Waiting for ArtLab. Il bilancio di missione della Fondazione Musei Senesi dà valore a trasparenza, accessibilità, partecipazione e capacità di fare network
Il Giornale delle Fondazioni dà il via al confronto sulle politiche, l'economia e il management della cultura, anticipando idee e temi sviluppati negli incontri di ArtLab 12. Questa settimana intervistiamo Luigi Di Corato, direttore generale della Fondazione Musei Senesi, tra i protagonisti dell'appuntamento dedicato alle fondazioni di partecipazione e alle altre forme di collaborazione pubblico – privato per la gestione dei servizi culturali.
Quali sono gli elementi di innovazione che propone la Fondazione Musei Senesi (FMS)? In particolare, ci parli del sistema di accountability adottato dalla Fondazione e del vostro nuovo Bilancio di Missione digitale? Quali strumenti utilizzate per misurare i risultati economici e sociali prodotti?
I veri temi sui quali un’istituzione «mission oriented» come la nostra si deve confrontare, anche per essere credibile non solo sul mercato della ricerca di risorse, sono trasparenza e misurabilità. Totale trasparenza sia sui processi che su programmi e progetti, così come sulla capacità di realizzarli e sui risultati concreti che sono in grado di produrre. Abbiamo lavorato un anno intero sul nostro Bilancio di Missione, tanto che si è trasformato in un vero rapporto triennale sul funzionamento e le attività della Fondazione. Nuova è l’idea di dare evidenza al nostro operato nel triennio, così come nuovo sarà il formato che utilizzeremo per raccontarci. Le oltre 200 pagine di testi, immagini, grafici, ma anche di immagini, video e widget saranno in formato iBooks (tutto sarà scaricabile on-line dall’1 ottobre sia dal sito www.museisenesi.org, che gratuitamente da iTunes, ma per chi non ha un ipad sarà disponibile anche la versione non interattiva in formato pdf). Saranno presentati i dati economico-finanziari del triennio corredati da una serie di indici di performance sia qualitativi che quantitativi, la mappa dei processi con cui prendiamo le decisioni e realizziamo le nostre attività, ma anche tutti i progetti realizzati e quelli in corso, il monitoraggio del loro stato di avanzamento, oltre che l’elenco dei fornitori di cui ci siamo serviti e le regole che utilizziamo per conferire gli incarichi o acquistare beni e servizi. Per misurare in modo corretto la nostra capacitare di conseguire la mission, abbiamo identificato un sistema di kpi da dimostrare che si può fare cultura grazie ad un’autentica cultura di impresa, arrivando ad essere, in alcuni casi, più sperimentali delle stesse imprese nell’utilizzo degli strumenti di accountability.
Tutto questo non perché siamo bravi, ma perché è nostro dovere in quanto ente non profit. Se si vuole essere sostenibili, sia dal punto di vista economico, ma anche sociale e culturale, non basta dire che siamo una fondazione che si occupa di musei, ma dobbiamo dire come lo facciamo, quali risultati vogliamo ottenere, quali strumenti utilizziamo per raggiungere i nostri obiettivi, come questi strumenti stanno dando prova di successo, senza paura dell’insuccesso di fronte a risultati negativi. Il nostro scopo è fare in modo che tutti possano verificare nel tempo se quello che diciamo è vero e lo facciamo davvero. La nostra attività si basa sulla fiducia, sui rapporti che creiamo con gli stakeholder e in particolare con i più importanti stakeholder della Fondazione: i cittadini.
Come si diceva, oggi la tecnologia ci offre strumenti più efficaci, che possono restituire ancora meglio i contenuti, rendendoli anche fisicamente più accessibili.
Ciò che realizzeremo d’ora in avanti in termini editoriali sarà fatto nell’ambito dei new media e nella costante ricerca di un equilibrio tra innovazione e scientificità, pensando alla nostra Fondazione anche come ad un’azienda in grado di produrre contenuti in ottica multicanale che permettano ai musei di dematerializzare in modo intelligente il patrimonio che conservano, rendendo così trasmissibili anche quei contenuti che oggi stentano ad «uscire» dall’oggetto musealizzato.
In questo modo possiamo sia aumentare davvero le potenzialità educative del museo, sia dare garanzie di novità, oltre che di capacità di vivere il presente, a chi nel mondo dell’impresa è alla ricerca di contenuti e ha il desiderio di associare il proprio marchio a valori come questi.
