi, in quanto possono offrire a noi tutti la «opportunità di meritare» uno spazio di azione, in quado di massima trasparenza. Pari opportunità, merito e trasparenza sono elementi che, ovviamente, anche le forme di partenariato di natura istituzionale possono garantire, ma con diversa efficacia e continuità. Sul piano teorico è agevole osservare, infatti, come la organizzazione dei rapporti su piano convenzionale e non istituzionale potrebbe meglio garantire il principio di distinzione dei ruoli tra chi regola e chi eroga, chi indirizza e chi gestisce, chi tutela e chi promuove, chi fa e chi controlla, evitando così il rischio di autoreferenzialità proprio della partecipazione a una struttura comune.
La differente struttura dei contratti premierebbe, quindi, la costruzione di rapporti a geometria variabile, distinguendo e valorizzando i contributi delle parti. E’ questo, ad esempio, quanto «potrebbe» accadere grazie alla recente attuazione del Codice dei contratti pubblici (D.P.R. n. 207/2010) che ha reso operativo l’istituto del promotore di servizi pubblici, consentendo la possibilità di avviare la procedura di affidamento della concessione di servizi su iniziativa privata. Trattasi, a nostro modo di intendere, di un istituto di grande interesse, ma fino ad oggi raramente esplorato e discusso non tanto, noi crediamo, per vincoli ostativi di natura tecnico-finanziaria, quanto piuttosto per una struttura di relazione tra pubblico e privato che con difficoltà riesce a rinnovarsi nei propri atteggiamenti e posizioni. L’una e l’altra parte, sono nella maggioranza dei casi ancora culturalmente non attrezzate alla sfida che il legislatore sembrerebbe voler proporre: se da una parte, il settore pubblico sembra non riuscire ad abbandonare la tentazione della «programmazione e gestione» anche in condizioni di scarsità oggettiva di risorse e competenze, dall’altra lo scontato inserimento delle politiche culturali tra le politiche di welfare non ha stimolato la formazione di una classe imprenditoriale capace di proporsi come partner professionale nella gestione di servizi complessi (quali sono appunto i servizi culturali), limitando spesso il proprio spazio di azione alla presa in consegna del bene e, quindi, alla mera attuazione di iniziative da altri decise.
Forse in questo dato di natura culturale, prima che tecnica, si misura la fattibilità di nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato per la gestione dei servizi culturali.

Alessandro Hinna, Facoltà di Economia- Università Tor Vergata-Roma

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