Ad ArtLab la cultura si cala nel sistema economico e si scopre un altro enorme debito dell’Italia, quello estetico
Lecce. Misurare la cultura è possibile e proprio del contributo del «sistema produttivo culturale» al valore aggiunto e all’occupazione del nostro Paese si è parlato nell’incontro moderato da Ugo Bacchella, che ha coinvolto, tra gli altri, Elena Petruzzi, Presidente della Fondazione Industriale Adriatica, Cristiano Seganfreddo, Direttore generale dell’Associazione Progetto Marzotto, e diversi rappresentanti del mondo economico del territorio.
Il Presidente di Fitzcarraldo lancia subito un dato, che certo fa riflettere: l’investimento nelle industrie culturali e creative della Korea è pari a due volte e mezzo il PIL italiano.
Si prosegue a parlare di numeri, con la presentazione da parte di Marco Pini, Ricercatore Camcom Universitas Mercatorum, dello studio «L’Italia che verrà», realizzato da Unioncamere e Fondazione Symbola, in partnership con la Regione Marche e il coordinamento del Prof. Sacco.
Il Rapporto analizza le industrie culturali nel mondo per poi delineare il modello italiano e tracciare il perimetro economico del nostro sistema produttivo culturale.
Pini spiega che «la cultura è un segmento dell’economia anticiclico, con una maggiore capacità di resilienza rispetto ad altri comparti economici». In altre parole, la cultura sembra reggere meglio la crisi e sul nostro «saper produrre», unico al mondo, si deve costruire il futuro del Paese.
Ma di quale cultura stiamo parlando? Sono le industrie culturali e creative, compresi i settori manifatturieri del Made in Italy, il patrimonio storico e artistico, le performing arts e le arti visive e tutte le specifiche attività economiche di imprese, istituzioni pubbliche e non profit, arrivando a definire una filiera che coinvolge anche altri settori, dalla formazione al turismo.
Lo studio di Unioncamere dà così una connotazione economica alla cultura, con l’obiettivo di costruire un nuovo modello di sviluppo a base culturale, che sia socialmente ed economicamente efficace e sostenibile.
Quali dimensioni e ruolo la produzione di cultura assume all’interno del nostro tessuto economico? E quale contributo il sistema produttivo culturale dà al valore aggiunto e all’occupazione del sistema Italia? Ecco qualche numero.
Nel 2011, il valore aggiunto del sistema produttivo culturale italiano ammonta a quasi 76 miliardi di euro, con circa 443.000 imprese (il 7,6% dell’intero tessuto produttivo), 1,39 milioni di addetti, generando il doppio dell’occupazione di settori quali la finanza e le assicurazioni. La resistenza del settore alle difficoltà congiunturali trova conferma in una forte tenuta occupazionale, con 10.000 assunzioni (rigorosamente high-skilled) programmate nel 2012 e ascrivibili al comparto culturale.
Tra le professioni più richieste vi sono gli analisti e progettisti di software, i tecnici della vendita e distribuzione, gli operatori per la ripresa e la produzione audio-video, i tecnici del marketing. E proprio dall’analisi del mercato del lavoro di queste industrie emergono difficoltà legate alla stabilità contrattuale, al reperimento di giovani con un’adeguata formazione e con le giuste competenze.
Quelli presentati da Pini sono certo dati confortanti, che uniscono però settori eterogenei, anche se tutti riconducili al mondo della cultura e della creatività, con problemi assai diversi a livello, ad esempio, di politica economica e di mercato del lavoro.
E a mettere in evidenza le difficoltà del sistema creativo italiano c’è Cristiano Seganfreddo, che porta l’attenzione sull’arretratezza del nostro Paese e sullo spread estetico (e quindi strutturale) che grava sulla nostra economia. Siamo sempre più marginali e solo generando processi attivi e producendo contemporaneità, all’interno di un ambiente tridimensionale che unisca economia, cultura e società, possiamo tornare ad occupare una posizione centrale. «Dobbiamo riposizionare il Paese a livello culturale, costruendo un’agenda strategica. La società italiana ė un hardware straordinario che gira con un software degli anni '90. Per questo la nostra cultura e' diventata periferica: manifestiamo un'estetica degli anni '80 e pensiamo sia ancora cool.»
Seganfreddo propone di ragionare sul concetto di diversità, che rappresenta al tempo stesso un vantaggio e un problema per il nostro Paese. Solo aggregando le diversità italiane, facendo corrispondere ad una rete di imprese una rete territoriale culturale possiamo far evolvere il nostro sistema, produrre valore, dare vita a qualcosa di interessante per il mondo, riprendere la nostra posizione.
Aspettiamo proposte concrete.
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