Il Bilancio di Missione è stato autoprodotto dalla FMS, ma sarebbe stato impossibile da affrontare senza il supporto del nostro network, composto da istituzioni, università, imprese, anche del terzo settore, da coloro che fisicamente lavorano nei musei, dai 32 giovani volontari del servizio civile regionale. Abbiamo costruito in tre anni un’economia di network, unico presupposto possibile per generare contenuti e strumenti concretamente pensati e destinati al cittadino e ad un utente che vuole vivere una nuova esperienza culturale. Il valore del nostro modello di gestione sta proprio in questo, nella capacità di coinvolgere e fare rete, un valore dinamico e destinato a crescere nel tempo a servizio non solo delle comunità locali. A nostro avviso, questa è l’unica pratica possibile se si vuole trovare un’effettiva sostenibilità all’investimento nei musei diffusi che non sia solo retorica.
Attraverso la «formula» sistemi-distretti-ecomusei, la FMS lavora per lo sviluppo culturale, sociale ed economico delle terre di Siena. Quale impatto ha la cultura sull’innovazione e sulla tensione al cambiamento del territorio senese?
L’impatto reale può essere misurato solo nel medio-lungo termine. Noi stiamo cercando di coniugare tre modelli di gestione che sono stati così tanto dibattuti in questi anni da diventare quasi formule vuote. I sistemi museali sono uno strumento del management, servono a far funzionare meglio le cose, a spendere meglio i soldi e ad aumentare l’impatto degli investimenti; i distretti culturali possono servire a creare economie di filiera ed economie della conoscenza, perché mettono un asset così prestigioso come il patrimonio culturale a disposizione del territorio non in una logica di free riding, ma di condivisione non solo degli investimenti, ma degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Gli ecomusei rendono possibile la partecipazione dei veri proprietari del patrimonio culturale, ovvero i cittadini. Mettere in stretta relazione mondi apparentemente lontani in un unico modello di gestione significa provare ad essere protagonisti di nuovi orizzonti di sviluppo economico e sociale del territorio a «base culturale», anche attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini. Solo dalla contaminazione di questi tre modelli si può ottenere qualcosa.
Questo significa lavorare con le comunità locali, essere «spietati e rigorosi» nella gestione delle risorse cercando sempre i migliori impieghi e i massimi risparmi, ma anche il raggiungimento di risultati ottimali e soddisfacenti per il lavoratori. E significa farlo insieme alle imprese del territorio, che possono ottenere un vantaggio nell’avere, ad esempio, un Caravaggio scoperto a Montepulciano, al punto da portare il Consorzio del vino nobile a vestire le bottiglie proprio con la foto di quel dipinto che recentemente è stato attribuito ad uno dei più grandi protagonisti della pittura italiana. Cose apparentemente lontane, sono molto più vicine di quanto si possa pensare perché possono dire: «veniamo dallo stesso posto».
Nascono così economie della collaborazione, che danno senso ad un sistema che può allargarsi fino ad intrecciare tutte le componenti della comunità.
La fondazione, in particolare quella di partecipazione, è davvero la soluzione ai tanti problemi del sistema culturale italiano? O è meglio prima di tutto ragionare sulla strategia e sul modello gestionale che, fatto salvo il ruolo dell’ente pubblico, ricorra a soggetti idonei ad assicurare efficaci ed efficienti risposte alle urgenze del nostro patrimonio? Cosa deve prima di tutto chiedere il settore culturale al privato: finanziamenti o un nuovo modello per gestire il proprio patrimonio?
Non è la panacea, non è l’unica soluzione, è uno strumento relativamente nuovo, a volte molto travisato. L’ente pubblico che costituisce una fondazione di partecipazione pensa che mettendo a disposizione un fondo di dotazione, anche cospicuo, abbia risolto il problema della gestione. In realtà le contingenze degli ultimi 3 anni dimostrano che il punto è assicurare non tanto un fondo di dotazione importante, ma un modello gestionale che funzioni.
L’atto di costituzione è l’inizio di una filiera di atti di responsabilità che diventano imprescindibili per la durata nel tempo di un istituto che effettivamente può essere molto più versatile di una fondazione tradizionale. Il punto è proprio questo: la capacità di durare nel tempo. La fondazione di partecipazione è utile perché apre la governance alla partecipazione dei privati, ma se si pensa di surrogare la responsabilità del fondatore attraverso meccanismi di funding e il coinvolgimento dei privati ci si sbaglia di grosso. Ho apprezzato il decreto che prevede la Fondazione di Brera, perché esprime chiaramente che diventano partecipanti coloro che entrano almeno in parte uguale rispetto alla quota del Ministero, ovvero coloro che si impegnano a mettere sul tavolo un investimento sufficiente a garantire la nascita, ma anche lo sviluppo dell’istituzione nel tempo.
La Fondazione nasce per durare, consegna un patrimonio all’assolvimento di un obiettivo nel tempo, all’interno di una visione di lungo termine. Se questo non accade, tanti soggetti che nascono sulla scorta di entusiasmo, rischiano di morire dopo poco o di agonizzare per anni in condizioni improbabili.
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